Once upon a time l’editore ‘puro’ che aveva come oggetto in ditta la vendita di giornali e libri, nient’altro. Ai miei tempi quando entrai in giornalismo, nei primi anni Settanta, gli ‘editori puri’ più importanti erano Rizzoli e Mondadori. Arrivai in Rizzoli, all’Europeo, nel 1972 quando Angelo Rizzoli senior, il fondatore della Casa editrice, era morto da due anni. Di lui si raccontavano storie leggendarie.
Figlio letteralmente di nessuno, era un ‘martinitt’, si era fatto da solo. Certamente anche a lui, da buon milanese, piaceva fare i danee, ma aveva quello spirito umanistico che apparteneva alla buona borghesia del Nord, ad Adriano Olivetti, a Leopoldo Pirelli e persino ai Crespi. Poiché non aveva avuto modo di farsi alcuna cultura, diceva ”quel Tolstoj lì che sarebbe poi il Dostoevskij”, aveva voluto che anche i poveri potessero farsela creando la Bur, una collana di grandi classici, a 50 lire a volume, su cui tutta la mia generazione si è formata. Non sapeva di cultura ma, a differenza di suo nipote Angelo junior, sapeva scegliersi i collaboratori che è la vera qualità dell’imprenditore. Affidò la Bur a Paolo Lecaldano. Fu un grande successo, ma naturalmente a prezzi così stracciati la Rizzoli ci perdeva, anche se lui non voleva ammetterlo (tanto che, morto Angelo, la Rizzoli fu costretta ad appiccicare materialmente su ogni volume un sovraprezzo, per esempio Il libro della norma di Lao-Tse fu portato a 100 lire).
Quegli imprenditori a differenza dei manager d’oggidì erano anche degli uomini, conservavano il gusto dello scherzo e della burla. Nel 1959 Arturo Tofanelli, il mitico editore-direttore di Tempo Illustrato, il primo settimanale italiano a colori, si trovò in mano il ‘pacchetto’ della Dolce vita. Ne capiva l’importanza, ma non aveva i 200 milioni per produrlo. Andò da Angelo Rizzoli e gli propose di fare a metà. “A metà no, disse Angelo, solo io”. Tofanelli, che aveva una moglie e una mezza dozzina di amanti, si girò e rigirò per qualche notte nel letto poi cedette. La Dolce vita ebbe il successo che tutti conosciamo. Mi raccontò Tofanelli: “Ogni volta che incontravo Rizzoli, in treno o in aereo, per andare a Roma, lui dopo un po’ tirava fuori dal taschino un rotolino di carta, lo svolgeva e mi diceva: caro Arturo, alla data odierna i vostri mancati guadagni ammontano a…”.
Ma sul lavoro quegli imprenditori non scherzavano affatto. Mi ha raccontato Angelo Rizzoli junior: “Un venerdì pomeriggio, saranno state le quattro, mi affaccio all’ufficio di mio nonno e gli dico: cumenda, lo chiamavamo così anche in casa, vorrei partire adesso per Saint Moritz perché se lo faccio più tardi trovo tutta la coda. Se credi di poter andar via un’ora prima degli altri, mi rispose, puoi anche non ripresentarti lunedì”.
Ad Angelo senior succedette il figlio Andrea e fu l’inizio del disastro. Andrea era un brav’uomo (quando ti incontrava nei corridoi, a differenza dei manager che vennero dopo, ti salutava e faceva anche finta di aver letto il tuo ultimo pezzo), mite, fisicamente fragile (quando ebbe il primo infarto Angelo senior, che era ormai vicino agli ottanta, andò dal medico e chiese stupito: “Ma può capitare anche a me?”) ma soprattutto sodomizzato da tanto padre che gli dava del “cretino” in pubblico, anche davanti alle maestranze. Il sogno di Angelo Rizzoli senior, che aveva sempre editato solo settimanali, era di fondare un quotidiano. Ne aveva già trovato il titolo “Oggi. Il quotidiano di domani”, che ha campeggiato per anni in via Civitavecchia oggi via Rizzoli, e il direttore Gaetano Afeltra. Ma alla fine si era reso conto che non c’era lo spazio. Il figlio Andrea per spirito di rivincita nei confronti di quel padre ingombrante decise che la Rizzoli doveva avere un quotidiano e comprò il Corriere della Sera. I Rizzoli non erano attrezzati, politicamente e psicologicamente, per un colosso come il Corriere dove avere agganci col potere è fondamentale. Il direttore del più importante settimanale della casa, l’Europeo, Tommaso Giglio, non aveva e non voleva avere contatti con i politici, e per la verità con nessuno, quando fu invitato a Roma da Gianni Agnelli si rifiutò di andarci perché avrebbe dovuto prendere l’aereo (era un tipo stranissimo, non si muoveva mai dal suo ufficio, ma sapeva tutto, viveva di carta stampata che divorava a quintali). Così quando in Rizzoli ci fu uno sciopero non erano nemmeno in grado di telefonare a Luciano Lama. Affidarono l’incombenza all’ultimo scagnozzo della redazione romana.
