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I giovani si dividono in due categorie. Quelli che si drogano e quelli che si drogano. Quelli che si intossicano della droga propriamente detta il cui uso è in costante espansione (tracce di Fentanyl, la potente droga di moda, sono state trovate nei delfini del Golfo del Messico) e quelli che si intossicano di smartphone il cui uso è anch’esso in aumento, non solo nei giovani naturalmente ma è arrivato a riguardare bambini di cinque anni. A quest’orgia vanno aggiunti gli psicofarmaci, il cui uso non riguarda però specialmente i giovani, ma tutti. In un’inchiesta che feci quando pubblicai La Ragione aveva torto? (1985) risultava che 502 americani su 1000 facevano uso abituale di psicofarmaci. Cioè più di un americano su due non stava bene nella propria pelle. E vedendo ciò che accade oggi in America non c’è ragione di pensare che le cose siano cambiate se non in peggio.

I fenomeni delle droghe quelle propriamente dette e le altre si inserisce in un alveo più grande vale a dire nelle nevrosi e nelle depressioni che sono malattie tipiche della Modernità. Appaiono all’inizio della Rivoluzione industriale per poi dilagare (Freud docet). Non esistevano nei tempi passati. C’era solo il malato psichiatrico, il ‘pazzo’ che però i nostri progenitori medievali erano riusciti a metabolizzare credendo che il pazzo, come il mendico, aveva un suo rapporto privilegiato con Dio.

La droga di massa, che coinvolge tutti i ceti, è un fenomeno abbastanza recente in Europa. E c’è chi, come Walter Veltroni (Corriere, 3.5) che come sociologo a me pare valga molto di più di quando faceva il politico, insinua che l’immissione massiccia della droga in Europa riflette un calcolo politico: distruggere alcune generazioni di cittadini europei.

Prima la droga nella forma della cocaina o dell’oppio era una cosa di artisti (Rimbaud, Baudelaire e compagnia). Mika Waltari poté scrivere il suo bellissimo Sinuhe l’egiziano (1945) perché era sotto l’effetto della droga, solo così poté immaginare il mondo tenebroso, misterioso, inquietante, affascinante di cui stava scrivendo. Oppure era una prerogativa dei grandi ricchi che poi potevano andarsi a disintossicare in qualche clinica specializzata. Gianni Agnelli era soprannominato anche “narice d’oro”, perché aveva sniffato tanto da compromettere l’uso del naso.

Il primo morto per droga, anzi morta, in Italia avviene a Milano, nel 1974. Io facendo l’inchiesta sull’episodio per l’Europeo ne conobbi l’amica più cara, Rosanna C. Era figlia di un famoso avvocato, istruita, colta, curiosa, e sarà questo, forse, a fregarla. Si era ridotta a un punto tale che non poteva più leggere perché le righe le si accavallavano, si doveva accontentare dei fumetti o dei fotoromanzi. Io e mia moglie facemmo l’errore di ospitarla in casa nostra. L’unico limite era che non si drogasse in casa. Io feci l’ulteriore errore di consegnarle la mia macchina, una modesta Simca 1000. Con cui Rosanna si fiondò per la città alla ricerca naturalmente della ‘roba’ ed ebbe un incidente. Per timore della mia reazione non rientrò a casa. A me del danno importava relativamente, avevo l’assicurazione. Denunciai la cosa in Questura e al magistrato di sorveglianza, che mi pare, anche se non sono sicuro, fosse Leonardo Guarnotta e Guarnotta o chi per lui mi disse, giustamente, che potevo andare a processo per ‘incauto affidamento’. Rosanna C morirà ugualmente per droga qualche anno dopo. Questo per dire che è pericoloso improvvisarsi specialisti. Credere di poter fare quello che meritoriamente, e sia pur in mezzo a grandi polemiche, fece Vincenzo Muccioli con la sua comunità di San Patrignano.

