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La spudoratezza dei partiti, di sinistra e di destra, è pari solo alla loro malafede. Era appena uscito il Codice etico interno varato dai 5Stelle, che prevede fra le altre cose la soppressione dell’automatismo per cui un avviso di garanzia non è più sufficiente per sospendere da questo movimento chi ne sia stato raggiunto, che le sinistre e le destre hanno bollato il Codice come “salva Raggi”. Omnia sozza sozzis verrebbe da dire. Vediamo cosa scrive l’Unità organo del Pd: con questo Codice il movimento 5Stelle è entrato “a far parte di quelle forze politiche che hanno varato norme ad personam, il nuovo codice, infatti, altro non è che la ‘salva Raggi’”. Negli stessi termini si sono espresse le destre che di leggi ‘ad personam’ se ne intendono. Insomma si avverte qui nei partiti una sorta di giubilo: vedete i 5Stelle non sono diversi, sono come noi. Ma quel parallelismo non sta in piedi. Una cosa è un provvedimento preso all’interno di un partito che fra le altre cose non dovrebbe interessare nessuno che non ne faccia parte perché è un atto puramente privato essendo i partiti delle associazioni private, altra è una legge dello Stato varata per salvare un esponente politico da quelli che vengono pudicamente chiamati i suoi guai giudiziari. Insomma una legge è una legge, il regolamento di un condominio è un’altra cosa. Sono distinzioni elementari che non avrebbero nemmeno bisogno di essere spiegate. Ma in Italia è destino che si debba sempre ricominciare dal punto e dalla retta. Al cittadino i regolamenti interni di un’associazione privata dovrebbero rimanere del tutto indifferenti. Sono quindi assolutamente contrario a quanto ha detto un esponente dei 5Stelle che auspicava che il Codice grillino venisse assunto anche dagli altri partiti. Ognuno, nel privato, si regola come vuole. Ciò che conta è solo quanto ha rilevanza pubblica, cioè in questo caso la sanzione penale. Del resto, per lunga esperienza, diffido dei ‘codici etici’. Quando lavoravo per il gruppo Rizzoli-Corriere fu varato un codice etico cui dovevano attenersi i dipendenti. Peccato che questo codice fosse ispirato da Bruno Tassan Din, un delinquente che verrà poi condannato a quindici anni di carcere.

Precisato quello che andava precisato, sulle colonne di questo giornale avevo avvertito Grillo e i suoi di non premere troppo l’acceleratore sulla purezza e l’illibatezza dei rappresentanti del suo movimento come di quelli di altri partiti. Perché questa pretesa di una impossibile santità finisce inevitabilmente per risolversi in un boomerang. Nessuno di noi è Santa Maria Goretti. Prendevo spunto da una frase di Don Giussani: “l’errore è una verità impazzita”. Traducendo: qualsiasi principio, anche il più giusto, come, nel caso dei 5Stelle, è l’ansia di moralità in un Paese marcio fino al midollo, se portato alle sue estreme conseguenze diventa un errore. Perché permette di mettere sullo stesso piano cose che non hanno nulla a che fare fra di loro, come nella fattispecie una legge ‘ad personam’ e un provvedimento interno o come la pagliuzza in un occhio(che è il caso della Muraro o, del tutto ipoteticamente, della Raggi) e la trave di partiti che hanno in parlamento 117 indagati o condannati.

E’ del tutto evidente che l’equazione codice etico=salva Raggi è l’ennesimo attacco alla sindaca di Roma, del tutto strumentale perché il vero obbiettivo è delegittimare in qualsiasi modo i 5Stelle in vista delle prossime elezioni politiche. E i grillini fanno del loro meglio per prestare il fianco a questa delegittimazione, ma per motivi molto diversi da quelli che abbiamo fin qui raccontato e che sono personali ed esistenziali. Questo Movimento è percorso al suo interno, soprattutto sul coté femminile, da invidiuzze umane, forse troppo umane. Sentiamo cosa dice Annalisa Taverna, sorella della senatrice Paola, a proposito di Virginia Raggi: “Nel video di un minuto e mezzo in un evento durato ore, sembri cappuccetto rosso sperduto tra i lupi cattivi (però quando hai scelto i tuoi collaboratori contro tutto e tutti la parte del lupo t’è riuscita benissimo). Non ti ha considerato nessuno e che t’aspettavi? Ogni tua mossa è sempre sembrata per farti cacciare a calci in culo e farci perdere Roma. Bene è arrivato il momento che il popolo 5Stelle ti dica che hai rotto. Smetti di fare la bambina deficiente con manie di protagonismo e deliri di onnipotenza e comportati da 5Stelle perché ti abbiamo votato pensando che lo fossi altrimenti chi te se filava! Datte ’na calmata e non rompere, altrimenti t’appendiamo pe’ le orecchie ai fili dei panni sul balcone”. E questo linguaggio livoroso, invido, sgangherato e volgarissimo conferma una mia tesi antifemminista contestatissima: le donne non dovrebbero fare politica, a meno che non siano uomini di Stato come Angela Merkel.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 5 gennaio 2017

