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Dopo aver innalzato peana di vittoria per l’allungamento della vita media (80,8 anni per gli uomini, 85,2 le donne, in Italia) considerato una delle maggiori conquiste della Modernità in raffronto con i ‘secoli bui’ del Medioevo quando l’età media, a dire degli storici e degli scienziati, era di 32 anni (Naturalmente gli scienziati, questi criminali moderni, barano sapendo di barare perché non scontano l’alta mortalità natale e perinatale per cui, nella realtà, nel mondo preindustriale la vita media era di 70 anni. “Settanta sono gli anni della vita dell’uomo” dice il biblista, una cosa equa, un’esistenza né troppo corta, né tirata troppo per le lunghe). Dopo averci martellato i coglioni, sempre in nome della lunghezza della vita e delle loro statistiche, col terrorismo diagnostico per cui ognuno di noi, qualsiasi età si abbia, dovrebbe fare almeno sei esami clinici, di controllo, all’anno. Dopo averci ossessionato, sempre in nome della lunghezza della vita, con gli ‘stili di vita’ appropriati, niente fumo e niente alcol, a letto alle dieci di sera (per essere pronti e scattanti la mattina per andare a fare gli schiavi salariati) per cui avremmo dovuto vivere da vecchi fin da giovani. Dopo aver osato dire la bestemmia di tutte le bestemmie, “vecchio è bello”, adesso le Vispe Terese, i Candide de noantri, si accorgono che la vecchiaia è un peso e un dramma.

Certo che lo è un dramma. Per la società. Dal punto di vista economico, già oggi un numero abbastanza esiguo di giovani, sempre in Italia, deve mantenere 16 milioni di pensionati. Dal punto di vista psicologico, con l’ingrigire, è il caso di dirlo, e il venir meno delle energie del contesto sociale che ci influenza tutti. “Vivere in una società popolata in prevalenza da vecchi mi farebbe orrore” disse lo psicanalista Cesare Musatti quando aveva 90 anni e quindi era al di là di ogni sospetto. Chiunque abbia vissuto anche solo per un poco presso un popolo ‘giovane’, poniamo quello tunisino dove l’età media è di 32 anni, può capire le parole di Musatti.

Ma il vero dramma della vecchiaia lo vive il vecchio. Su questo tema ho scritto un libro, Ragazzo. Storia di una vecchiaia, che deve essere uno dei miei migliori dato che molti dei suoi passi vengono ripresi spesso. So quindi quello che mi dico. Lo scrissi che avevo 60 anni. “E’ troppo presto” disse la madre di mio figlio. Risposi che volevo scriverlo quando ero ancora lucido, privo della tentazione di edulcorare la pillola come, dall’antichità a noi, han sempre fatto, ed è umanamente comprensibile, tutti gli autori che da anziani si sono occupati della vecchiaia, dal Cicerone del De senectute al Piero Ottone di Memorie di un vecchio felice. E la pillola è amarissima. “L’aspetto più drammatico della vecchiaia non è tuttavia la decadenza fisica, ma l’impossibilità di un progetto di vita. Esistenziale, sentimentale, professionale. Manca il tempo. Manca il futuro” (Ragazzo, p.41). Mi diceva il mio caro amico Giorgio Bocca: “Qui non puoi più nemmeno piantare un albero perché non sai se lo vedrai crescere”.

Tutti i vecchi pensano alla morte. Ci pensano sempre. Non perché ne abbiano una particolare paura, forse ne hanno meno dei giovani, ma perché diversamente da quando si è ragazzi e ci appare in una prospettiva ancora molto lontana, adesso la morte è lì davanti ai nostri occhi, ci pressa, ci assedia. La Nobile Signora ha già alzato la sua falce. In una calda estate di molti anni fa che ero andato al Giornale per riscuotere una vincita da Massimo Bertarelli, bookmaker dilettante, passando davanti alla porta aperta della Direzione vidi Montanelli seduto, immobile, davanti alla macchina da scrivere. Entrai e dissi ridendo: “Che ci fai tu qui, Direttore, per soprammercato in un pomeriggio canicolare di luglio?”. “Cosa vuoi, rispose, se mi rincantuccio a casa penso alla morte. E allora preferisco star qui a fingere di scrivere”.

Molti amici sono morti, altri, come nella Vergogna di Bergman, ci cadono intorno uno ad uno, sembra di essere in una battaglia, senza che ci sia però l’ebbrezza della battaglia. Siamo dei sopravvissuti. E ci prende un senso di spaesamento. “Anche il mondo che hai conosciuto e a volte, con l’energia e l’incoscienza della giovinezza, dominato, è scomparso. Il paesaggio è cambiato, i luoghi pure, gli oggetti sono diversi, altri i protagonisti, i miti, gli idoli, gli attori, le letture di riferimento” (Ragazzo, p.57). Tutto ci appare remoto, lontano, lontano.

