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Trovo squallide, vergognose, ripugnanti, le polemiche politiche che si scatenano ogni volta che il nostro territorio viene colpito da eventi naturali. Partiamo da Roma. Roma, come quasi tutta l’Italia, ha vissuto un lungo periodo di siccità tanto da mettere in pericolo, anche se solo parzialmente, l’approvvigionamento idrico della Capitale. Di chi la colpa? Naturalmente del sindaco Virginia Raggi per cui si è dovuto cambiare il vecchio brocardo popolare “piove, governo ladro” in “non piove, governo ladro”. Nei giorni scorsi a Roma è piovuto. In realtà non è successo assolutamente niente se non i soliti ingorghi che ci sono in presenza di un temporale e qualche strada che si è screpolata. Tant’è che la partita Lazio-Milan si è giocata regolarmente e l’ulteriore ritardo su quello già stabilito di un’ora è stato dovuto al fatto che la pioggia rendeva difficoltosi i collegamenti fra l’arbitro e il famigerato VAR. Di chi è la colpa? Di Virginia Raggi naturalmente.

I fatti gravi sono successi a Livorno dove ci sono state sette vittime. Che ci poteva fare il sindaco Nogarin, la cui appartenenza ai Cinque Stelle è stata sottolineata con forza e anche un pizzico di libidine, se il Servizio Metereologico aveva sbagliato le previsioni e il fortunale invece di colpire Genova (dove si erano attrezzati rinviando fra l’altro la partita Sampdoria-Roma) si è invece diretto sulla costa toscana? Il Servizio Meteorologico non è infallibile come si è visto negli Stati Uniti dove l’uragano Irma doveva colpire Miami Beach invece si è abbattuto soprattutto sulle isole caraibiche (perché, è proprio il caso di dirlo, piove sempre sul bagnato) facendo 27 vittime. Il fatto è che nonostante gli straordinari mezzi tecnologici che abbiamo oggi, come i satelliti, la Natura sfugge alla nostra ossessione del controllo.

Nel dopoguerra in Italia, a parte quella eccezionale del Polesine nel novembre 1951che causò circa 100 vittime e più di180.000 senzatetto, le alluvioni a ottobre e novembre, che è la nostra stagione delle piogge, ci sono sempre state senza provocare gravi danni. Da qualche decennio invece assistiamo regolarmente a uno stillicidio continuo di fenomeni naturali con conseguenze devastanti. Basta che non un torrente e nemmeno un rivo ma un rigagnolo, come scrive Ferruccio Sansa, sia bloccato da un albero o faccia esplodere il cemento che lo ricopre, e abbiamo la tragedia. Cos’è successo nel frattempo? Si coniugano qui due fenomeni. L’indubbio cambiamento del clima che coinvolge l’intero pianeta dovuto alle emissioni di Co2, ma sarebbe meglio dire dovuto all’ossessione della produzione ai fini della crescita economica, illimitata e infinita. E, parlando solo dell’Italia, all’altrettanto inarrestabile cementificazione, sempre allo stesso scopo. Insomma: il mito della crescita.

Non ci voleva molto a capire che l’attuale modello di sviluppo non solo ci avrebbe portato dove ci ha portato ma finirà in un disastro planetario di cui quello ambientale è solo una parte e non la più importante. E chi lo diceva e magari lo scriveva, quando forse si era ancora in tempo per innestare la retromarcia, era bollato come un folle, un antilluminista, un bieco antimodernista.

Adesso col progredire dell’autunno ci aspettano altre vicende come quella di Livorno. E rimontare la china non è questione di questo o di quel sindaco o del Presidente di una regione e nemmeno del Governo, della Protezione Civile, del Servizio Meteorologico. Qualora s’intendesse realmente farlo, ma ciò comporterebbe un cambio radicale di un modello di sviluppo che non è più occidentale ma è riuscito a coinvolgere Paesi con culture fortissime, e in tutt’altro senso orientate, come la Cina e l’India, non basterà un anno o dieci anni e forse nemmeno un mezzo secolo.

