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Mentre scrivo Umberto Bossi lotta fra la vita e la morte all’ospedale di Varese. Oltre ovviamente ai familiari, tutti, anche coloro che gli furono acerrimi avversari, si augurano che se la cavi e credo che sia un augurio sincero perché di fronte ai ‘nuclei tragici dell’esistenza’, fra cui la morte sta al primo posto, la politica passa in secondo piano mettendoci di fronte a una di quelle questioni radicali di cui si sostanzia la nostra vita. Io no. Spero che la Nobile Signora se lo porti via, magari in qualche suo particolare paradiso indipendentista. Mi fa male al cuore che “il guerriero”, come lo chiamano ancora nel suo entourage, debba trovarsi definitivamente ridotto alle condizioni di malato terminale.

L’Umberto era venuto a trovarmi a casa mia nella primavera del 2016, così come aveva fatto tanti anni prima quando, senza i filtri a cui sono usi i politici, era venuto da me, invece di chiedermi di andar da lui, per propormi la direzione dell’Indipendente. In quell’occasione, un po’ impressionato dalla mia biblioteca, volle fare il fenomeno e indicando lo scaffale più alto disse: “Quella è La Ragione aveva Torto?!”. Non lo era. Ma gli risposi: “Sì, sì, Umberto, è proprio La Ragione”.

Nell’incontro della primavera del 2016, seduto sul mio divano rosso, aveva qualche difficoltà nella parola ma era lucidissimo. Parlammo a lungo. Di politica naturalmente. Era un po’ amareggiato per certe prese di distanza che avevano assunto alcuni di quelli che un tempo erano stati i suoi fedelissimi. Solo pochi mesi dopo ai funerali di Casaleggio era un altro uomo. Assente. Quasi non mi riconobbe e si non riconobbe nemmeno la bella ragazza che mi stava accanto e che non gli era mai stata indifferente.

Considero Umberto Bossi, l’unico, vero, uomo politico italiano dell’ultimo trentennio. Purtroppo per lui, e non solo per lui, era troppo in anticipo sui tempi. La sua idea delle tre ‘macroregioni’, molto lontana dal pallido autonomismo su cui si esercita oggi la nuova Lega di Salvini, prevedeva un’Europa politicamente unita di cui i punti di riferimento periferici non sarebbero stati più gli Stati nazionali ma, appunto, aree geografiche che, superando i confini, fossero coese dal punto di vista economico, sociale, culturale, climatico (“le piccole Patrie”). Quell’Europa unita non si è realizzata se non nella forma economica, che non era, checché se ne pensi, ciò che più gli interessava, quello che soprattutto gli premeva era l’identità, e quindi la sua idea preveggente e antiglobalizzazione mondiale non ha potuto avere seguito.

Ho frequentato parecchio il ‘senatur’ negli anni della prima Lega. E’ un uomo semplice, dai gusti e dai modi semplici, un vero figlio del popolo, ma ha, o aveva, la capacità di assimilare dalle sue poche letture e dal mondo che lo circonda ciò che gli interessa e di utilizzarlo ai suoi fini, che a parer mio è la vera forma dell’intelligenza.

Quante volte insieme a Daniele Vimercati, mentre, di notte, stavamo in qualche posto a mangiare una pizza, situazione che l’Umberto prediligeva, Daniele gli ha telefonato perché si unisse a noi. E lui, se non aveva altro da fare, veniva senza tenere alcuna distanza. Lo si è sempre ritenuto un uomo rozzo. Non lo era affatto. Basta rileggere l’intervento alla Camera del dicembre del 1994, quando preannunciò la caduta del primo governo Berlusconi, perfetto nello stile e nel linguaggio. Quel discorso si concludeva così: “Oggi finisce la Prima Repubblica”. Purtroppo si sbagliava.

Una notte, seduto accanto a lui davanti alla solita pizza, gli chiesi a bruciapelo: “Senti, Umberto, tu sei più di destra o di sinistra?”. “Più di sinistra” rispose “Ma se lo scrivi ti faccio un culo così”. Ai giornalisti, si sa, non bisogna mai raccontar nulla perché prima o poi lo scrivono. E così ho fatto anch’io, anche se alcuni anni dopo quando ne ricostruii il ritratto.

Adesso che è nelle condizioni in cui è all’ospedale di Varese gli sono vicino con tutto il cuore. Ma a modo mio.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 17 febbraio 2019