Particolarmente dolorosa e angosciosa è la condizione del vecchio nella società che abbiamo costruito. Nella civiltà contadina il vecchio viveva in famiglia, circondato da molti figli e nipoti e da donne che lo accudivano quando non era più in grado di provvedere a se stesso, ma rimaneva comunque il capo del clan, conservava un ruolo e la sua vita un senso. Nella società moderna, a famiglia mononucleare, il vecchio vive quasi sempre da solo, ‘single’ si dice pudicamente come se le parole potessero cancellare, in un bizantinismo indecente, la forza delle cose. E’ continuamente superato dalle innovazioni tecnologiche di cui non riesce a stare al passo. Per dirla ancora una volta con Carlo Maria Cipolla: “Nella società agricola il vecchio è il saggio, in quella industriale un relitto”. C’è infine a tormentarlo un istituto che solo l’astrazione crudele della Modernità poteva inventare: la pensione. Da un giorno a l’altro tu perdi il posto, per quanto modesto, che avevi avuto nella società. E adesso vai a curare le gardenie, povero, vecchio e inutile stronzo (Fantozzi va in pensione).

L’allungamento della vita è stato un mito inseguito con tenacia dalla medicina e dalla cultura moderne. Ma il dubbio che l’allungamento della vita avesse un senso era già venuto a Max Weber, uno dei più profondi e singolari pensatori del Novecento, che scrive: “Il presupposto della medicina moderna è che sia considerato positivo, unicamente come tale, il compito della conservazione della vita…Tutte le scienze naturali danno una risposta a questa domanda: che cosa vogliamo fare se vogliamo dominare tecnicamente la vita? Ma se vogliamo e dobbiamo dominarla tecnicamente, e se ciò, in definitiva, abbia veramente un significato, esse lo lasciano del tutto in sospeso oppure lo presuppongono per i loro fini” (Il lavoro intellettuale come professione).

Ma adesso che con ogni sorta di strumenti e di lusinghe, con una propaganda ossessiva, ci avete costretti a vivere più del lecito, noi la tireremo il più a lungo possibile, non perché lo desideriamo (solo uno psicotico può augurarsi di vivere fino a 120 anni) ma per dispetto, per gravare con la pesantezza dei nostri numeri su questa società di giovani eunuchi.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 24 aprile 2020

 

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Per la cosiddetta ‘fase due’ si profila una discriminazione a danno degli anziani (anche se i sostenitori di tale discriminazione sostengono che sia a favore). Jean- François Delfraissy, consulente scientifico del presidente francese Macron, lo ha detto a chiare lettere: “Il Paese va riaperto, ma anche nelle prossime settimane, forse nei prossimi mesi, ci saranno 18 milioni di persone che dovranno rimanere confinate”. Questi 18 milioni sono gli individui che, sono parole dell’esperto, “hanno superato i 65 o i 70 anni”. Sulla stessa linea, anche se un po’ più sfumata, è la dichiarazione della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen: “Gli anziani dovranno restare isolati, per motivi di protezione, almeno fino alla fine dell’anno”. Questa idea circola anche in Italia. Insomma costoro vorrebbero rapinare agli anziani anche un paio di estati della loro vita, estati che potrebbero essere le ultime non perché moriranno di Coronavirus ma perché potrebbero essere colpiti da quei mille accidenti che sono propri della vecchiaia.

Lasciamo pur perdere che se questa ipotesi divenisse un provvedimento concreto sarebbe del tutto incostituzionale, violerebbe l’articolo 3 della nostra Carta che sancisce un principio fondante della democrazia: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Ho detto “lasciamo perdere” perché ormai delle libertà costituzionali si è fatta strame col pretesto di una epidemia. E poiché non è possibile stabilire ‘ictu oculi’ se una persona ha superato i 65 anni o 70 anni gli appiccicheranno sul petto una stella gialla. Gli anziani sono gli ebrei del Duemila.

Ma ciò che colpisce di più è la totale illogicità del provvedimento. Gli anziani muoiono di Corona molto più facilmente dei giovani ma se, come tutti, rispettano le regole, non infettano più degli altri. Se io, anziano, voglio correre più rischi degli altri la decisione non può che essere mia. Diversamente che in altri tempi l’individuo non appartiene a Dio (per cui un tempo si puniva il suicida, dissacrandone la sepoltura perché ormai si era sottratto alla giustizia umana, o anche il tentato suicidio con pene severe) né alla società, appartiene solo a se stesso. In una società moderna, laica, “ognuno è libero di fare ciò che vuole, nella misura in cui non nuoce agli altri” che è l’ipotesi che stiamo esaminando perché l’anziano che si espone ai rischi dell’epidemia può nuocere solo a se stesso.

