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Fino a qualche tempo fa almeno nelle tre ultime giornate di campionato le partite si giocavano tutte la domenica e alla stessa ora perchè le squadre che erano il lotta per lo scudetto o per la retrocessione o per l'ammissione alla Coppa dei Campioni non potessero avantaggiarsi conoscendo il risultato delle rivali. Domenica scorsa è stato infranto anche quest'ultimo tabù. E' vero che gli organizzatori hanno avuto l'accortezza di raggruppare le partite delle squadre che si battevano per non retrocedere alla mattina, ma la Fiorentina, in questa alchimia, ha giocato prima del Milan cui contende il posto per entrare nei preliminari di Coppa. Il tutto naturalmente per esigenze televisive. La Tv ha stuprato il calcio. Lo spia. Un giocatore che ha ricevuto un tremendo pestone non puo' ululare una sacrosanta bestemmia, che l'arbitro non ha sentito o ha saggiamente ignorato, perchè il 'labiale' lo inchioda. Ha osato entrare perfino nel sacrario degli spogliatoi. E alla fine del primo tempo un giocatore, sfinito, viene arpionato dall'intervistatore perchè dica le solite ovvietà.

Questa pervasività televisiva non è che uno degli aspetti di quel business che ha spogliato il calcio di tutti gli elementi rituali, simbolici, mitici, identitari, irrazionali che ne hanno fatto la fortuna per più di un secolo. Tifare significa riconoscersi in una squadra, nella sua storia, nella sua tradizione, nei suoi colori, nella sua maglia, in certi giocatori-simbolo, nel suo carattere la cui continuità era assicurata dal passaggio di testimone di generazione in generazione fra gli 'anziani' e i giovani del vivaio. Tutto sparito. O quasi. Giocatori, anche importantissimi, cambiano squadra ogni anno o addirittura nella stessa stagione con tanti saluti alla regolarità dei campionati. Ci sono squadre che giocano con undici stranieri. Abbandonati i vivai (eppure il Barcellona ha dimostrato che si puo' costruire una grandissima squadra quasi esclusivamente con la 'cantera', Iniesta, Xavi, Busquets, Piqué e lo stesso Messi che vi arrivo' a tredici anni). Del resto appena appare in una squadra di media classifica un ragazzino promettente le 'grandi' glielo ranzano via subito a suon di milioni. Casi come quelli di Riva, di Antognoni, di Bulgarelli che rimasero tutta la vita in squadre fuori dal giro delle 'grandi' non si ripeteranno più. Nemmeno le maglie sono più sacre, in trasferta gli sponsor pretendono che abbiano colori diversi. Come si fa ad identificarsi? Intanto sul campo si assiste a scene grottesche. Una volta c'era un arbitro coadiuvato da due guardialinee. Adesso c'è il 'quarto uomo' e quattro semiarbitri piazzati sulla linea di porta. Per decidere su un fallo fanno un'assemblea.

Il calcio era una grande festa nazionalpopolare, una 'festa di tutti', interclassista. Allo stadio sedevano accanto l'imprenditore e il suo operaio. Adesso, con la politica degli abbonamenti, la 'suburra' viene stipata dietro le porte (eppoi ci si meraviglia se accadono incidenti). C'è chi ha Sky e chi non ce l'ha. Da interclassista il calcio è diventato classista, riproducendo, come uno specchio, cio' che accade nella società italiana.

Con tutte queste belle innovazioni il calcio da stadio (l'unico, vero, calcio) ha perso dal 1982, anno dell'introduzione del 'terzo straniero', il 40% degli spettatori. Si è ridotto a spettacolino televisivo, come una qualsiasi 'Domenica in', da fruirsi solipsisticamente a casa. E perdendo tutti i suoi contenuti specifici susciterà un interesse sempre più generico, vago, intercambiabile che, come tale, prima o poi si rivolgerà altrove. Gli apprendisti stregoni avranno cosi' ucciso, per avidità e overdose, 'la gallina dalle uova d'oro', e il razionalismo nella forma del denaro avrà realizzato, è il caso di dirlo, l'ennesimo autogol.

Massimo Fini

Il Gazzettino, 17 maggio 2013