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Il giorno in cui Roberto Formigoni è stato condannato a sei anni per corruzione nel campo della Sanità, Renato Farina ha scritto su Libero un pezzo dal titolo “Perseguitato dalla giustizia” che non si sa se definire comico, grottesco, esilarante o, piuttosto, protervo.

Renato Farina è il noto ‘Betulla’ che faceva il giornalista e, insieme, l’agente dei Servizi segreti. Il giorno in cui la cosa venne a galla una collega di Libero lo trovò, sconfortato e piagnucolante, appoggiato a uno stipite: “Il problema è –le disse- che ho preso anche dei soldi. Però gli ho versati in beneficenza”. Insomma non lavorava solo per i Servizi, ma ne era anche al soldo. Lo sconforto durò poco. Gli venne in soccorso Giuliano Ferrara che scrisse: che male c’è, se fa due lavori è giusto che prenda due stipendi. E’ come se un poliziotto oltre che prendere lo stipendio dallo Stato si portasse via la refurtiva.

Prima che lo radiassero dall’Ordine dei giornalisti, una delle rare decisioni serie di questo inutile organismo che fino allora si era limitato a punire alcuni sfigati direttori di giornaletti porno, dette le dimissioni. Su sua richiesta fu riammesso. E’ ovvio che se anche fosse stato radiato Farina avrebbe conservato il diritto di scrivere, la libertà di espressione non può essere riservata solo a dei professionisti ma è di tutti. Però Farina non dovrebbe avere quella credibilità che lui stesso ha provveduto a togliersi e che invece, a quanto pare, Libero gli dà. Il fatto è che in Italia non mancano le sanzioni penali (che anzi abbondano, anche se raramente si arriva ad applicarle) ma quelle sociali. Adriano Sofri, uno dei mandanti dell’omicidio Calabresi, è stato a lungo editorialista del principale quotidiano di sinistra, Repubblica, e del più venduto settimanale di destra, Panorama. Un editorialista per meriti penali. Luigi Bisignani, condannato per reati contro la Pubblica Amministrazione è stato, successivamente, consulente dell’amministratore delle Ferrovie dello Stato, Lorenzo Necci, e dell’AD dell’Eni, Paolo Scaroni, e oggi furoreggia come opinionista, ospite graditissimo, in vari network televisivi.

Secondo Renato Farina nei confronti di Formigoni c’è stato un “accanimento giudiziario”. Quella dell’’accanimento giudiziario’ è una categoria giuridica, chiamiamola così, inventata dalle destre dopo Mani Pulite, quando Berlusconi cominciò ad essere raggiunto da avvisi di garanzia, rinvii a giudizio, condanne in primo e secondo grado, prescrizioni. Prima, e per decenni, le destre erano state furibondamente forcaiole (era giusto e sacrosanto che Pietro Valpreda fosse in galera da quattro anni senza processo e Giuliano Naria da nove, per citare solo alcuni casi). Naturalmente le destre sono prontissime a ridiventare forcaiole, perché questa è la loro vera natura quando ci sono di mezzo gli stracci e i delitti da strada (“In galera subito e buttare via le chiavi” ha dichiarato Daniela Santanchè).