Nel frattempo alla Rizzoli era cominciata l’ascesa, come direttore finanziario, di Bruno Tassan Din. Con mia grande sorpresa. Tassan Din lo avevo conosciuto anni prima in tutt’altro contesto. Una sera il mio ‘compagno di merende’, Diego, col quale andavo un giorno sì e un giorno no a Campione, mi disse: “C’è anche il fidanzato di mia sorella, si chiama Bruno”. Andammo a prenderlo a casa. Alla frontiera il coglione non aveva né la carta d’identità né il passaporto. Tassan Din, che era allora direttore finanziario della Fidenza Vetraria, si comportò nel classico modo all’italiana: “Lei non sa chi sono io!”. Ma con i doganieri svizzeri questi metodi non funzionano. Dovemmo ritornare a Milano per prendere i documenti. Finalmente al Casinò, mi accorsi che Tassan Din guardava con un certo stupore il volume di gioco che facevamo Diego e io, naturalmente allo chemin. Lui azzardava qualche puntatina alla roulette. Sarebbe diventato molto più disinvolto con i quattrini degli altri.
La tattica di Tassan Din alla Fidenza Vetraria era stata quella di occupare la stanza più vicina al Capo per carpirne i segreti e ricattarlo. Ma con Cefis e simili queste manovre infantili non funzionavano. La tattica gli riuscì in Rizzoli approfittando delle debolezze di Angelo junior. Angelo aveva avuto un’adolescenza e una giovinezza difficili. Era brutto, così grasso che quando camminava i pantaloni di vigogna scricchiavano e i compagni del Berchet, dove c’ero anch’io, lo chiamavano “coscia rovente”. A quell’epoca Andrea, il padre di Angelo, era proprietario del Milan. Noi ci facevamo dare da Angelo i campi, le magliette, le scarpe, ma di giocare non era neanche da parlarne, lo avevamo nominato DT ma in realtà la squadra la faceva il capitano, un certo Guerrero un bel ragazzo biondo. Insomma un’umiliazione dopo l’altra, cui si aggiungeva una leggera zoppia dovuta alla sclerosi multipla. Nel 1960 mio padre fu invitato, insieme ad altri direttori di giornale, da Angelo Rizzoli senior che li ospitava all’Hotel Regina Isabella di Ischia, di sua proprietà. Mio padre avrebbe voluto che lo accompagnassi, così avrei conosciuto persone importanti, ma quell’estate io stavo ai Bagni Umberto di Savona e filavo con la più bella ragazzina della spiaggia, Anna, e col cavolo che ci andavo a Ischia. Quando ritornò mio padre mi raccontò di quel ragazzo strano, solitario, che non socializzava con nessuno. Si diceva avesse un tumore.