Ci sono poi alcuni corollari. E’ noto, è medico, che agli anziani, più che ai giovani, per tenersi in forma è essenziale muoversi: camminare veloci, se si può, andare in bici, nuotare. Un anziano che si ferma è perduto, finisce rapidamente in una sedia a rotelle.

Allentate le misure di isolamento i nostri figli se ne andranno al mare o ai monti e l’anziano resterà solo. Secondo un recente studio (2015) della Brigham Young University di Provo, Stati Uniti, la solitudine uccide più del fumo, aumenta le possibilità di morire del 30%. E se anche un anziano riuscisse a disciularsi da solo, verrebbe respinto dagli alberghi, dai Residence, dagli stabilimenti balneari col pretesto della sua età.

L’aria viziata di un appartamento è più pericolosa dell’aria all’aperto. Non per nulla in un primo tempo le Autorità italiane avevano permesso di correre o di svagarsi nei giardini, solo che i cretini facevano gruppo, e quindi focolaio, e si è dovuto ritirare questa saggia decisione.

In ogni caso sia chiaro che se qualcuno, poliziotto o persona normale, si azzarda a dirmi “che cosa fa in giro lei che è anziano?”, poiché al momento sono sano, sono ancora forte e batto a braccio di ferro i ventenni (chiedere al simpatico, palestrato, cameriere cubano-spagnolo, Ramiro, che serve al Nhero e ogni volta che viene sconfitto prende a pretesto che non è concentrato perché deve badare ai clienti) lo abbatto col mio bastone Masai.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 18 aprile 2020

 

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Caro Alessandro, anche se qualcuno si sorprenderà, io ho per te stima umana e professionale. Sentimenti che, credo, siano reciproci visto che per quattro volte mi proponesti di venire al Giornale (tre volte me lo propose Feltri, due Belpietro, una Giordano nel suo breve anno di direzione). Tutte proposte lusinghiere anche economicamente che fui costretto a rifiutare per una mia coerenza che Paolo Liguori, forse non a torto, ha definito “cretina”, perché adesso a furia di dir no mi trovo nell’angolo anche economicamente. Ma io son fatto così, sta nel mio dna. Benché io sia un antiberlusconiano della prima ora (Europeo, 2.8.1986, Un americano a Milano: “O il calcio distruggerà Berlusconi o Berlusconi distruggerà il calcio”) il Giornale, come del resto quasi tutti i media di destra, è stato sempre molto attento alla mia opera di scrittore, se fosse stato per quelli della cosiddetta Sinistra, Repubblica, Espresso e la fu Unità, io non sarei esistito, culturalmente, in questo Paese. Mi dicono che molti tuoi lettori mi apprezzano e del resto fra i tuoi giornalisti ci sono dei ‘criptofiniani’ di stretta osservanza di cui non farò i nomi.

Bene. Ma c’è una cosa che non posso proprio digerire ed è la vostra capillare, costante, sistematica delegittimazione della Magistratura italiana di cui il tuo editoriale del 9 aprile (“Datevi uno scudo dal virus dei giudici”) è solo l’ultimo di infiniti altri dello stesso tenore. Se qualcuno proponesse di aprire le carceri in un “liberi tutti” io potrei essere anche d’accordo perché sono convinto, non è demagogia, che molti di quelli che stanno fuori sono peggio di molti di quelli che stanno dentro. Ma il vostro ‘garantismo’ è double face ed è questo che è intollerabile. Silvio Berlusconi che, penso, faccia parte della ‘famiglia Berlusconi’ proprietaria del tuo giornale, mi ha chiamato in giudizio per danni, cioè è ricorso alla Magistratura, benché io non abbia mai ficcato il naso nelle sue questioni di donne, perché ritengo che un premier, come ogni altro cittadino, abbia il diritto di fare in casa sua quello che più gli piace a meno che non si tratti di delitti, e penso anche che oggi una ragazza di 17 anni sia minorenne solo per l’anagrafe, per cui bisognerebbe abbassare l’età penale attiva e passiva a 14 anni (ragionando o sragionando come Adriano Sofri, mandante di un vilissimo assassinio sotto casa, e che oggi fa la morale a tutti, estrapolando dal testo secondo un malvezzo sempre più abituale, qualcuno potrebbe dire che voglio mettere in gattabuia anche i ragazzini). Renato Brunetta, che è della vostra scuderia (Forza Italia), mi ha chiamato in giudizio per danni, cioè è ricorso anch’egli alla Magistratura. Quando fa comodo la Magistratura torna ad esistere. Per tali ‘garantisti’ double face io ho questa formula: provate a rubargli l’argenteria e vedrete come va a finire, chiameranno la ‘pula’, i Pubblici ministeri, la Gestapo.

