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Che ognuno sia libero di agire la propria sessualità secondo quanto gli dettano l’istinto e la natura e di regolare le proprie relazioni sentimentali come meglio gli pare è fuori discussione. Ma mi sembra un tantino paradossale che adesso sulla famiglia tradizionale, composta da un uomo, maschio, e da una donna, femmina, possibilmente con dei figli, sia caduto una specie di marchio d’infamia, come ci dicono le grandi polemiche di questi giorni intorno al ‘Family Day’ che si è svolto a Verona. Se uno vuole sposare una donna (o viceversa), avere dei figli ed essere contrario all’aborto anche questi sono fatti suoi, sono un diritto di libertà che non ha meno dignità di quello di chi vuole fare il contrario. Come al solito siamo passati da un estremo all’altro. Gli omosessuali sono stati discriminati e costretti alle catacombe per secoli, ma una volta che è stata sancita, per legge e per cultura, la loro parità di diritti e di considerazione sociale con gli etero è saltato fuori l’”orgoglio omosessuale”. L’”orgoglio omosessuale” è pari, per stupidaggine, all’”orgoglio eterosessuale”. Né l’una né  l’altra posizione hanno da dar luogo a una sorta di complesso di superiorità. Uno è quello che è, punto e basta.

Un discorso a latere merita l’adozione da parte di coppie omosessuali. Il diritto della coppia omosessuale di comportarsi come gli pare trova un limite quando c’è di mezzo un terzo soggetto. In questo caso il bambino che si vorrebbe adottare. Un nascituro, almeno sulla linea di partenza –come ha detto Salvini con cui sono completamente d’accordo- “a diritto di avere un padre e una madre”, perché così detta la Natura che ha elaborato le proprie modalità in milioni di anni. Per questo la legge italiana a posto per l’adozione da parte di una coppia omosessuale limiti più stringenti di quelli che riguardano una coppia eterosessuale, pur se limiti ci sono anche per quest’ultima, perché un figlio non è un oggetto di consumo, né noi occidentali possiamo andare a rapinare i bambini di altri Paesi o procurarceli a cagione della nostra sterilità, implicita nella coppia omosessuale, di fatto in quella etero, con la pratica infame dell’’utero in affitto’ che significa la completa mercificazione del corpo della donna e che le femministe, di ieri e di oggi, avrebbero fatto meglio a contestare con maggior durezza e maggior ragione di quanto abbiano fatto in questi giorni contro il ‘Family Day’ che non toglie i diritti a nessuno ma lascia semplicemente a una coppia il diritto di scegliere il proprio destino.

Con Salvini sono anche d’accordo sulla nuova legge sulla legittima difesa, fortemente voluta dalla Lega e molto mal digerita dai Cinque Stelle, che la rende sempre legittima senza bisogno che ci sia proporzionalità fra offesa e difesa, quando una persona entra di nascosto e non autorizzata in casa tua. In questo caso il rischio di una risposta sproporzionata da parte del padrone di casa, o chi per lui, deve assumerselo chi sta violando la legge e non la vittima che non ha il dovere di valutare quali siano le reali intenzioni dell’intruso. Così come trovo giustissima quella parte della norma che esenta la vittima, che ha ferito o ucciso l’intruso, non importa se con una pistola o con un altro mezzo, dal pagare i danni a costui o alla sua famiglia: il danno e la beffa.

Meglio regolata, a parer mio, dovrebbe essere la questione delle “attinenze”. Cioè la nuova legge dovrebbe riguardare solo la violazione del domicilio (“la tana”) o del negozio, non le sue “attinenze”. Per fare un esempio se un ladro, magari un bambino, entra nel mio giardino e si arrampica su un albero per rubarmi delle mele e io gli sparo e lo uccido questo è un omicidio volontario che è fuori dalla legittima difesa e probabilmente anche dall’”eccesso colposo di legittima difesa”. In questi casi particolari la decisione spetterà comunque al giudice.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 2 aprile 2019