Angelo che aveva già delle gravi difficoltà con le ragazze doveva anche subire Ljuba Rosa, la matrigna, la seconda moglie di Andrea, che si intrometteva nelle sue conversazioni telefoniche e le interrompeva. Tassan Din si era assunto il compito di procurargli le ragazze. Ma come visto che Tassan Din, col suo aspetto meschinetto di allora, di donne per le mani non ne aveva? Si faceva forte del nome di Rizzoli. Ma Angelo non avrebbe potuto farlo in conto proprio? No, era troppo timido, troppo introverso. Il riscatto avverrà con Eleonora Giorgi. Si conobbero a una festa a Roma. “Restammo a parlare tutta la notte, fu l’incontro di due dolori” mi raccontò Eleonora. Non è affatto vera la storia, raccontata dalle gazzette, dell’attrice che sposa il produttore cinematografico per interesse. La loro è stata una vera storia d’amore, ma arrivava troppo tardi. La Rizzoli stava già cadendo a pezzi, spolpata da Tassan Din che nel frattempo era diventato, per non si sa quali meriti, ‘socio d’opera’ con il 10,2% nella disponibilità della Fincoriz Sas di Bruno Tassan Din & C, decisivo quel 10,2% perché ago della bilancia fra il 40% di Rizzoli e il 40% di Calvi. Comprava giornali a manetta sia per aumentare il suo potere personale sia per indebitare sempre più Angelo, con la complicità del sindacato, perché il patto era che non avrebbe licenziato nessuno. Tutti rubavano in quella Rizzoli, anche nomi famosissimi cui venivano affidate consulenze farsa ma milionarie. Finché anche Angelo Rizzoli decise di rubare a se stesso e finì in galera. Così andavano le cose. Ma arriva il colpo di fulmine: la Guardia di Finanza il 17 marzo dell’81 perquisisce la villa di Gelli a Castiglion Fibocchi e trova le liste della P2. Con una certa sorpresa scoprimmo che il vero potere non stava né a Torino né a Milano né nella Roma ufficiale ma a Castiglion Fibocchi o all’Hotel Excelsior dove svernava Gelli che tutti, veramente tutti, andavano a omaggiare, una volta anche Indro Montanelli. Che Tassan Din fosse nelle liste della P2, insieme ad altri importanti personaggi, Franco Di Bella, direttore del Corriere, Maurizio Costanzo, Silvio Berlusconi, non era sufficiente per affermare che la P2 era la vera proprietaria del Gruppo Rizzoli-Corriere. Il busillis, su cui tutti si assillavano, poteva essere risolto solo individuando i misteriosi “& C” della Fincoriz. Fui io a farlo. Per pura induzione logica arrivai alla conclusione che gli “& C” fossero Gelli, Ortolani e Calvi e lo scrissi sul Giorno: “Corriere: il 10,2% di Tassan Din (?) è il vero mistero”, 13.1.1982. Tassan Din mi querelò per 50 miliardi. Il caso volle che pochi giorni dopo entrassi in possesso di un documento che spazzava via ogni dubbio. Mi ero recato nello studio di Gaetano Pecorella, allora avvocato di Tassan Din, col quale avevo buoni rapporti perché, assistente di Pisapia, aveva curato la mia tesi. Non ero lì per ragioni professionali, ma personali: mi stavo separando da mia moglie e volevo qualche consiglio. Ad un certo punto Pecorella si alzò, uscì dallo studio e restò fuori dieci minuti. Proprio davanti a me c’era una cartellina azzurra. La aprii: era un documento segreto del 18 aprile del 1980 in cui Angelo Rizzoli si impegnava a “mettere a disposizione di società indicata dall’Istituzione (l’”Istituzione” nel linguaggio di Gelli era la P2, ndr) numero 918.000 nuove azioni pari al 10,2% del nuovo capitale”. Il 10,2% risultava a sua volta suddiviso in quattro quote del 2,55% intestate a Gelli, Ortolani, Calvi e Tassan Din. Se fossero esistiti gli smartphone mi sarebbe stato sufficiente fare una foto, invece con velocità da stenografo copiai tutto e lo pubblicai sul Giorno del 26 gennaio ’82 in un articolo intitolato “Tassan Din è l’uomo della P2 nel Corriere”. Tassan Din non fiatò più e della querela si perse ogni traccia. Ma la storia non finisce qui. Con la pubblicazione delle liste della P2 fatta dal governo Forlani il 20 maggio del 1980 Gelli e Ortolani sono costretti a fuggire dall’Italia e dall’estero non possono far valere il patto segreto. Tassan Din era stato fino ad allora solo il prestanome di Gelli e Ortolani nel Gruppo Rizzoli-Corriere, ma adesso, nella sua testa, comincia a balenare l’idea di liberarsi dell’antico servaggio nei confronti dei due e di diventare lui, finalmente, in prima persona, il