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E’ la prima volta nella storia, ormai nemmeno più così breve, degli Stati Uniti che un Presidente regolarmente eletto non viene accettato a priori da tutti gli americani. Trump lo ha detto: “Nessun politico nella storia, e lo affermo con grande sicurezza, è stato trattato peggio di me”. Nei casi precedenti di impeachment o di possibile impeachment ciò era avvenuto, dopo anni, per azioni ritenute scorrette da parte del Presidente. Richard Nixon, che peraltro diede le dimissioni prima che fosse nemmeno iniziata una procedura di impeachment, e che, a mio avviso, lo dico di passata, è stato il miglior presidente del dopoguerra (aprì alla Cina con decenni di anticipo, mise fine all’ipocrisia del Gold Exchange Standard, chiuse la guerra del Vietnam, non aveva, a differenza del celebratissimo Kennedy, rapporti con la mafia né c’erano ombre sul suo passato) fu impallinato da un’inchiesta giornalistica, il famoso ‘caso Watergate’ che rivelò che aveva spiato illegalmente gli avversari del partito democratico. Nixon diede le dimissioni, senza nemmeno provare a difendersi, con la motivazione che gli interessi dell’America dovevano prevalere, senza se e senza ma, sui suoi.

Con Trump si è cominciato fin da subito, fin dal primo giorno della sua elezione. Ciò, a mio parere, è uno dei segni dei profondi mutamenti che stanno avvenendo nel popolo americano. Gli americani, proprio a cagione della loro storia di transfughi, sono sempre stati nazionalisti, anzi ipernazionalisti, e hanno sempre avuto un profondo senso dell’unione della loro comunità. Al di là delle differenze, per noi europei quasi impalpabili, fra democratici e repubblicani l’America e la sua compattezza era sempre first cioè al primo posto.

Anni fa mi trovavo in un locale, mi pare si chiamasse Finnegan, dove si salutavano due giovani yankee che stavano partendo per l’Irlanda per unirsi all’Ira. L’atmosfera era incandescente e, al limite, quasi rivoluzionaria. Ma alla fine, con mia sorpresa, tutti, compresi i due giovani, si alzarono in piedi e intonarono l’inno nazionale americano.

Secondo me la vittoria nella seconda guerra mondiale non ha fatto bene agli americani. Prima potevano essere considerati, legittimamente, il faro delle democrazie occidentali. Il Premio Nobel per la pace dato nel 1919 al presidente Thomas Woodrow Wilson era ben meritato e niente affatto fasullo come sarebbero stati altri Nobel del genere assegnati nei decenni successivi, perché Wilson fu l’ispiratore, durante la conferenza di Parigi del 1919, della Società delle Nazioni che era un tentativo di pacificazione universale, attraverso una organizzazione che unisse tutti gli stati del mondo, e che è il precedente a cui si è ispirata la fondazione dell’Onu dell’ottobre del 1945.

Con la vittoria nella seconda guerra mondiale la politica estera degli Stati Uniti, che fra le altre cose, a differenza degli europei, non erano mai stati colonialisti, diventa estremamente aggressiva. Prima con la guerra del Vietnam e poi, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, in un crescendo parossistico con le aggressioni alla Serbia, all’Afghanistan, all’Iraq, alla Somalia, alla Libia. Così l’America da nazione sostanzialmente pacifica, o almeno pacifista, diventa guerrafondaia.

Un altro segno dei cambiamenti avvenuti in America è il trattamento dei prigionieri di guerra su cui, a mio parere, si misura, almeno in parte, la civiltà di una comunità. I soldati italiani, e quindi di un Paese fascista, che sono stati prigionieri negli Stati Uniti furono trattati con tutti i riguardi. Gaetano Tumiati, lo scrittore, che visse quell’esperienza, mi raccontava che tutti i suoi compagni consideravano una fortuna aver fatto la loro prigionia negli Usa. A settant’anni di distanza le cose sono profondamente cambiate. I prigionieri non sono più ‘prigionieri di guerra’ ma sempre e comunque terroristi di cui si può fare carne di porco, torturare, umiliare. E’ quanto avvenuto, per esempio, a Guantanamo con l’ipocrisia che Guantanamo non sta in territorio americano. E’ quanto avvenuto in Iraq nella prigione di Abu Ghraib che segna il culmine di questa escalation degradante. Ad Abu Ghraib non si torturava per avere delle informazioni dai prigionieri, pratica già in sé inaccettabile ma che può servire a salvare la vita di altri compatrioti, ma semplicemente per umiliare, senza altra ragione, il nemico.

Noi, che siamo notoriamente considerati antiamericani ma non contro il popolo americano di cui ci piace anche la naivité, ma contro le sue più recenti élites, scongiuriamo gli americani di ritornare a essere quel faro di civiltà, che pur fra tante inevitabili contraddizioni, come l’apartheid, sono stati per tutto il Novecento.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 20 maggio 2017