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E’ in fase avanzata il progetto di costruire a Milano un nuovo stadio di calcio che dovrebbe sostituire quello, storico, di San Siro. I tifosi e anche i milanesi che tifosi non sono si sono divisi fra favorevoli e ‘nostalgici’. Va da sé che io sono fra i secondi, però per ragioni più profonde della semplice, e sia pur importante, nostalgia. Per la verità io sono nostalgico del vecchio San Siro, quello che c’era, immutato da sessant’anni, prima che, per i Campionati del mondo del 1990, si decidesse di ‘aggiornarlo’ con un costo che partito da un preventivo di 35 miliardi arrivò, in corso d’opera, a 170 per le solite grassazioni che si consumano, ovunque e comunque, sulle ‘grandi opere’. Ma questo sarebbe ancora il meno perché a tali ruberie siamo ormai così abituati da non farci nemmeno più caso. La cosa più grave è che il vecchio stadio invece di uscirne migliorato è stato peggiorato, in tutti i sensi. Quello estetico tanto per cominciare. San Siro, visto da fuori e da dentro, era un ovale perfetto. Le quattro enormi torri, per costruire un terzo anello, inutile perché San Siro, giochino il Milan o l’Inter anche contro una grande rivale europea, 90 mila spettatori non li ha mai visti e perché, comunque, dal terzo anello il campo è troppo lontano e non si vede nulla, hanno distorto questa ellittica geometria. Il terreno di San Siro, non a caso noto come “la Scala del calcio”, era considerato il migliore d’Europa insieme a Wembley e al Prater di Vienna. L’altrettanto inutile tettoia in vetrocemento che dovrebbe proteggere gli spettatori, inutile perché la pioggia ha il cattivo e dispettoso vizio di non scendere giù dritta ma di traverso, lo ha rovinato. Chiunque abbia giocato a calcio anche sui campi più periferici o dilettantistici sa che la buona tenuta del terreno dipende dalla sua esposizione al sole. Con quell’assurda copertura il terreno di gioco, un misto di erba e sintetico causa non ultima dei numerosi infortuni, ora deve essere cambiato ogni tre mesi. In primavera e a inizio estate si soffoca, non si respira. Ho assistito con mio figlio Matteo alla partita Germania-Olanda dei Campionati del mondo del 1990, giocata a fine giugno (2 a 1 per i tedeschi, gol di Klinsmann e di Brehme, chi segnò per gli olandesi non me lo ricordo). Eravamo dietro una delle porte, sul primo anello, e quindi molto vicini al terreno di gioco. Respiravamo a fatica e ci chiedevamo come potessero farlo quelli in campo.

Comunque, nonostante tutto, San Siro resta un signor stadio, tanto che vi si è disputata nel 2016 la finale di Champions. Perché allora abbatterlo? L’idea è partita dagli Stati Uniti, da Elliott, il fondo proprietario del Milan. Adesso gli americani, che a calcio non hanno mai saputo giocare (i loro sport sono il baseball e il basket) vogliono colonizzarci anche in questo gioco che è nato in Europa. E naturalmente vi portano la loro mentalità e la loro cultura. Poiché non hanno una Storia, almeno rispetto a quella più che bimillenaria dell’Europa, non hanno nemmeno monumenti. Per loro abbattere un grattacielo per sostituirlo con un altro è normale. Lo skyscraper è il loro mito. Benché buona parte del territorio sia costituito da grandi pianure il loro orizzonte, anche sociale, è verticale (“il sogno americano”). Per noi europei, e soprattutto per noi italiani, è molto diverso. Abbiamo una memoria storica e su questa si fonda la nostra identità. Noi, a differenza degli americani, non guardiamo al futuro ma al passato, perché il nostro è un grande passato. Lo è anche quello dei tempi più recenti. Se pensiamo a Milano –perché qui di Milano si tratta- questa città è fatta dei suoi stupendi palazzi, settecenteschi, ottocenteschi, novecenteschi (per questi ultimi fino alla Seconda guerra mondiale), delle sue case di ringhiera là dove ancora esistono e resistono a quella che si chiama ‘modernizzazione’. Ed è fatta quindi anche del suo stadio di calcio, che è del 1928, dove sono passate, gioendo o soffrendo, generazioni e generazioni. Togliere di mezzo San Siro significa recidere una parte, non trascurabile, della memoria storica di Milano e dei milanesi.

Naturalmente tutta questa faccenda del nuovo stadio nasce sull’onda del business, l’unico Dio universalmente riconosciuto in tutto il mondo, adesso anche in Cina dove un Dio propriamente detto non l’hanno mai avuto e se mai c’era non si occupava certo di affari. Intorno al nuovo stadio dovrebbero nascere negozi, appartamenti di prestigio, uffici. Ma questo oltre a interrompere e travolgere un tempo, con tutti i suoi valori, di cui i nuovi abitanti di Milano non avranno più memoria, significa scardinare un intero quartiere, con la sua socialità, la sua estetica, i suoi angoli di visuale: lo stadio, con dietro, più nascosto, l’ippodromo del trotto anch’esso destinato a scomparire. Un quartiere che fino a oggi aveva funzionato benissimo. Del resto l’esperimento, con effetti devastanti sul piano sociale, è già stato fatto con gli strampalati grattacieli, compreso il ‘bosco verticale’, che ruotano attorno alla piazza Gae Aulenti (sarò della vecchia scuola ma per me un bosco è fatto per passeggiarci dentro, non per impiccare degli alberi alla facciata di un edificio).