vero padrone del Gruppo Rizzoli-Corriere. Tanto che ho il sospetto, solo il sospetto, che sia stato proprio Tassan Din a fare la soffiata alla Guardia di Finanza (e questo spiegherebbe il singolare comportamento di Pecorella che per dieci minuti mi lascia da solo davanti a quella cartellina azzurra che conteneva il ‘mistero’). Fatto sta che scaricati Gelli e Ortolani (“Bruno non è più quello di una volta” dirà Gelli in una famosa telefonata intercettata dalla polizia) Tassan Din cambia completamente la strategia del Gruppo. Adesso i soldi sono suoi o almeno così si illude. E quando i soldi sono suoi Tassan Din non scherza. Sono di questo periodo le chiusure dell’Occhio e dell’Informazione e un progetto di drastica riduzione del personale oltre che di altre testate in passivo. Ma, crollata la P2, Tassan Din ha bisogno di qualche appoggio. Lo cerca e lo trova nel Pci tramite il sindacato dei giornalisti del Corriere che dal Pci era controllato attraverso Raffaele Fiengo. Lo conferma lo stesso Tassan Din in una lettera che scriverà a Feltri, per il Giornale, molti anni dopo, nell’ottobre del 1994. Ma di questa conferma non c’era alcun bisogno. Che il sindacato del Corriere, guidato allora da Raffaele Fiengo, fosse la cinghia di trasmissione del Pci lo ha detto la storia di quegli anni. Io posso aggiungere un curioso particolare di cronaca. Nel giugno dell’81 si tenne a Bari il Congresso nazionale della Stampa. Io vi partecipavo come delegato di Stampa Democratica. Il primo giorno c’erano tutti i capataz del sindacato tranne, curiosamente, Fiengo. Nel primo pomeriggio, già stufo del bla bla sindacalese, rientrai in albergo e mi stesi sul letto per riposare un poco. Il caso volle che, pochi minuti dopo, arrivasse, direttamente dall’aeroporto, anche Fiengo che entrò proprio nella stanza vicino alla mia. Si attaccò subito al telefono. Anche se avessi voluto non avrei potuto non ascoltare perché parlava a voce altissima sicuro che tutti fossero nella sala del Congresso e che in albergo non ci fosse nessun collega. Ma devo confessare che se anche avessi avuto quell’intenzione me la sarei ricacciata in gola dopo aver sentito le prime parole di Fiengo. Parlava di Ronchey e di Cavallari. Erano infatti i giorni in cui si decideva della nomina dell’uno o dell’altro alla direzione del Corriere. Fiengo riferiva al suo interlocutore come fosse riuscito a bloccare la nomina di Ronchey e dava quella di Cavallari come ormai fatta. Dalla conversazione si capiva che Fiengo e il suo interlocutore avevano concertato in precedenza certe mosse. Altre ne prepararono nei lunghi minuti di quella telefonata. Chi era il misterioso interlocutore di Fiengo? Era, come si evinceva senza possibilità di equivoco da tutto il contesto, un esponente di alto livello di Botteghe Oscure.
I piani di Tassan Din andranno in fumo, sarà incarcerato, la Rizzoli finirà in Amministrazione controllata e in seguito verrà comprata per un tozzo di pane dalla Fiat, cosa che roderà sempre il fegato del povero Angelo, il più innocente dei colpevoli.
Montecarlo, primi anni Ottanta. Andrea Rizzoli, ammalato di diabete, giace da anni inerme nel suo letto. Raffaello Gelli, che conobbi negli anni Duemila a Talamone, un bel ragazzo che girava in Rolls décapoté, il primogenito di Licio Gelli, è l’amante di Ljuba Rosa: la moglie di Andrea tradisce il marito col figlio di colui che ha distrutto la Rizzoli. E così si chiude la saga Rizzoli. Come nel Servo di Losey.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 11 giugno 2020
Un magistrato deve parlare solo “per atti e documenti” così si diceva, e si faceva, una volta. Oggi i magistrati sono perennemente presenti nel dibattito pubblico, peggio degli epidemiologi, dei virologi, degli immunologi in epoca di Covid, danno interviste, vanno in televisione. Sono divisi in correnti, di sinistra, di destra, di centro, facendo così trapelare la propria ideologia. E questo è un danno per la loro funzione così delicata perché per avere la fiducia dei cittadini un magistrato non solo deve essere imparziale ma anche apparirlo. Sempre più spesso si presentano in politica approfittando della notorietà che hanno acquisito come magistrati (De Magistris, Ingroia) gettando così un’ombra sulle loro attività pregresse anche qualora le abbiano svolte in modo imparziale.
