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LETTERA APERTA AD ALESSANDRO SALLUSTI

Caro Alessandro,

quando Cairo voleva entrare in Libero –direttore Feltri- mi chiese se volevo seguirlo. Risposi di no. Mi pregò allora di fargli il nome di qualche giornalista valido. Indicai te e Paolo Martini. Ti conoscevo da quando dirigevi La Provincia di Como per la quale mi chiedesti anche di collaborare. Avevo di te un’ottima opinione sia professionale che umana.

Per questo mi è particolarmente spiacevole commentare il vergognoso pezzo che hai scritto per Il Giornale (8/2), godendo come un riccio perché alla celebrazione dei 25 anni dalle inchieste di Mani Pulite non c’era praticamente nessuno.

Il tuo articolo dovrebbe essere pubblicato in toto perché sia reso evidente alla cittadinanza il cumulo di menzogne, di omissioni, di dimenticanze che metti in campo. Ma qui devo limitarmi ad alcuni ‘excerpta’.

1.Tu definisci quella di Mani Pulite una “sciagurata stagione” e Mani Pulite “la più violenta inchiesta giudiziaria nella storia della Repubblica”. 2. Parli dei suicidi in carcere e “del dolore di 4.250 famiglie di indagati il più delle volte a vanvera come dimostra il bilancio a istruttorie chiuse e processi celebrati”. 3. Affermi che in Italia fu introdotta “la carcerazione preventiva come arma di minaccia e ricatto”. 4. Prendi particolarmente di mira Antonio Di Pietro e sostieni che entrò in politica per “sfilarsi dal clima di sospetti sulla sua persona” e che non a caso entrò poi nel Pci-Pds per poi creare il “partitino, Italia dei Valori”. 5. Definisci i magistrati di Mani Pulite “toghe rosse”.

Cerchiamo di mettere un po’ di ordine in questa accozzaglia di argomenti o, meglio, di pseudoargomenti. L’azione di un magistrato non può essere ‘violenta’. Il magistrato risponde alla legge: o la rispetta o la viola. E non risulta che in tutta l’inchiesta di Mani Pulite ci siano state violazioni di legge. Il magistrato non può essere né ‘forcaiolo’ né ‘garantista’, categorie che vi siete inventate voi. Comunque il ‘forcaiolismo’ fu casomai della stampa. In particolare dell’Indipendente di Vittorio Feltri che chiamava Bettino Craxi “il cinghialone”, trasformando un’inchiesta giudiziaria del tutto legittima in una ‘caccia sadica’ e prendeva di mira anche i figli di Bettino. Lavoravo anch’io a quell’Indipendente e toccò a me difendere i Craxi dagli eccessi del mio direttore, in particolare con due articoli “Vi racconto il lato buono di Bettino” scritto in piena bufera quando tutti, anche i suoi amici, fiocinavano la balena sanguinante, L’Indipendente, 17/12/92 e “Caro direttore, ti sbagli su Stefania Craxi”, L’Indipendente, 11/5/92. In quel periodo prevaleva al contrario uno strusciarsi indecoroso ad Antonio Di Pietro considerato il vincitore di giornata. Mi ricordo in particolare un vergognoso editoriale del direttore del Corriere, Paolo Mieli, titolato “Dieci domande a Tonino”. A Tonino, come se ci fosse andato a pranzo e cena da sempre. Con Tonino, ridiventato Antonio Di Pietro, che dell’inchiesta di Mani Pulite fu il simbolo, tu ti accanisci. Affermi che entrò in politica per “sfilarsi dal clima di sospetti sulla sua persona”. Dimentichi che ‘per quei sospetti’ Di Pietro è stato processato sette volte ed è uscito regolarmente assolto e uno di quei processi era stato innescato da due testimoni prezzolati dall’onorevole Berlusconi. Del Di Pietro politico non dovremmo qui occuparci perché quello che interessa è la sua azione di magistrato, ma quando tu definisci l’Italia dei Valori un ‘partitino’ dimentichi che è stato defalcato di alcuni suoi componenti, a cominciare dall’onorevole De Gregorio cui Berlusconi diede tre milioni perché passasse al centrodestra. In ogni caso se Di Pietro fosse entrato in politica il giorno dopo essersi tolto la toga avrebbe avuto il 90 per cento dei consensi. Invece, correttamente, a differenza di altri magistrati (Ingroia, De Magistris) aspettò un anno.

