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La Festa della Liberazione ha avuto quest’anno uno scarso seguito popolare (piazza Duomo, per fare un esempio, era ad esser generosi vuota a metà rispetto a certe adunate oceaniche di qualche tempo fa). Anche i giornali, in linea di massima, si sono adeguati a questo disinteresse e alcuni, come Il Tempo di Roma, hanno concluso drasticamente: “Liberateci dalla Festa della Liberazione”. La Resistenza, che va scritta rigorosamente in maiuscolo, è stata uccisa dalla asfissiante e per niente innocente retorica di cui è stata per decenni caricata.

Dal punto di vista militare la Resistenza, come il maquis francese, fu un fatto irrilevante all’interno di quella grandiosa e tragica epopea che è stata la Seconda guerra mondiale, costata 50 milioni di morti. Fu il riscatto morale di poche decine di migliaia di donne e di uomini coraggiosi, non di una popolazione e di una Nazione. Non siamo stati noi a liberarci dal nazifascismo, ma gli Alleati, gli americani, gli inglesi, i canadesi, i neozelandesi e persino i razzisti sudafricani (si vada a vedere il lindo e commovente Cemetery World a Milano che conserva le salme dei giovanissimi caduti del Commonwealth). La retorica della Resistenza, fattasi sempre più assordante man mano che ci si allontanava da quegli eventi (le pagine dell’Unità dei mesi immediatamente successivi erano molto più sobrie) ha permesso agli italiani di non fare i conti con se stessi e con il proprio passato.

Mi raccontava Arturo Tofanelli, il direttore di Tempo Illustrato, il primo settimanale italiano a colori, che il 25 aprile del 1945 stava viaggiando in treno da Torino verso Milano e sulla massicciata ferroviaria vedeva luccicare dei cerchietti di metallo. Ma per l’abbaglio del sole non riusciva a capire cosa fossero. Il treno si fermò in mezzo alla campagna e Tofanelli poté osservarli con maggior attenzione. Erano i distintivi del Pnf (Partito nazionale fascista) di cui i viaggiatori si stavano furtivamente liberando. Gli italiani da tutti fascisti, o quasi, che erano stati, erano diventati in un sol giorno tutti antifascisti. E poiché avevano la coda di paglia e il terrore che qualcuno li riconoscesse e li indicasse come i fascisti del giorno prima divennero di una ferocia bestiale. Lasciamo pur perdere le vendette personali a cui si abbandonarono dei partigiani dell’ultima ora nell’immediato dopoguerra descritte da Gianpaolo Pansa ne Il sangue dei vinti ma raccontate in modo molto più puntuale e coraggioso decenni prima da quel grande reporter che era Giorgio Pisanò e che allora furono passate sotto assoluto silenzio perché Pisanò era un fascista (per la verità era un mussoliniano, che è cosa leggermente diversa), basta pensare all’orrendo spettacolo di piazzale Loreto il 28/29 aprile del 1945. Gli uomini e le donne che sputarono e pisciarono sui cadaveri di Mussolini, della Petacci e dei diciotto gerarchi stesi a terra sul piazzale e poi appesi per i piedi al traliccio del distributore di benzina di piazzale Loreto erano gli stessi che fino a qualche tempo prima avevano osannato il Duce e i suoi. E poiché alla Petacci le gonne, in quella posizione, le erano ricadute sulla faccia scoprendo il resto e non indossava le mutandine (era stato il ‘colonnello Valerio’, alias il ragionier Walter Audisio, a impedirle di cercarle quando era andato a prelevarla insieme a Mussolini nella cascina di Giulino di Mezzegra: “Tira via” le aveva intimato) qualche ‘mano pietosa’, come qualcuno scrive ancor oggi, gliele legò con una cinghia alle ginocchia. Impiccare una donna a testa in giù non era osceno, osceno era che mostrasse le pudenda. Fu il colonnello americano Charles Poletti a ordinare ai membri del Cln di por fine a quello scempio e di portare i corpi all’obitorio.