Si dirà che qui sono in gioco diritti individuali garantiti dalla Costituzione: la libertà di espressione e quella di partecipare alla vita politica. Ma ci sono delle professioni istituzionali che conoscono necessariamente dei limiti a queste libertà. Il Presidente della Repubblica non può esprimersi a favore di questo o quel partito. Gli stessi limiti valgono per un magistrato, a garanzia della sua credibilità che è il bene più prezioso, e insieme il peso gravoso, che si porta addosso. Da un magistrato, sia esso Giudice o Pubblico ministero, dipendono la libertà, l’onorabilità e anche l’economia di un cittadino e quindi non può comportarsi come chi queste responsabilità non ha. Altrimenti saremmo capaci tutti. Ci fu un tempo in cui il magistrato doveva anche limitare le proprie frequentazioni private. Era destinato alla solitudine.
Alla generale degenerazione, etica e culturale, dell’intera società italiana non poteva sfuggire nemmeno l’Ordinamento giudiziario. A gettare ulteriore discredito sulla nostra Magistratura ha contribuito potentemente, facendo un clamoroso e penoso harakiri, il CSM (caso Palamara e dintorni). I nostri Padri costituenti, poiché uscivamo dal Fascismo, vollero una Magistratura indipendente e autonoma dagli altri poteri dello Stato, esecutivo e legislativo, secondo la classica tripartizione che risale a Montesquieu. Anche se lo stesso Fascismo ebbe parecchie difficoltà a piegare ai propri voleri i magistrati ordinari tanto forte era in loro la convinzione che quello del magistrato non fosse un mestiere come un altro ma una vocazione, come dovrebbe essere quella dei medici, e per certi reati dovette creare dei Tribunali Speciali. Però perché la Magistratura non rimanesse del tutto avulsa dalla realtà sociale, i Costituenti stabilirono che il CSM, da cui dipendono le carriere dei magistrati, gli spostamenti di sede, le azioni disciplinari, fosse formato per due terzi da magistrati di professione, i togati, e per il rimanente terzo votati dal Parlamento e scelti tra “professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio”(art.104 Cost.), i cosiddetti laici. E cosa hanno fatto i partiti? Hanno inserito nel CSM uomini politici di loro gradimento, mascherati da “professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio”. E così, fra finti laici e le varie correnti ideologizzate della Magistratura, la frittata è completa.
Il magistrato esemplare, a mio avviso, è Henry John Woodcock che non a caso è di origine inglese come quel docente, Philip Laroma Jezzi, che rifiutandosi di parteciparvi smascherò le truffe dei Concorsi universitari. Mai un’intervista, che io ricordi, mai una comparsata televisiva. Woodcock è uno che non parla delle proprie inchieste nemmeno con la sua fidanzata. Woodcock, come Pm, ha condotto importanti inchieste che coinvolgevano tutte le aree politiche. Ovviamente un magistrato del genere è detestato dall’intero ‘arco costituzionale’ e non, che non ama che si vada ad aprirgli le chiappe per scoprire, quasi sempre, che ha il culo sporco di corruzione. Innumerevoli sono le volte in cui Woodcock è stato deferito agli organi disciplinari per delle irregolarità che non ha mai commesso come è stato costretto ad ammettere, a denti stretti, lo stesso CSM. Da una fotografia che ritraeva Woodcock, che è un bell’uomo, aitante, a cavallo di una motocicletta, il Giornale dedusse che era inequivocabilmente “di sinistra” (la canzoncina di Gaber) e apparteneva quindi alla “magistratura politicizzata”. Nella loro inesausta campagna di delegittimazione della Magistratura i media berlusconiani si sono spinti anche oltre, fino al grottesco. Il giudice Raimondo Mesiano, che aveva condannato la Fininvest a risarcire la Cir di De Benedetti, fu filmato da Mediaset mentre seduto su una panchina fumava una sigaretta e sotto il risvolto dei pantaloni si vedevano dei calzini color turchese. Gli sgherri di Berlusconi ne dedussero che era un tipo strano non adatto alla professione di magistrato.