La carcerazione preventiva in Italia esiste da sempre. Pietro Valpreda fece quattro anni di carcerazione preventiva senza processo e Giuliano Naria nove per citare solo alcuni esempi famosi fra le centinaia che si potrebbero fare. Non mi risulta che tu o la parte politica che oggi rappresenti abbiate mai levato un dito contro queste aberrazioni che non erano dei magistrati ma della legge (le leggi le fa il parlamento, cioè i politici). Vi accorgeste della carcerazione preventiva solo quando toccò, non per anni ma per qualche settimana, a lorsignori. Tu affermi però che in questo caso la carcerazione preventiva sarebbe stata usata “come arma di minaccia e ricatto”. E a queste sciocchezze Francesco Saverio Borrelli, procuratore capo del pool di Mani Pulite, replicò: “Non è così. Noi gli arrestiamo e loro confessano” . Che è cosa ben diversa. Tu parli dei suicidi in carcere. Se un magistrato dovesse caricarsi delle possibili conseguenze dei suoi legittimi provvedimenti non si potrebbe più amministrare giustizia. I suicidi riabilitano moralmente coloro che ne sono stati protagonisti, perché evidentemente, a differenza di altri, si vergognavano di ciò che avevano fatto, ma non li assolvono. In quanto al dolore delle 4.250 famiglie degli indagati “il più delle volte a vanvera” fai finta di dimenticare che moltissime di queste assoluzioni avvennero per patteggiamento o prescrizione. Ma questi calcoli lasciamoli a Marco Travaglio. Dimentichi invece, con molta disinvoltura, le ‘morti bianche’, cioè i suicidi di quegli imprenditori onesti che non vollero piegarsi al ricatto delle tangenti e videro perciò andare in fumo le loro aziende. Sorvoli su uno degli atti più contestati quando Di Pietro, Davigo, Colombo, Greco si presentarono in televisione per affermare che avrebbero chiesto a Borrelli di lasciare l’inchiesta. Come mai non ne parli? Perché quella singolare apparizione dei magistrati in tv seguiva uno dei primi provvedimenti del governo Berlusconi, un decreto chiamato ‘salvaladri’ che depenalizzava i reati di corruzione e similari e quindi salvava, oltre a Berlusconi e ai suoi cari, la falange dei corrotti e dei corruttori coinvolti in Tangentopoli.

Definire i magistrati di Mani Pulite ‘toghe rosse’ è risibile. Casomai se si vuole a tutti i costi dar loro una connotazione politica erano dei conservatori, il più ’a sinistra’ era un cattolico, Gherardo Colombo, un magistrato impeccabile rispettato anche dai suoi indagati.

In due anni, con tutti i testimoni del tempo ancora in vita, i ladri, con una campagna stampa che ti vide protagonista, divennero le vittime e i magistrati i colpevoli. La classe dirigente del Paese non tollerava di dover rispondere, per la prima volta o quasi nella storia italiana, a quelle leggi che noi tutti comuni cittadini siamo tenuti a rispettare.

Ecco perché tu, divenuto nel frattempo portavoce di una parte di quella classe dirigente, definisci “sciagurata” la stagione di Mani Pulite. In realtà Mani Pulite fu l’ultima occasione per la nostra classe politica per emendarsi dai crimini che andava perpetrando da anni. Non la colse, anzi l’avversò ferocemente e così siamo arrivati alla situazione attuale dove la corruzione è discesa giù per li rami a tutto il Paese. Proprio per questo il Palazzo di Giustizia di Milano era deserto nel 25° anniversario di Mani Pulite. Tutti hanno capito che l’azione dei magistrati è stata inutile, continua a essere inutile e probabilmente lo sarà anche in futuro, e quindi i cittadini hanno perso anche la voglia di ribellarsi e accettano supinamente la parte di pecore tosate senza emettere neanche un belato. In Romania, per un decreto molto simile a quello emesso a suo tempo dal governo Berlusconi, la popolazione si è ribellata e glielo ha ricacciato in gola. Dal punto di vista dell’etica pubblica siamo quindi al di sotto anche dei disprezzati rumeni.