Facciamo un rapido florilegio del pezzo di Renato Farina. “C’è un atteggiamento straordinariamente persecutorio verso Roberto Formigoni”. Da che cosa è provato questo atteggiamento persecutorio? Dalla “violenza linguistica della requisitoria dei pubblici ministeri” e da “una sentenza di smisurata pesantezza…se gli avessero dato due anni di reclusione, avrei pensato: questi giudici sono seri, misurati, dunque è davvero colpevole…Il risultato somiglia più a una fucilazione in piazza che ad una sentenza equa…Si è trasformato un fatto di costume (da bagno) in clava giudiziaria”. A parte che Formigoni ha preso tre o due anni meno dei suoi complici, non spetta al Tribunale Speciale Renato Farina stabilire la misura di una condanna. Farina poi aggiunge: “Così fa nascere il sospetto di una vendetta mirata dell’ordine giudiziario verso i leader politici non di sinistra, per inaugurare una stagione di caccia non più al Cinghialone, che è morto, ma ai sopravvissuti”. Tralasciamo per misericordia che fu proprio Vittorio Feltri, il suo attuale direttore, il più forsennato a fiocinare il ‘cinghialone’( a lui si deve questo epiteto che trasformava delle inchieste giudiziarie in una ‘caccia sadica’) e persino i suoi due figli Bobo e Stefania, c’è qui tutto l’armamentario usato dalla destra berlusconiana, cui non poteva mancare la notazione che Formigoni è stato eletto, perbacco, col 63 per cento dei voti. Quando il Cavaliere era in auge sosteneva, sia pur implicitamente, che era autorizzato a delinquere perché prendeva 16, 10, 8 milioni di voti. Il che poneva alcuni curiosi quesiti. Se prendo due milioni di voti a quale crimine sono autorizzato? Un furto? Se ne prendo quattro? Una rapina semplice? Se ne prendo otto? Una rapina a mano armata? Se ne prendo sedici…

Non ha nessunissima importanza se Formigoni aveva la fiducia di milioni di cittadini lombardi, il fatto è che questa fiducia l’ha tradita non perché veniva fotografato in variopinti costumi da bagno su yacht sesquipedali, ma perché ha grassato alla collettività otto milioni di euro.

E’ curioso il cortocircuito dei cattolici che delinquono (anche Renato Farina lo è). Loro, che ci credono, dovrebbero avere più di tutti il timor di Dio. Ma poi c’è il perdono di Santa Romana Chiesa e nella loro coscienza sporca si autoassolvono, magari con qualche opera di beneficienza.

Roberto Formigoni è un senatore della Repubblica. Non risulta, allo stato, che qualcuno ne abbia chiesto le dimissioni. Le dimissioni le deve dare Virginia Raggi per aver scelto male un suo collaboratore. ‘Andè a dà via i ciapp’ come si dice qui a Milano.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 28 dicembre 2016

 

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Giuseppe Sala. Paola Muraro. Virginia Raggi. Non è in alcun modo accettabile che un semplice avviso di garanzia, cioè la mera ipotesi che sia stato commesso un reato, possa troncare o gravemente compromettere la carriera di un esponente politico o distruggere la reputazione di un qualsiasi cittadino senza incarichi pubblici (qualcuno ricorderà, forse, il caso di quel padre accusato di aver violentato il figlioletto di due anni, e quindi massacrato dai mass media, poi risultato innocente). L’’informazione di garanzia’, voluta fortemente dalle sinistre sull’onda della disastrosa riforma del Codice di Procedura Penale, partorita da Gian Domenico Pisapia, padre dell’ex sindaco, aveva la pia intenzione, come dice il nome stesso, di tutelare il cittadino verso il quale siano in corso delle indagini penali, non tenendo conto della potenza di fuoco che hanno assunto attualmente i mass media dove, accanto ai giornali, furoreggia il mondo web, che rende virale, e distruttiva, anche la più labile delle notizie. Così l’’informazione di garanzia’ si è tradotta nel suo contrario: in una sentenza anticipata di condanna, prima di un rinvio a giudizio (che comunque condanna non è ancora) o di una sentenza di primo grado. E’ tipico del nostro Paese passare da un estremo all’altro. Per un decennio abbiamo avuto un presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, che era stato più volte rinviato a giudizio, condannato in primo e secondo grado, salvato dalla prescrizione e questa totale anomalia è stata di fatto accettata. C’è voluta una sentenza definitiva della Cassazione per buttar fuori il ‘delinquente naturale’ dalle Istituzioni, ma non dalla politica di cui questo bucaniere continua imperterrito a solcare i mari, ricevuto con tutti gli onori dai vari presidenti della Repubblica.

