Le femministe o postfemministe o veterofemministe, cioè tutto quel vasto mondo di donne che odiano le altre donne, non il maschio, perché concorrenti potenziali, sembrano aver perso ogni limite nel loro estremismo ideologico. Al grido sessantottino “è vietato vietare” stanno in realtà vietando tutto. Così Emily Bendell, imprenditrice dell’”intimo”, termine già di per sé orribile perché ipocrita, vuole portare in tribunale il mitico Garrick Club, una di quelle associazioni che escludono la presenza delle donne e fanno parte della tradizione degli inglesi (il Garrick esiste dal 1831, ma il più aristocratico di tutti il White’s affonda le sue radici alla fine del Seicento) che alle tradizioni sono particolarmente legati, non per nulla hanno una Regina amatissima che fa benissimo il suo mestiere e Wimbledon è rimasto l’unico torneo di tennis che si gioca ancora sull’erba.
Se io costituisco un club privato avrò pure il diritto di farci entrare o di non farci entrare chi mi pare e piace? Gli uomini, anche quando amano le donne, preferiscono la compagnia degli uomini. Quando usciamo più o meno di nascosto di casa le nostre mogli o compagne o fidanzate pensano che andiamo a tradirle con qualcuna, il che può anche essere per alcuni fanatici (stare con una donna è già complicato, figuriamoci con due), ma in genere cerchiamo di sfuggire al loro asfissiante controllo, andando giù al bar a giocare a scopone con gli amici, là dove i bar esistono ancora, oppure a bocce o a vedere una qualche partita di calcio, situazioni in cui tradizionalmente le donne non ci sono o se ci sono, com’è nel calcio pervertito di oggi, hanno una presenza marginale. L’ammissione della donna in un club per soli uomini vorrebbe dire l’irruzione dell’eterno gioco della seduzione cui a noi, già sollecitati da ogni parte, nella pubblicità, in tv, in strada, dalla figura femminile, piace almeno per un po’ sfuggire. Insomma: la fine della tranquillità. Inoltre poiché non fanno che lamentarsi delle nostre molestie sessuali, vere o molto più spesso presunte, minacciandoci ad ogni momento della galera o, quel che è peggio, della garrota mediatica, in un club di soli uomini sarebbero al sicuro per il lapalissiano motivo che non ci sono.
Le donne rischiano di rimanere vittime del puritanesimo di marca yankee che è stato introdotto in Europa dal #MeToo. Ma a chi mai può venir la voglia di corteggiarle se basta un’occhiata un po’ insistente o un popolano fischio di ammirazione (anche se di questi fischi con le due dita in bocca che fan parte pur essi della tradizione maschile –chi ha mai visto una donna fischiare in questo modo?- si sta ormai perdendo traccia, gli usava finché è stato allenatore Giovanni Trapattoni) per essere accusati di “molestia sessuale” con tutto ciò che ne consegue?
Le donne rischiano di essere vittime del loro stesso puritanesimo che è sessista nel momento stesso in cui predica il contrario. Agli inizi di settembre a una donna un po’ scollata è stato proibito di entrare, da parte di una funzionaria, al Museo d’Orsay in base al regolamento interno che recita: “Gli utenti devono conservare una tenuta decente e un comportamento conforme all’ordine pubblico e devono rispettare la tranquillità degli altri utenti”. E questo accade a Parigi, una capitale un tempo gioiosa, giocosa, trasgressiva, non solo all’epoca esistenzialista, di cui oggi si ricorda l’epopea per la morte di Juliette Gréco che ne fu l’icona musicale, ma ben prima, negli anni Trenta, quando il pittore Foujita entrava al Dôme o alla Coupole tenendo in spalla una gabbia con dentro una donna nuda. Non c’era nulla di perverso o pervertito, c’era solo una voglia di gioco che noi, intrappolati in lezioncine moralistiche, sembriamo aver perduto. Del resto qualche giorno prima dell’episodio del d’Orsay due bagnanti in topless erano state multate dalla Gendarmerie perché sulla spiaggia di Pèrpignan prendevano il sole a seno nudo. E in Italia, in modo altrettanto illegittimo e comunque moralistico, si multano i clienti delle prostitute ufficiali. Quelle non ufficiali fanno carriera in politica.