I magistrati indipendenti stanno sui coglioni a tutti ma in particolare a Berlusconi dati i suoi precedenti e presenti (nove “non doversi procedere” per prescrizione, in tre delle quali la Cassazione accertò che i reati addebitatigli li aveva effettivamente commessi, condanna definitiva per una gigantesca frode fiscale da 360 milioni di dollari, quasi tutti prescritti, una mezza dozzina di procedimenti penali in corso). Così il Giornale, approfittando dell’indubbia degenerazione di parte della Magistratura, ha tutto l’interesse e buon gioco a pescare nel torbido e a fare di ogni erba un fascio. Sul Giornale del 26 maggio Alessandro Sallusti che ha ormai perso la sinderesi scrive che “Mani Pulite è stata una truffa giudiziaria”. Sallusti dice ciò che pensa ma forse non pensa a ciò che dice. Una “truffa giudiziaria”? Sono passati quasi trent’anni e in quel periodo storico c’era una Magistratura diversa che cercò di richiamare anche le classi dirigenti al rispetto di quelle leggi che tutti noi cittadini siamo obbligati a osservare. Quelle di Mani Pulite furono inchieste basate su carte, su documenti bancari, su confessioni degli indagati, su trasferimenti di ingenti somme di denaro che gli stessi indagati non riuscivano a giustificare se non con un fumoso e inconcludente politichese (il “che ci azzecca?” di Antonio Di Pietro).
I ‘berluscones’ sono ineffabili e quasi affascinanti nella loro faccia di tolla. Maria Elisabetta Alberti Casellati Mazzanti Vien dal Mare, attuale presidente del Senato, in quota Forza Italia, in un’intervista al Corriere del 30 maggio, informa di una serie di sue proposte per riformare la Giustizia fra cui il “divieto di porte girevoli dalla magistratura alla politica e viceversa”. Giustissimo. Peccato che la Mazzanti Vien dal Mare sia il prototipo delle “porte girevoli”. Eletta senatrice per il Polo delle Libertà nel 1994, e quindi personaggio politico, si è trasferita nel 2014 al CSM, ed è perciò diventata una giudice dei magistrati, per poi tornare alla politica.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 7 giugno 2020
In questo periodo in cui, superata, si spera, l’emergenza Covid, si attendono con ansia una ripresa e una ripartenza che non si sa se arriveranno, viene spontaneo ai giornali fare riferimento ai lunghi anni del dopoguerra, al Piano Marshall, insomma alla ricostruzione. In genere l’obbiettivo è focalizzato sui grandi imprenditori di allora. Lo ha fatto Aldo Cazzullo sul Corriere (22.5) ricordando i nomi mitici di Vittorio Valletta, di Gaetano Marzotto, di Angelo Costa (“c’è un dio che invecchia in cima a un grattacielo” scriverà molti anni dopo Gianpaolo Pansa quando la Costa Armatori si stava trasformando, in modo lungimirante, in Costa Crociere).
Io voglio invece ricordare qual era in quegli anni lo stato d’animo di noi cittadini che, a meno che non fossimo di Torino, di Genova, di Vicenza, dei Valletta, dei Costa, dei Marzotto avevamo sentito parlare solo vagamente. A parte una sottilissima striscia di borghesia che era presente già durante il Fascismo o che si era arricchita proprio grazie alla guerra, ma che aveva il buon gusto e il buon senso di non ostentare, eravamo tutti poveri, molto più poveri di quanto lo si sia oggi anche nelle condizioni più al limite. Ma eravamo sereni, solidali, euforici, spavaldi. Il solo fatto di essere usciti indenni dai devastanti bombardamenti angloamericani che avevano avuto come epicentro Milano, e io qui di Milano soprattutto parlo, e dai rastrellamenti nazisti, bastava a renderci felici. E’ questo uno degli effetti positivi di tutti gli eventi fondanti della vita, come può essere appunto la guerra o, in misura ovviamente molto minore, l’epidemia che stiamo vivendo. Eravamo solidali. La solidarietà di cui Mattarella si riempie sempre la bocca ma che in questi due mesi ho visto pochissimo non è qualcosa che si cala dall’alto, per diktat, dipende dal contesto. Quando si è poveri essere solidali diventa naturale, un sentimento che è sincero ma anche in qualche misura interessato. Scrive Esiodo ne Le opere e i giorni: “Aiuta il vicino, perché poi nel momento del bisogno il vicino aiuterà te” (ed Esiodo, che scrive a cavallo fra l’VIII e VII secolo a.C., si dimostra anche un po’ disgustato da questo elemento d’interesse, perché la società che lo aveva immediatamente preceduto era quella del clan dove questo problema non esisteva: l’individuo progredisce o perisce col clan).