Recentemente, davanti ad altre persone, hai detto “Massimo Fini mi attacca un giorno sì e un giorno no, ma devo ammettere che è l’ultimo giornalista libero in Italia”. Non è così, fortunatamente ce ne sono altri. Ma non posso negare che questa tua affermazione mi ha fatto piacere. Ma la libertà si paga. Il rendersi servi invece ripaga. Ad abundantiam.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 14 febbraio 2017

 

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In questi giorni di Festival di Sanremo ho sentito ripetere più volte dalle Tv e dai critici musicali che Domenico Modugno, che lo vinse nel 1958 con Nel blu dipinto di blu o Volare che dir si voglia, è l’innovatore della canzone italiana. Niente di più falso. Volare, che per di più è la più brutta canzone italiana di tutti i tempi insieme a Le mille bolle blu di Mina che la portò al Festival nel 1961, si inserisce a pieno titolo nel filone melodico all’italiana come altre prove più convincenti del ‘Mimmo nazionale’: Strada ‘nfosa e Vecchio frac.

Chi cambiò le carte in tavola in Italia, l’ho già scritto ma a me piace difendere i calunniati, Nerone, Catilina, il Mullah Omar, e anche gli ingiustamente dimenticati come il più modesto Antonio Lardera in arte Tony Dallara che importò il ‘singhiozzo’ dai Platters e da Paul Anka (Cra-a-azy love, una delle sue canzoni più belle anche se non fra le più famose) e di suo vi aggiunse l’’urlo’ (Brivido blu) facendo piazza pulita una volta per tutte delle Nille Pizzi, dei Claudio Villa, dei Luciano Tajoli e compagnia cantante (è il caso di dirlo).

Per la verità anche Anka e i Platters, che ispirarono Dallara che con i suoi Campioni si esibiva al Santa Tecla di Milano, stavano ancora a metà fra il melodico e la canzone moderna, mentre negli States già furoreggiava il rock duro di Little Richard (Lucille), di Jerry Lee Lewis, di Neil Sedaka (I go ape) e di Presley (anche se ‘Elvis the pelvis’, impomatato e imbrillantinato come i ‘giovanotti’ dei primi anni Cinquanta, era più ambiguo, poteva essere scatenato, Tutti frutti, ma anche melodico, Fame and fortune, senza diventare però sdolcinato). Ma per una curiosa inversione dei tempi i Platters e Anka erano arrivati in Italia prima dei rocker veri. Del resto il mondo allora non era così integrato e si potevano creare delle discrasie fra le due sponde dell’Atlantico. Le comunicazioni non erano istantanee come oggi. Fenomeni sociali, non solo musicali ovviamente, che partivano dall’America potevano arrivare da noi anche un paio di anni dopo e oltre. E li si osservava, da lontano, con stupore e anche con un certo timore. Mi ricordo un titolo de La Notte, quotidiano del pomeriggio, di destra, conservatore, ostile a ogni novità, che a proposito del rock si chiedeva, scandalizzato: “Ma può arrivare anche da noi?”. E Milva, ‘la pantera di Goro’, ancora fatta a domestica e non raffinata dalle frequentazioni con Strehler, cantava con sorpresa in Flamenco Rock: “Mi piacerebbe tanto visitar la Spagna/terra di matador e di grandi toreri/ormai anche laggiù nella caliente Spagna/non si ballano più passi doppi o boleri/ora ballano il flamenco rock/ora ballano il flamenco rock”. E ‘rock’ lo pronunciava in un modo stranissimo, gutturale, perché era una parola che suonava nuova. E anche la Spagna, che oggi si raggiunge in aereo con pochi euri, era ancora un posto esotico e lontano.