Ritornando alle polemiche politiche cui, ce ne rendiamo conto, partecipiamo anche noi proprio nel momento in cui le contestiamo, dovremmo imparare, una volta tanto, dagli Stati Uniti dove queste polemiche non ci sono state e la Nazione è restata unita e compatta.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 12 settembre 2017

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Gli editoriali del professor Angelo Panebianco sono fulminanti. Iniziano, in genere, con la scoperta dell’acqua calda, ma con grande autorità e anche con l’aria di aver detto qualcosa di pericoloso per l’autore. Così inizia un articolo del professore sul Corriere della Sera del 28.8: “Si sa che lo Stato di Israele, anche se non lo ha mai ammesso ufficialmente, possiede l’arma atomica”. Perbacco. Ma questo esordio al fulmicotone serve al professore per affermare ciò che più gli preme e cioè che le Atomiche se in mano ai dittatori sono un pericolo mortale, se invece ce l’hanno le Democrazie stan lì solo per figura. Per la verità, almeno finora, l’unica Nazione al mondo ad aver sganciato un’Atomica, anzi due, è stata la più grande Democrazia del pianeta, gli Stati Uniti d’America, a Hiroshima il 6 agosto del 1945 e tre giorni dopo, quando si conoscevano bene gli effetti devastanti di quest’arma nucleare avendola già ‘testata’, a Nagasaki. Ma seguiamo il professor Panebianco nel suo argomentare, perché è in qualche modo divertente. “Ma neppure i suoi più viscerali nemici pensano che Israele potrebbe lanciare ‘a freddo’ un attacco nucleare contro gli Stati (come l’Iran) che ogni giorno ne invocano la distruzione”. Per la verità Israele che ha i suoi missili nucleari puntati su Teheran ha minacciato più volte di usare contro l’Iran ‘atomiche tattiche’ (in che senso delle atomiche possano essere ‘tattiche’ qualcuno ce lo dovrebbe spiegare perché una volta che è avvenuta la scissione dell’atomo non si possono più limitare i suoi effetti devastanti). L’Iran di Ahmadinejad (e a maggior ragione quello di Rouhani) si è solo limitato ad augurarsi che Israele sparisse dalle carte geografiche. C’è una qualche differenza. La minaccia di Israele, paese democratico, democraticissimo, è concreta perché Israele l’Atomica ce l’ha, quella iraniana è solo verbale e retorica perché l’Iran l’Atomica non ce l’ha. Ma il professor Panebianco ribadisce che in tema di armi nucleari la distinzione fra Democrazie e Dittature è essenziale. Una democrazia “è sottoposta a vincoli interni ed esterni…invece, le armi nucleari di un regime totalitario nel quale il dittatore è libero di fare quello che gli pare, fanno paura a prescindere”. Anche se il professor Panebinaco si dichiara laico questo è un cattolico, cattolicissimo, processo alle intenzioni.

Quindi il professor Panebianco vira bruscamente su altri argomenti che con l’Atomica c’entrano assai poco. “C’è, per esempio, molta gente in Europa che, in odio agli americani, preferirebbe sostituire all’alleanza con gli Stati Uniti un’alleanza con la Russia, affidare la propria sicurezza ai russi. Fingono di non sapere (o non sanno) che passare da una alleanza con una democrazia autentica –che resta tale persino nell’epoca di Trump- a una alleanza con un regime autoritario (o, se si preferisce, con una democrazia illiberale) significa accettare che, alla lunga, si verifichino cambiamenti nella qualità della propria vita pubblica, accettare che il nuovo alleato vi inietti veleni autoritari”. Oh bella. A noi risulta che è dalla fine della Seconda guerra mondiale che gli Stati Uniti “iniettano” in Europa la loro potenza militare (hanno ottanta basi, anche atomiche, in Germania, una sessantina, anche atomiche, in Italia), economica, il ‘modus vivendi’, la cultura e persino la lingua, il killer english, come l’ha definito il giovane filologo classico Miska Ruggeri nel suo libro Giù le mani dal Liceo Classico.