Ma c’è anche un altro aspetto della questione che i Latini, molto meno citrulli di noi, riassumevano nel brocardo “quaeta non movere”: cioè se una cosa ha funzionato bene, magari a basso regime, che necessità c’è mai di cambiarla? L’altro giorno sul Fatto Fanny Pigeaud ha dato conto di una commendevole e pia iniziativa del Wwf che vorrebbe ridurre una vasta area forestale del Congo a “riserva naturale”, sotto la tutela dell’Unesco, per salvare appunto la foresta espellendone gli ottomila indigeni, questi importuni, che ancora si ostinano ad abitarla. A questo progetto sostanzialmente coloniale l’antropologa Fiore Longo ha replicato: “Se la foresta ha la sua biodiversità vuol dire che i popoli che vi hanno sempre vissuto hanno saputo preservarla. Allora, perché cacciarli via?”.

Ebbene, anche lo stadio di San Siro fa parte, nel suo piccolo, di questa ecologia naturale. E quindi resti così com’è, come lo abbiamo amato, o magari odiato, per quasi un secolo. In culo agli yankee.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 30 marzo 2019

 

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A proposito di Lorenzo Orsetti morto in battaglia combattendo con i curdi contro l’Isis, Vittorio Feltri scrive (Libero 20.3): “Ci domandiamo perché abbia abbandonato la sua specialità di sommelier, non particolarmente stressante, per andare a fare il ganassa in una guerra alla quale nessuno lo aveva obbligato di partecipare. Non riusciamo a capire come mai un tranquillo cittadino italiano, lavoratore impegnato, a un certo punto della sua vita, autentico tran tran, decida di calcare il deserto allo scopo di diventare tiratore e abbattere il maggior numero di canaglie dello Stato islamico. Mistero insondabile”.

Io invece Orsetti lo capisco benissimo e non solo perché è andato a battersi per una causa giusta, quella curda, ma perché comprendo anche i foreign fighters che, all’opposto, sono andati a combattere per l’Isis. Quello che cercano di colmare questi giovani è il vuoto di senso che si è creato nel mondo occidentale o che di questo mondo ha fatto proprio il modello. Questo fenomeno si lega a quell’altro, anche se molto meno pericoloso, dei ragazzi che si danno agli sport estremi (bungee jumping, volcano boarding, crocodile bungee, limbo skating, wing-walking, scalare a mani nude un grattacielo). Poiché questa vita è un tran tran noiosissimo, come ammette lo stesso Feltri a proposito di Orsetti, tanto vale correre il rischio di perderla.

Come aveva preannunciato Nietzsche nella seconda metà dell’Ottocento, con un certo anticipo perché era un genio, Dio è morto nella coscienza dell’uomo occidentale. E’ stato sostituito dalle ideologie nate dall’Illuminismo che proprio di Dio era stato l’assassino. Ma dopo due secoli anche le ideologie sono morte. Cosa ci resta? La Democrazia. Ma la Democrazia è un sistema di regole e di procedure, non un valore in sé, è una scatola vuota che va riempita di contenuti. Purtroppo noi in Occidente questa scatola l’abbiamo riempita solo con contenuti materialisti e quantitativi, cioè, per dirla con Fukuyama, “la diffusione di una cultura generale del consumo” coniugata col “capitalismo su base tecnologica”. Insomma si è voluto mutare l’uomo, quasi in senso genetico, in consumatore, suddito dell’Economia e della Tecnologia. E a me non pare affatto strano, lo ritengo anzi positivo, che i giovani, o perlomeno alcuni di essi, rifiutino questa degradazione che tanto sembra piacere a Vittorio Feltri ed è ritenuta necessaria dai padroni del vapore. Per usare una famosa frase di Oscar Luigi Scalfaro “io non ci sto” o, per meglio dire, non ci starei se avessi vent’anni e, naturalmente, il coraggio necessario.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 26 marzo 2019