Comunque nel 1958 era arrivato anche da noi un oggetto destinato a rivoluzionare la storia della musica leggera: il juke box. Mentre prima era il gestore dei Bagni o delle discoteche, che allora si chiamavano dancing, a mettere la musica cercando di indovinare il gusto dei ragazzi (quello dei Bagni Umberto di Savona, dove andavo io, ed era già un lusso perché la gente di Milano d’estate si bagnava all’Idroscalo, era piuttosto abile e faceva andare Un treno per Yuma e Jezebel di Frankie Laine, un preannuncio di quello che sarebbe venuto dopo) adesso eravamo noi ragazzi a scegliere. E in quell’ estate del 1958 gettonavamo solo, ossessivamente: Come prima, Ti dirò, Diana, Only you. Con grande scandalo delle nostre mamme per gli ‘urli’ di Dallara e più tardi per quelli, quasi scimmieschi, di Richard. Volare non l’ho mai sentita in quella calda estate in cui la musica italiana si stava rinnovando, soprattutto nei ritmi, nel terzinato, nel sincopato. Modugno era un cantante per vecchie zie e per signore da tea room, che non si sarebbero certo scomodate ad alzarsi dalla canasta o dal ramino per mettere 100 lire in quella macchina infernale e urlante che disturbava la loro quiete.

Dallara avrebbe poi vinto il Festival di Sanremo nel 1960 con la sua canzone peggiore, che cantava con Rascel, Romantica, tentando, senza riuscirci, di trasformare quella melassa, con qualche urlo, in qualcosa di potabile. Peraltro da Sanremo non sono mai uscite canzoni memorabili, in fondo in fondo quella che si ricorda ancora è proprio la prima: Grazie dei fior di Nilla Pizzi.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 11 febbraio 2017

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Trump è inquietante non per gli impegni della sua campagna elettorale che rispetta, ma per quelli che non rispetta. Trump, da buon imprenditore, sembrava impegnato a ridimensionare quelle politiche aggressive, militari e non militari, che fan spendere un mucchio di quattrini agli Stati Uniti senza trarne alcun vantaggio. Invece, da questo punto di vista, ha cominciato malissimo. A fine gennaio col pretesto di combattere l’Isis ha ordinato un raid disastroso in Yemen con grande dispiegamento di forze, droni, Apaches, velivoli speciali Osprey, navi da guerra che appoggiavano Navy Seal 6 scesi sul terreno. Risultato: un soldato americano morto, tre feriti e almeno 16 civili uccisi fra cui 8 bambini. Sono stati eliminati anche 14 jihadisti, ma non era questo il vero obbiettivo della missione. L’obbiettivo era inserirsi, per l’ennesima volta, nella guerra civile in Yemen fra gli sciiti houti e il governo centrale sostenuto dalla loro grande e ambigua alleata nella regione, l’Arabia Saudita.

Trump sta cercando anche di smontare una delle poche mosse utili fatte da Barack Obama, la sostanziale pace con l’Iran, sia con nuove misure di embargo economico, sia col divieto esteso anche agli iraniani di entrare, pur se provvisti di legittimi visti, negli Stati Uniti. L’Iran invece, uscito dal grottesco ‘Asse del Male’ in cui era stato inserito perché pretendeva, oh bella, e pretende di avere il nucleare per usi civili e medici, è oggi un alleato indispensabile nella lotta contro l’Isis. A Mosul i pasdaran iraniani sono quelli maggiormente in grado, insieme ai peshmerga curdi, di fronteggiare gli uomini di Al Baghdadi. Se si dovesse contare sul ridicolo esercito dell’Iraq, guidato dal quisling missirizi Al Abadi, finirebbe come nel giugno del 2014 quando poche centinaia di jihadisti conquistarono Mosul mettendo in fuga 34 mila soldati iracheni. I soldati dell’esercito iracheno assomigliano molto a quelli dell’esercito ‘regolare’ afgano: ragazzi che si arruolano non per vocazione, ma per sfuggire alla povertà guadagnando uno stipendio, “scarpe leggere” come si diceva un tempo in gergo militare.