Tutti, se ne han voglia, possono vedere i filmati di piazza Venezia il 10 giugno del ’40 il giorno fatale in cui Mussolini dal balcone dichiarò formalmente guerra a Gran Bretagna e Francia. La piazza è gremita fino all’inverosimile e si possono sentire distintamente le voci della folla che prima che Mussolini pronunci la formula di rito grida “Guerra! Guerra!”. Pochi anni dopo non si trovava un solo italiano disposto ad ammettere che quel giorno stava su quella piazza. Tanto che Oreste del Buono affermò col sarcasmo che gli era consueto: “Va a finire che a piazza Venezia quel giorno c’eravamo solo io e Montanelli”.

Alla fine della guerra io avevo solo due anni e non potevo decentemente sostenere che avevo partecipato alla lotta partigiana. Ma i miei fratelli maggiori, quelli che avevano dodici o quattordici anni o poco più, compresa Oriana Fallaci, erano stati tutti perlomeno delle ‘staffette partigiane’. E io nella mia infantile innocenza mi chiedevo: “Ma quanti messaggi si scambiavano questi partigiani?”. E parte della mia vita è stata solcata, quando ero giovane, da questi soggetti che, inventatisi partigiani, mi guardavano in tralice perché io la Resistenza non l’avevo fatta.

Il 25 aprile è in realtà la festa dell’eterno opportunismo e voltagabbanismo italiano. Naturalmente la cosa riguarda innanzitutto le nostre classi dirigenti. Con quell’alleato non ci si doveva alleare, ma è troppo facile, troppo comodo, pugnalarlo alle spalle, in una lotta per la vita e per la morte, quando si avvicina la sconfitta. Anche l’8 settembre di recente è stato elevato a Festa Nazionale mentre è il giorno della nostra vergogna.

La principale responsabilità della guerra civile che ne seguì (fino a poco tempo fa era proibito chiamarla tale) ricade su Mussolini che non seppe dire di no a Hitler e creò la Repubblica fantoccio di Salò. Ma questa non è una buona ragione per infamare i ragazzi che per quella Repubblica andarono a morire (mentre il Capo tentava di fuggire travestito da soldato tedesco) in nome di valori come l’onore, la lealtà, la Patria che, almeno ai loro occhi, non erano meno importanti della libertà per cui si battevano i pochi, veri, partigiani. Io non ho aspettato Violante per dare a questi giovani la stessa dignità che do ai partigiani. L’ho scritto moltissimi anni fa.

Il mito e la retorica della Resistenza ci hanno poi convinto che in fondo avevamo vinto una guerra che invece avevamo perso nel più ignominioso dei modi (i francesi sono stati anche più abili, sono riusciti a passare per vincitori nonostante l’adesione al Governo di Vichy sia stata molto più ampia di quella degli italiani al regime fascista quando a guerra in corso cominciò a traballare). E questo mito e questa retorica hanno avuto conseguenze che si sono protratte nel tempo e forse durano ancora oggi. Basta pensare al fenomeno delle Brigate Rosse che proprio a quel mito e a quella retorica, spesso in buonafede, si richiamavano.

“Resistenza sempre” ha dichiarato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Sì, ma contro i ben più concreti nemici di oggi e non contro gli sbiaditi fantasmi di ieri.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 27 aprile 2016

 

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Articolo di Pietrangelo Buttafuoco pubblicato sul Fatto Quotidiano il 18 aprile 2016