Nello stesso periodo incontrai nei pressi della Stazione Centrale una ragazzina giovanissima, avrà avuto sì e no diciotto anni, che chiedeva le elemosina, per drogarsi naturalmente. Era veramente un gioiello, non solo per bellezza ma per grazia e modi. In questi casi non sai mai come comportarti. Darle i soldi per alleviare nell’immediato la sua sofferenza, spingendola però così sempre più a fondo?

La mia generazione, quella del Dopoguerra, non è stata coinvolta in droga. Allora bisognava fare un’iniezione, di eroina, della potentissima eroina, e per noi ragazzini l’iniezione ricordava una dolorosa puntura sul sedere. Adesso che ci sono le pillole calarsi un acido, poniamo un yellow sunshine o similare, è cosa di un momento. C’è la stessa differenza che esiste, per chi abbia tentazioni suicidarie, fra il buttarsi dal quarto piano e tirarsi un colpo di pistola. Non alla tempia perché resti vivo ma cieco, ma in gola dove il risultato è sicuro.

A rendere ancora più difficile il già difficile rapporto tra i sessi è arrivato, per i maschi, MeToo (“L’amore? L’eterno odio tra i sessi”, Nietzsche). L’uomo, per ragioni antropologiche che sarebbe troppo complicato chiarire qui, diventate poi culturali, è dalla parte peggiore: quella della domanda. A rigore oggi non è più possibile fare il filo a una ragazza perché basta un niente per essere accusati di ‘molestie sessuali’ o di ‘comportamenti inopportuni’ (queste storie vengono a galla soprattutto quando ci sono di mezzo personaggi famosi del mondo artistico, Depardieu) e il maschio, il maschio normale intendo, che è sostanzialmente un timido, non osa fare un atto che dimostri il suo interessamento per lei (è il tema de Le passanti, di De André, 1974). Inoltre in un incrocio di paradossi il maschio soffre dell’aggressività di lei che, diventata in buona sostanza libera, è spesso la prima a proporsi. E’ proprio l’aggressività della donna che spaventa il maschio. E qui si entra nel tema, molto attuale, dell’infertilità. L’infertilità come scrive Gismondo (Fatto, 20.5) in Italia colpisce 2 coppie su 5. Molto spesso è dovuta a malformazioni fisiche dell’uno e dell’altra. Ma più spesso ancora si deve a questioni psicologiche. Insomma i giovani non scopano o scopano troppo poco. Uno psichiatra, che faceva la scrematura per i candidati Cinque Stelle, direi con risultati non ottimali, mi ha raccontato che spesso venivano da lui giovani che si consideravano impotenti. Naturalmente li faceva visitare da uno specialista. Fisicamente erano perfetti. Evidentemente era una questione psicologica. Conosco almeno tre o quattro dei miei amici sulla trentina, bei ragazzi, che a quell’età sono ancora più o meno vergini (“Osa” dico loro “vedrai che lei ci sta, e se non ci sta avrai fatto solo una brutta figura per cui valeva la pena tentare”).

I giovani, ragazzi e ragazze, soffrono oggi di anoressia, di bulimia e in genere di disturbi alimentari che, al limite, possono portare al suicidio. Ogni anno, nel mondo occidentale, ci sono 46.000 suicidi. Non ho mai visto un talebano suicidarsi. Cosa vuol dire? Che ai nostri ragazzi mancano valori forti, condivisi, quelli che io chiamo i valori “pre-ideologici, pre-politici” che corrispondono alla dignitas latina (difesa del più debole, lealtà, una morte dignitosa che, allora, era quella che avveniva in battaglia o per mano propria) sostituiti dallo stress cui ci costringe l’attuale modello di sviluppo. Salito un gradino devi salirne immediatamente un altro e poi un altro ancora in una corsa senza fine senza poter mai avere un momento di pausa e di riflessione, privo di ansia. Perché è proprio l’ansia che domina il nostro mondo.

 

4 giungo 2025, il Fatto Quotidiano