Un esponente politico dovrebbe essere pregato, anzi obbligato, a togliere il disturbo solo dopo un rinvio a giudizio, perché in questo caso gli indizi raccolti dai Pubblici ministeri sono stati convalidati da un giudice, il giudice delle indagini preliminari (gup). Adesso un avviso di garanzia vale, a seconda dei casi per la destra o per la sinistra, quanto un rinvio a giudizio. Di più: si fa strame di un politico ‘a prescindere’. E’ il caso del sindaco di Roma, Virginia Raggi, che non è stata raggiunta da nessun ‘avviso di garanzia’, ma di cui si chiedono da molte parti, anche all’interno del suo stesso movimento, le dimissioni. Quali sono le colpe della Raggi? L’arresto di Raffaele Marra, dirigente amministrativo di lungo corso e direttore del Dipartimento organizzazione e risorse umane del Campidoglio. Sfido chiunque a trovare in Roma, negli ambienti amministrativi e dirigenziali, qualcuno di cui si possa essere sicuri che non sia stato coinvolto, in passato, nell’illegalità diffusa della Capitale. Già nel 1955 lo scrittore Manlio Cancogni pubblicava sull’Espresso un articolo dal significativo titolo “Capitale corrotta=nazione infetta”. Da allora la situazione non ha fatto che peggiorare. Roma ha effettivamente infettato l’intero Paese. Non si tratta della mafia, della camorra, della ’ndrangheta che sono perlomeno organizzazioni strutturate e quindi, almeno in linea teorica, individuabili. Non si tratta di un cancro ma di una metastasi. Nel 1980 pubblicai sul Settimanale un’inchiesta intitolata “Via da Roma la capitale”. La classe dirigente piemontese che aveva fatto l’Italia unita si spogliò generosamente del ruolo di capitale, che all’inizio era Torino, pensando che Roma, per la sua centralità geografica, fosse più adatta. Fu una scelta generosa ma sbagliata. Roma è come una cozza che ha finito per raccogliere, moltiplicare ed espandere tutto ciò che di marcio c’è nel nostro Paese. Gli uomini politici, d’affari, gli intellettuali che intervistai per quell’inchiesta dissero che la mia proposta provocatoria era utopica e inattuabile, ma qualcuno suggerì di spostare perlomeno da Roma alcuni ministeri e competenze come avviene in altri paesi democratici (Bonn e Berlino, per esempio, in Germania). Ma naturalmente non se n’è mai fatto nulla. Roma è un fatto quasi unico nel mondo occidentale. Come Londra, Parigi, Vienna, Roma è capitale a tutti gli effetti, è cioè la città più importante del Paese, ma a differenza di Londra, di Parigi, di Vienna non ha nessuna dimensione e nessun retroterra industriale. E’ la tipica città che consuma e non produce. Con tutte le conseguenze del caso.

Da quella lontana inchiesta del 1980 Roma ha accentrato ancora più poteri. Nei settori dei media per esempio. Tutti i network più importanti hanno la loro sede principale a Roma. La Rai di Milano, per non parlare di quella di Torino, è stata praticamente spogliata. I giornali che contano possono aver sede anche a Milano ma i loro direttori fanno riferimento a Roma e molto spesso sono scelti dai poteri romani. Molti giornalisti che contano sono contigui, se non affiliati, ai politici della Capitale. Anche il mondo dell’imprenditoria, ovunque si trovi, deve render conto a Roma. E così via.

Come si può pensare che un giovane sindaco come Virginia Raggi possa guarire questo cancro metastatico? Ci vorrebbero decenni. Roma dovrebbe essere rasa al suolo come fecero i lanzichenecchi che la ridussero a 37 mila abitanti. Oggi ce la potrebbe fare, forse, solo Al Baghdadi se pianterà la sua bandiera nera sul Vaticano e su tutto ciò che vi sta intorno. In attesa, noi preferiamo tenerci la Raggi pur con tutte le sue debolezze.

Infine consentitemi, pardon permettetemi, di parlare di una questione personale. Nel suo bel libro, La mattina andavamo in piazza Indipendenza, Franco Recanatesi che mi conobbe agli esordi di Repubblica fa di me questo ritrattino. “Fini…anarchico di talento, frequentatore di mondi borderline, bettole e compagnie equivoche, enfant prodige dell’Europeo di Tommaso Giglio, resistette tre mesi appena sotto la cappa radical chic di Repubblica”. Trovo questo bozzetto azzeccato e mi ci riconosco. Ad eccezione di un punto. Non ho mai frequentato ‘compagnie equivoche’ tranne che nei tre mesi in cui sono stato a Repubblica.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 22 dicembre 2016