Metto le mani avanti e lo dichiaro il cortocircuito. Marco Travaglio, il direttore di questo giornale – giusto l’estate scorsa, alla Versiliana – parlando in pubblico diceva così: “Non ci sarebbe stato bisogno di fondare Il Fatto Quotidiano se uno come Massimo Fini, un uomo libero, oggi potesse scrivere i suoi articoli sul Corriere della Sera”.
Quest’affermazione è suonata disarmante e rivelatrice. Ed è, infatti, difficile da spiegare agli extraterrestri perché un Massimo Fini – cronista di solida scuola, uno che non hai mai lisciato il pelo dal verso giusto – nella stagione migliore della sua produzione intellettuale, abbia dovuto attendere la fondazione di questo giornale per restituirsi ai propri lettori.
Nessuna testata, infatti, può reggere il suo punto di vista – lo spirito critico tutto suo – con cui frantuma i totem dell’ideologicamente corretto.
Il totalitarismo liberale esiste, altro che, altrimenti non ci si accontenterebbe, come stucchevolmente accade sempre, di appaltare il dissenso ai pittoreschi idoli del pop pensando che già la battaglia a favore di Mika – il cantante dell’impegno omosessualista, a cui qualcuno fa la bua – emancipi l’Italia da tutti i medioevi.
Già è d’obbligo rivalutare Nerone – Fini docet – figurarsi il medioevo. E quando Nicola Lagioia dice – in un’intervista concessa a Libero – “oggi non sarebbe possibile avere l’equivalente degli Scritti corsari di Pasolini”, ecco, il cortocircuito, impone un altolà: l’equivalente di ciò che il luogo comune percepisce come “Pasolini” c’è, è appunto Massimo Fini, e lo è in una forma davvero ribelle e grandemente poetica se si pensa che già il suo Nietzsche è il romanzo che nessun scrittore della cerchia altolocata saprà mai scrivere.
Interpellato a proposito del Premio Strega, Lagioia, ultimo vincitore del più ambito tra i riconoscimenti letterari, ha dunque parlato di una cosa vera, verissima – “essere un intellettuale libero è complicato” – scivolando però nella botola del già detto: “Nessun direttore ti chiamerebbe nel suo giornale per offrirti, come successe a lui con il
Corriere della Sera, il ruolo di ospite ingrato”.
Siamo al caro Lei, quando c’era Lui. Ma il Corriere che faceva scrivere Pasolini era quello dei cummenda: quelli che temevano gli espropri proletari e ben volentieri offrivano regalie per ammansire qualunque brivido rivoluzionario. Quelli dell’alta borghesia ai quali faceva fino aprire le dimore ai collettivi in cachemire.
Il ponte che traghettava il ’68 negli anni ’70 – al tempo in cui, caro Lei, c’era Lui – era un sottaciuto gioco di specchi tra le due Chiese, quella del sistema consociativo e quella del potere culturale, che andava a contenere tutte le ospitalità e tutte le gratitudini.
Ospiti ingrati, nella veneranda pubblicistica liberale, non ce ne sono mai stati altrimenti, quello stesso giornale, la prima vetrina del dibattito italiano, negli anni della peste terroristica non avrebbe cacciato Indro Montanelli per poi salutarlo nel giorno in cui lo gambizzavano le Br col famoso titolo “Ferito un giornalista”.
Proprio complicata – ha ragione Lagioia – la vita di un intellettuale libero. Sempre preda dei cortocircuiti.
Altrimenti, per uno come Massimo Fini – la cui vita è una certa idea di Milano – l’indirizzo sarebbe stato solo uno: via Solferino.

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Non è per pura malignità se celebro il novantesimo compleanno di Elisabetta II d’Inghilterra, passato quasi sotto silenzio, a spese del clamore suscitato dalla morte di Prince, due avvenimenti avvenuti, per l’imponderabile volontà del Caso, nello stesso giorno e al quale i media mondiali hanno dato un grandissimo spazio. Ma per senso delle proporzioni. Della funambolica ed esibizionista star di Minneapolis, tipica espressione dei nostri tempi, fra trent’anni non rimarrà che la polvere e forse un vago ricordo, Elisabetta II entrerà nella Storia e anzi vi è già adesso seppur ancora viva.

Confesso che ho sempre avuto una grande ammirazione e quasi un’autentica venerazione per Elisabetta. Solo una vera regina può portare quegli orribili cappellini démodé e quegli abiti color pastello, rosa, verde senza rendersi ridicola. E’ dotata di un autocontrollo eccezionale e di una resistenza fisica e nervosa che le consente ancor oggi di presenziare per ore a noiosissime cerimonie senza dar segni di insofferenza, di fastidio, di malumore, ma anche senza ridere perché a una regina con è consentito. In 64 anni di regno non le ho mai visto sbagliare un colpo. Tantomeno il giorno dei funerali di lady Diana che diedero, così grandiosi e insieme così composti, con i quattro uomini, Filippo di Edimburgo, Carlo e i due principini a seguire il feretro, la dimensione di un popolo. Il suo lieve ma percettibile inchino al passaggio della bara davanti a Buckingham Palace resta memorabile. Un inchino, ma diverso per tono e significato, lo vidi fare da Elisabetta a Milano quando, accompagnata dal presidente Ciampi, passò davanti alla Prefettura dov’era esposta la bandiera italiana. Il cafone livornese, colto di sorpresa, tentò tardivamente e goffamente di imitarla, riuscendo solo a sottolineare l’abissale distanza di stile.

