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Il Foglio, per la penna di Paola Peduzzi, ha fatto un lungo e interessante reportage su Vinitaly, la fiera del vino che si svolge in questi giorni. Il Foglio però si occupa soprattutto dell’aspetto economico, che ovviamente c’è perché il vino è un prodotto, anche se molto particolare. Io penso invece che quella del vino sia soprattutto una questione culturale più importante di quella economica.  Di quest’ultima mi preme solo sottolineare che noi italiani siamo incapaci di promuovere i nostri prodotti. I francesi hanno degli ottimi vini, beaujolais, bordeaux, borgogna. Ma noi ne abbiamo di altrettanto validi, e forse più validi e soprattutto molto diversificati. Penso che sia una questione orografica perché la Francia è in buona parte piatta mentre noi con gli Appennini e 8300 chilometri di coste, peraltro autorovinate, abbiamo regioni diversissime e quindi anche vini molto diversi poiché l’Umbria non è la Toscana, la Toscana non è l’Abruzzo, l’Abruzzo è lontanissimo dalle Puglie e dalla Sicilia.  Siamo poi continuamente vittime di appropriazioni indebite. Il Prosecco croato (Prošek) non ha nulla a che vedere col nostro.

Per noi italiani, dicevo, il vino è soprattutto una cultura ed un fatto sociale. Lo si è sempre bevuto dappertutto e non mi riferisco tanto ai grandi ristoranti (anzi questa storia degli chef stellati comincia a dare sui nervi, indice di una bulimia che riguarda il cibo) ma alle bettole, alle taverne, ai trani di cui parla Gaber (dove ci sono “il finto pittore e il finto scrittore che parlan di sé, tra sé e sé”). E’ nei trani che si incontrava la clientela più disparata, ubriaconi dei bei tempi andati, dirigenti che venivano a consolarsi di un amore perduto, piccola mala. E’ lì che si facevano degli incontri interessanti e a volte delle amicizie, non certamente nei bar trendy di Corso Como dove ogni coppia davanti a un malinconio e immalinconito spritz sta con la sua solitudine.

A tavola, nelle famiglie, si è sempre pasteggiato col vino, l’acqua era impensabile, la Coca cola una bestemmia.

Però adesso il vino conosce un rapido declassamento. Intanto per ragioni, diciamo così, tecniche: oggi il classico tappo di sughero è spesso sostituito da tappi di plastica. Ora è vero che a volte il sughero può contaminare il vino (il classico “sapore di tappo”) ma lo si può bere lo stesso. se succede con la plastica il vino diventa imbevibile.

I ragazzi oggi preferiscono bere birra, le ragazze i bianchi con le bollicine che sono vini per “chi tiene alla salute” come sono gli astemi, cresciuti in modo esponenziale, a cominciare dal direttore di questo giornale, tipi pericolosissimi gli astemi, come, i vegani e vegetariani, in cui si nasconde un serial killer.   

C’è poi da considerare che proprio la commercializzazione del vino ha prodotto gravi storture e speculazioni. Il Chianti è coltivato, appunto, nella zona del Chianti. Oggi ce n’è in giro una quantità mostruosa, in Italia e soprattutto negli Stati Uniti (che cosa vogliono sapere di vino quegli zotici degli americani, la loro bevanda nazionale è il whisky, un superalcolico che meriterebbe tutto un altro discorso) è chiaro che si tratta di un Chianti taroccato. Il Pigato viene coltivato in una ristrettissima zona della Liguria, nell’imperiese, inoltre, essendo un vino molto delicato, non sopporta il passaggio degli Appennini, quindi se vi offrono un Pigato a Milano non è un Pigato o comunque non ha le qualità del Pigato. Il Pigato, insieme al “Nostralino” un suo sottoprodotto, io lo bevevo, con il mio amico Giagi d’estate (è un classico vino estivo) sulle bancarelle di Savona al costo di 20 o 30 lire. Adesso pur tenendo conto delle successive e inevitabili inflazioni (problema del momento) te lo servono ad un prezzo proibitivo ( a Milano un Pigato quasi autentico lo puoi trovare solo a le Cinque Terre),

Oggi per portarsi avanti si comincia a vendemmiare a Giugno, una vera bestemmia ( è come quando si ingrassano i polli tenendoli ventiquattro ore su ventiquattro sotto la luce dei riflettori, perché ingrassino prima, portando sulle nostre tavole, come abbiamo già scritto, una carne malata) perché la vendemmia la si fa a Settembre ed era quindi occasione di grandi feste contadine quando i contadini esistevano ancora. 

C’è poi la vendemmia meccanica che sta sostituendo quella manuale. Perché? Elementare Watson: perché la vendemmia manuale vuole molta più manodopera (poi ci lamentiamo perché ci sono i percettori del Reddito di Cittadinanza). Inoltre la vendemmia meccanica non può sostituire, per qualità, quella fatta con le manine sante di un uomo o di una donna (avrei dovuto scrivere, secondo le imposizioni attuali  che hanno fatto della donna non più “la seconda metà del cielo com’era e come doveva rimanere, ma la prima: ”le manine sante di una donna e di un uomo”). E’ la questione dei tombini. A Milano che oltretutto non ha un fiume decente non potendosi considerare tali il Seveso e il Lambro, vere fogne a cielo aperto,  basta un onesto temporale che la città si allaga. Perché i tombini non vengono più sturati dagli spazzini diventati “operatori ecologici” quando esistono ancora, ma dalle macchine che sono ovviamente più veloci ma non hanno la cura che lo spazzino mette, metteva, nel suo mestiere. Inoltre gli stessi tombini sono cambiati. Una volta erano un’opera d’arte tanto che l’artigiano ci teneva a metterci sopra il suo nome anche se solo con le iniziali. Ma questo ha che vedere con un’altra questione, anch’essa all' ordine del giorno, la semi-scomparsa dell’artigianato che si può trovare ancora solo in qualche piccolo centro o comunità, altrimenti sono imprese con la voracità delle imprese e l’anonimato delle imprese.

Io comunque rimango fedele al vino, in qualsiasi forma, anche annacquato: “Ma che ce frega, ma che ce 'nporta se l'oste ar vino ci ha messo l'acqua,e noi je dimo, e noi je famo, ci hai messo l'aqua e nun te pagamo “.

 

Il Fatto Quotidiano, 7 aprile 2023