Vittorio Sgarbi, che è anche lui del giro, candidato per Forza Italia alle recenti Regionali, che scrive sul tuo giornale, per una intera estate mi additò in Tv al pubblico ludibrio, con relativa fotografia, “wanted”, come il principe dei ‘forcaioli’. E’ che questa gente pensa sempre che il mondo sia nato con loro. Io ho firmato l’appello per la scarcerazione di Valpreda in galera da quattro anni senza processo (il solo appello che ho firmato in vita mia). Fosse stato per la cosiddetta Destra, a cui tu oggi appartieni, Valpreda poteva restare in galera a vita e qualcuno dei vostri predecessori scrisse che il fatto che fosse affetto dal morbo di Buerger era segno inequivocabile che era il responsabile della strage di Piazza Fontana. Valpreda, infangato in tutti i modi dai vostri predecessori, sarà poi assolto. Ho difeso Giuliano Naria presunto terrorista rosso che si fece nove anni di detenzione preventiva, solo l’ultimo ai “domiciliari”, e che fu poi assolto con formula piena. A una settimana dal suo arresto sono stato il primo a difendere Enzo Tortora (“Io vado a sedermi accanto a Tortora”, Il Giorno, 25.6.1983)  e non Enzo Biagi, come sempre si dice, e tale evaporazione della mia persona in questo e in tantissimi altri casi, ora che la spavalderia della splendente giovinezza mi viene meno con le sue energie, comincia a darmi parecchio fastidio. Lo difesi non tanto, o almeno non solo, perché lo conoscevo di persona, un liberale elitario di cui sarebbe stato difficile immaginare che si affigliasse a una bocciofila, figuriamoci alla camorra, ma perché era accusato ‘de relato’ da pentiti che riferivano voci sentite da altri pentiti. E la sorella del presentatore, Anna, perdeva il lume degli occhi quando in seguito i corrotti e i corruttori di Tangentopoli si mascheravano dietro quello che era successo a Tortora. Perché nell’inchiesta Mani Pulite non si trattava di ‘pentiti’, ma le accuse erano ‘per tabulas’, si basavano cioè su carte, documenti bancari e confessioni degli stessi autori dei crimini.  Anche se poi si insinuò che i magistrati di Mani Pulite li arrestavano perché confessassero e si invocò l’intervento di Amnesty International per due o tre settimane di reclusione preventiva (una cosa terribile rispetto ai nove anni di Naria). Ma quel gran signore di Francesco Saverio Borrelli, il capo della Procura di Milano, corresse: “Noi li arrestiamo e loro confessano”.

Come si ricorderà per almeno due anni , dal 1992 al 1994, i giornali, tutti i giornali, si sdraiarono lascivamente ai piedi dei magistrati di Mani Pulite e in particolare a quelli di Antonio Di Pietro (“Dieci domande a Tonino”, Paolo Mieli, Corriere della Sera). Ma passata la buriana nel giro di poco tempo quasi tutti i giornali e i giornalisti, in particolare quelli della cosiddetta Destra ma non solo, fecero il salto della quaglia e da adoratori dei magistrati di Mani Pulite ne divennero gli accusatori. Per cui i veri colpevoli di Tangentopoli divennero i magistrati, i corrotti e i corruttori le vittime e spesso giudici dei loro giudici. Non c’è da meravigliarsi se con un simile esempio la corruzione abbia oggi infettato l’intero Paese scendendo giù per gli rami a buona parte della cittadinanza. Fra questi ‘saltatori’ spicca Vittorio Feltri, il più assatanato ‘forcaiolo’ finché rimase all’Indipendente (Enzo Carra sbattuto voluttuosamente in prima pagina in manette, messi sotto accusa i figli di Craxi, Bobo e Stefania –toccò a me difenderli per l’ovvio motivo che i figli non hanno né le colpe, né i meriti, dei padri- l’appellativo di “cinghialone” appioppato a Bettino, trasformando così una legittima inchiesta della Magistratura in una caccia sadica).

No, io non prendo partito per ‘lorsignori’, per i ladri in ‘guanti gialli’, perché hanno già molti difensori d’ufficio e ufficiosi. Io ho difeso, difendo e difenderò sempre gli stracci. Non c’è macchia sul mio onore di giornalista libero e libertario. Non so quanti, in questo Paese, possono dire altrettanto.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 16 aprile 2020