Il problema per l’Europa non è se appoggiarsi, per la propria difesa, agli Stati Uniti o alla Russia, ma di farsi un proprio esercito. A questo progetto mi pare stia lavorando, sia pur con le necessarie cautele, l’unico uomo di Stato che abbiamo in Europa, vale a dire Angela Merkel.

Poi il professor Panebianco con le sue giravolte, tuffi carpiati e acrobatici, affronta, con spericolato coraggio, un altro argomento che riguarda i rapporti fra Democrazie e Dittature. “Non c’era bisogno di aspettare le ultime mosse del presidente Maduro per capire che cosa fosse diventato il Venezuela, che cosa fosse già all’epoca di Chavez. Ma siccome i suddetti caudillos si opponevano al ‘capitale finanziario internazionale’, ossia agli Stati Uniti, per alcuni erano comunque degni di applauso. E’ sempre stato sia tragico che ironico vedere tanti sedicenti antifascisti applaudire qualunque regime fascistoide purché nemico giurato delle ‘democrazie plutocratiche e reazionarie’ (copyright di Benito Mussolini)”. Forse è ancor più “tragico e ironico” che dei sedicenti liberali abbiano plaudito, senza esibire un lamento, alle più feroci e sanguinarie dittature sudamericane, da Noriega a Somoza a Pinochet a Batista, tralasciando, per carità di patria, le infinite altre che hanno sostenuto in tutto l’universo mondo.

Inoltre, nella visione, chiamiamola così, del professor Angelo Panebianco, le dittature hanno, in genere, il brutto vizio di voler favorire la povera gente, gli ‘umiliati e offesi’, a danno dei ricchi. “E’ assai frequente che gli autoritarismi, di destra o di sinistra, si facciano carico –con politiche populiste- dei ‘poveri’, dei descamisados”.

Il professor Angelo Panebianco crede di essere un liberale, invece ha una mentalità totalitaria che vede solo le proprie ragioni senza riflettere che anche gli altri ne hanno. Nella fattispecie anche Kim Jong-un contro il quale, fra giravolte e tuffi carpiati, è sostanzialmente diretto il suo editoriale.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 7 settembre 2017

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C’ero al V-Day dell’8 settembre 2007. E sono contento di aver parlato dal palco insieme a Travaglio, che non era ancora il Travaglio superstar di oggi, alla Guzzanti e mi pare ad Alessandro Bergonzoni. In piazza Maggiore, piena fino all’inverosimile, si respirava un’atmosfera che mi sonava dentro. Un’atmosfera antipartiti contro i quali avevo cominciato una solitaria battaglia dai primi anni ‘80. Mi ricordo che c’era un tale che sventolava una bandiera rossa e Grillo gridò: “Tirala giù, che porta sfiga!”. Peraltro per me il ‘Vaffa’ non era del tutto una novità. Quando Grillo aveva cominciato a trasformare i suoi spettacoli da comici a politici mi aveva chiesto dei consigli perché aveva letto il mio La Ragione aveva torto?. E io glieli diedi tutti sbagliati. Fu mia l’idea di spaccare in scena un computer. Poi arrivò Gianroberto Casaleggio che di tecnologia informatica s’intendeva un po’ più di me e quella massa di piazza Maggiore si trasformò nel Movimento Cinque Stelle.

Mi pare che i Cinque Stelle non abbiano tradito piazza Maggiore e la gente che la popolava. Sono rimasti un movimento antisistema che vuole abbattere la partitocrazia. I suoi limiti, come ho detto ad Alessandro Di Battista sul palco della Versiliana, stanno proprio nei suoi pregi. Le linee guida del Movimento, tutte condivisibili e vere, sono state interpretate in modo eccessivamente rigido, poco duttile. E, come diceva Chesterton, “l’errore è una verità impazzita”. Tradotto: anche il più giusto dei princìpi se portato alle sue estreme conseguenze diventa un errore.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 7 settembre 2017