Non credo che Elisabetta ami particolarmente il protocollo, il dover indossare a volte abiti paradossali e grotteschi come quello dell’Ordine della Giarrettiera, non poter manifestare in nessuna occasione pubblica le proprie opinioni politiche e nemmeno le sue emozioni. Di cui non è affatto priva come è ben mostrato nel film The Queen nel simbolico incontro col cervo nel parco reale, ma i suoi turbamenti deve tenerli per sé. Sa che il suo mestiere è quello di Regina e che è suo dovere onorarlo fino in fondo, senza potersi lasciar andare ai propri sentimenti. Che è quanto non aveva capito la povera Diana, ragazza dei nostri giorni, la cui tragedia si poteva leggere sul volto, dietro la veletta bianca, già il giorno delle nozze con Carlo.

Le limitazioni di un sovrano sono infinite. E’ un prigioniero di lusso. Perché è un simbolo e per un simbolo la forma è sostanza. La giornata di Elisabetta è costellata di impegni cui non può sottrarsi. Legge tutti i dossier che le arrivano dal premier, dai ministri, dagli ambasciatori, dai servizi segreti, dai governanti del Commonwealth, firma tutti i documenti, risponde personalmente o con l’aiuto delle dame di compagnia alle lettere, riceve visite, conferisce onorificenze a 150 persone per volta e deve prepararsi perché a ognuna deve saper dire qualcosa. In questo le stanno alla pari solo il Duca e la Duchessa di Kent che ogni anno presenziano alla finale di Wimbledon avendo una parola non solo per i vincitori ma anche per gli arbitri, i giudici di linea e ogni raccattapalle, ma la differenza è che i Duchi di Kent fanno solo questo in tutto l’anno. Di questi impegni protocollari la Regina ne ha circa 400 l’anno. L’unico sfizio che si concede è di precipitarsi la mattina appena alzata, alle 7 e 30, su Sporting Life, che tratta solo delle corse dei cavalli, passione ereditata dalla Regina Madre. Ma in fondo anche questa passione per i cavalli è perfettamente inglese (il principe Carlo ha una faccia assolutamente equina). La Regina Madre morta a 102 anni, che non aveva i doveri della figlia, poteva essere molto più sbarazzina. Scrive Richard Newbury in Elisabetta II: “Era l’unica privata ad avere un collegamento telex con tutte le corse con il Tote (il totalizzatore tramite il quale si effettuano le scommesse) e si sa che non le dispiaceva bere, di preferenza gin e Martini”. A questo proposito c’è un bel quadretto sempre nel libro di Newbury. La Regina Madre ed Elisabetta stanno sorseggiando un gin tonic. Finito il bicchiere la regina madre dice: “Ce ne facciamo un altro, Lilibet?”. “No, madre. Dobbiamo regnare, dobbiamo regnare”.

Fino a non molto tempo fa le piaceva guidare personalmente la sua Jaguar e, a quanto pare, guidava benissimo. Nel 1945, a guerra ancora in corso, fece il servizio militare in un corpo ausiliario e fu addestrata come autista. In fondo è una donna pratica. Dai gusti semplici (le piacciono i gialli, i programmi comici e i vecchi film). E’ una brava massaia. Attenta, risparmiosa, se non addirittura tirchia (ne sanno qualcosa i suoi ospiti nei vari castelli, gelidi, ed è la stessa Elisabetta ad abbassare personalmente i termostati).

Fra i compiti di una Regina c’è anche quello di fare figli. Lei ne ha sfornati quattro. Nessuno può sapere, tranne gli intimi, se Elisabetta è anche una donna intelligente. Ma un Re non è obbligato a essere intelligente. Deve saper fare il Re. E a me pare che Elisabetta II d’Inghilterra, pur regnando in tempi tanto diversi, sia una degna erede di suo padre, quel Giorgio VI che durante i devastanti bombardamenti tedeschi su Londra del 1942 restò ostentatamente nella capitale per infondere fiducia e coraggio ai suoi sudditi. God save the Queen.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 23 aprile 2016