Trump insomma non sembra aver abbandonato, come si poteva sperare dalle sue dichiarazioni elettorali, il ruolo degli Usa come ‘gendarme del mondo’. Cosa ci stanno a fare, ancora, gli americani dopo quindici anni di una guerra non solo dispendiosa ma del tutto controproducente, in Afghanistan? Una guerra già da tempo perduta, se è vero, com’è vero, che i Talebani stanno riconquistando porzioni sempre più vaste di quel Paese? Solo nel 2016 sono stati uccisi 6.785 agenti delle forze di sicurezza afgane, cioè quelle del governo fantoccio di Ashraf Ghani, con un aumento del 35 per cento rispetto al 2015. Anche qui, come in Iraq, i soldati del cosiddetto esercito regolare sono dei poveracci, giovani che si arruolano per sfuggire a una disoccupazione che con i ‘liberatori’ occidentali è arrivata al 40 per cento (durante i sei anni di governo del Mullah Omar era dell’8 per cento). Ma la guerra afgana, la più lunga in epoca moderna, è una guerra volutamente dimenticata. La tragedia afgana, perché di questo si tratta con circa 200 mila civili morti e la distruzione materiale, economica, sociale, culturale del Paese, non viene ricordata se non di sfuggita e con molto imbarazzo. Da tutti. Non ho sentito una sola voce levarsi contro questa guerra, non ho sentito un solo Papa, né Wojtyla né Ratzinger né Bergoglio, sempre pronti a inumidirsi di lacrime per la morte di uomini, donne e bambini in ogni parte del mondo, spendere una sola parola per le 200 mila vittime civili della guerra afgana. C’è un’unica eccezione: Gheddafi. Come abbiamo ricordato nel nostro precedente articolo fu Gheddafi, che con gli afgani non aveva nessun legame, nessun rapporto, nessun interesse, a levarsi in un discorso all’Onu del 2009, contro le ingiustizie perpetrate su quello che viene definito dagli organi si stampa occidentali, “questo martoriato Paese”. Come se l’Afghanistan se lo fossero ‘martoriato’ loro, gli afgani, e non i dieci anni di guerra dei sovietici e poi i quindici della Nato. Gheddafi aveva anche capito che i Talebani costituiscono un argine contro l’         Isis. Più pragmatici degli americani, sempre in bilico fra moralismo e cinismo, questo lo hanno capito i russi che recentemente hanno riconosciuto i Talebani come “forza militare e politica” e con essi stanno trattando, passando sopra la testa del governo di Ashraf Ghani e di quello americano. Del resto si capisce il loro interesse. Se l’Isis penetra ulteriormente in Afghanistan e lo può fare se i Talebani sono stretti nella morsa degli jihadisti e degli occupanti occidentali, può poi dilagare in Turkmenistan, in Tagikistan, in Uzbekistan dove le componenti musulmane sono se non maggioritarie certamente molto forti e pronte a radicalizzarsi. In questo caso la jihad diventerebbe un pericolo concreto anche per la Russia.

Se Trump vuol spazzar via dalla faccia della terra l’Isis, come ha dichiarato, sta facendo male i suoi conti. Però in questo groviglio di contraddizioni Donald Trump una cosa onesta e sorprendente l’ha detta. Rispondendo al più famoso conduttore della tv Fox News che a proposito del suo strizzar l’occhio a Vladimir Putin gli faceva notare che costui è un killer ha replicato: “Pensi che l’America sia così innocente?... Anche noi abbiamo fatto tanti errori. Pensa solo alla guerra all’Iraq. Quanta gente è morta”. Insomma anche Trump ammette quello che sosteneva Muammar Gheddafi: non esiste solo il terrorismo propriamente detto, esistono anche i terrorismi di Stato.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 8 febbraio 2017