Oltre che a quello della povertà c’era un elemento strutturale a garantire la solidarietà. Milano, pur essendo strabombardata, era una grande capitale ma rimaneva una città di quartieri. E nel quartiere ci si conosceva tutti. Se una famiglia era un po’ più in difficoltà delle altre lo si sapeva e la si aiutava come si poteva. Noi ragazzini uscivamo di casa alle due, mangiato un rapido panino, e tornavamo alle otto di sera. Non che i nostri genitori fossero incoscienti, forse anche un poco lo erano, nel clima dell’epoca, ma perché se uno di noi si fosse messo in una situazione difficile sarebbe intervenuto subito un adulto. Se si fosse presentato un pedofilo sarebbe stato riconosciuto a un chilometro di distanza. E poi c’era il “ghisa”, il mitico ghisa, il vigile urbano, un giovanotto milanese ben piantato, che conosceva tutti e che disarmato, come il bobby londinese, godeva di una autorità assoluta (“chiedilo al ghisa”, “dillo al ghisa”, “c’è lì il ghisa”). Come c’era il commissario di quartiere che sapeva tutto di tutti e quindi anche chi era da tener d’occhio e chi no. Del resto anche la “mala” di allora, quella cantata dalla Vanoni, almeno fino a Vallanzasca era fatta da professionisti che si guardavano bene dallo spargere sangue. Era una malavita con un’etica perché era inserita in una società che aveva un’etica.
Eravamo spavaldi. Ho visto cose che voi umani…tram, il vero simbolo di Milano, zeppi fino all’inverosimile con gente sui predellini e qualcuno attaccato anche al trolley. Oggi interverrebbe la psicopolizia. Chi era passato attraverso la guerra non aveva certo paura di farsi la “bua” cadendo da un tram o da un autobus. Tutti fumavano, nei bar, nei cine, nei teatri e l’Humphrey Bogart di Casablanca, con la sigaretta un po’ di sbieco perennemente fra le labbra, era un mito. Il terrorismo diagnostico era di là da venire.
Prendersi a botte fra noi ragazzini era di rigore, sia pur rispettando certe regole: se il ‘nemico’ cadeva a terra non si poteva toccarlo, niente colpi sotto la cintura e se si capiva che era successo qualcosa di più grave del solito ci si fermava tutti (in realtà nei terrain vagues dove giocavamo l’unico vero rischio era di mettere un piede su una bomba inesplosa). Non c’era ‘bullismo’, era un punto d’onore difendere il ragazzo più fragile fisicamente o psicologicamente e se qualcuno si fosse azzardato a prenderlo in giro avrebbe preso, lui sì, un fracco di botte. Insomma imparavamo la vita dalla strada.
Questa struttura che ho chiamato “di quartiere”, col suo tono sostanzialmente bonario, ha resistito a lungo a Milano. Nel quartiere non c’era un bar che non avesse un biliardo e, dietro, una saletta dove si giocava a poker, a ramino pokerato, a tresette ‘ciapa no’ senza che a nessun ‘pulotto’ venisse in mente di ficcare il naso. E a biliardo o a poker giocavano, insieme, giovani e anziani. Era un modo naturale di mantenere in contatto le generazioni. Adesso il retrobottega ‘peccaminoso’ è scomparso e, a parte qualche circolo per professionisti o quasi, nessun bar ha più un biliardo. Ho chiesto al gestore di un bar in cui mi rifugio, che non è ‘trendy’, non è zeppo di escort accalappiacani, non ha pretese, un bar normale insomma dove si possono fare quattro chiacchiere alla buona, perché nemmeno lui abbia un biliardo. “I biliardi occupano troppo spazio e rendono poco rispetto alle slot appiccicate alle pareti”. Business is business. Ma una cosa è stare con gli altri diversa è farsi una sega solipsistica con una macchina, abitudine che è diventata devastante con l’avvento degli smartphone.
Non ancora immersi nella grascia del benessere eravamo belli. Asciutti. Io ricordo sempre i funerali di Fausto Coppi che qualche volta ridanno in tv. Chi c’è a quei funerali? La gente del popolo, vestita in modo modesto ma dignitoso, composta, nessun sgangherato applauso all’uscita della bara, la folla onora in silenzio il suo campione.
Nel 1960 – era l’inizio del boom economico - entrai per la prima volta, col mio amico Giagi, in un Supermarket. Ci sembrò il Paese di Bengodi. Era invece il Cavallo di Troia entrato in città e che ci avrebbe tolto, per sempre, l’innocenza.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 3 giugno 2020