Massimo Fini
29 settembre 2020
Tutti i principali media e i loro commentatori riconoscono, alcuni ‘obtorto collo’, che l’unico, vero vincitore di questa doppia tornata elettorale (referendum più Regionali e Comunali) è, per la disperazione della Trimurti (Giornale, Verità, Libero), il disprezzatissimo “Giuseppi”, vale a dire il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e con lui il suo governo giallo-rosa che, a dispetto di tutti gli aruspici malauguranti, finirà regolarmente la legislatura.
Ma c’è un altro partito, che esiste da decenni in Italia, ma di cui prudentemente si parla poco o preferibilmente nulla, che esce vincitore da queste elezioni ed è il più forte di tutti: il partito degli astenuti. Prendiamo il referendum. Il quesito era semplice e tale da attizzare l’attenzione dei cittadini: mandare a casa, per la prossima legislatura, un bel numero di deputati e senatori. L’affluenza è stata del 53,84%, 12 punti in meno rispetto al referendum del 2016 (65,47%) che pur poneva questioni molto più complesse. L’affluenza alle Regionali di quest’anno (57,19%) è superiore a quella delle Regionali del 2015 (53,15%), ma si avvale del balzo dell’affluenza in Toscana (quasi 3 milioni aventi diritto al voto) dove quest’anno si giocava la partita decisiva per la tenuta del governo del Paese. Nel 2015 quando questo problema non esisteva andò a votare solo il 48,3% mentre questa volta si è arrivati al 62,6%. Interessante è l’alta affluenza, sia pur sempre in termini relativi, alle elezioni comunali dove ci si attesta al 66,19% confermando, con un lieve margine di aumento, il dato del 2015. E si capisce il perché. Il voto nei Comuni e soprattutto nei piccoli Comuni è l’unico autenticamente democratico perché il sindaco è permanentemente sotto il controllo dei concittadini, poiché vive fianco a fianco con loro. Come esce di casa c’è sempre qualcuno che gli può contestare ciò che ha fatto o piuttosto non ha fatto.
Il partito degli astensionisti è contro la politica in generale? Non credo. E’ contro la democrazia parlamentare? Forse. Sicuramente è contro una democrazia trasformatasi da decenni in partitocrazia, cioè in strapotere del tutto illegittimo di queste lobby di cui la nostra Costituzione si occupa in un solo articolo, il 49 (“Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”) e che invece ha finito per occupare abusivamente gli altri 138, infiltrandosi nel Csm, nella Magistratura ordinaria, nella burocrazia, nelle Forze Armate, nell’industria pubblica e anche privata, negli enti di Stato e di parastato (la Rai-tv è solo l’esempio più noto e clamoroso), nei giornali, negli enti culturali, nei teatri, nei conservatori, nelle mostre, nelle banche, nelle grandi compagnie di assicurazione, nelle università, giù giù fino ai vigili urbani e agli spazzini.
Questa avversione nei confronti dei partiti è confermata anche da chi in questa tornata a votare ci è andato turandosi montanellianamente il naso. Tutti i partiti, dal Pd alla Lega ai Cinque Stelle a Forza Italia, hanno perso, solo il partito di Giorgia Meloni ha guadagnato in consensi. Prendiamo la Toscana: il Pd ha perso 12 punti, è stato salvato dalle cosiddette liste civiche cioè da cittadini che al Pd non credono più affatto ma non si sentivano di consegnare quella regione e forse il Paese a Matteo Salvini. Non è stato quindi un voto a favore, ma un voto contro.
Mai come in questa occasione si è potuto osservare come la democrazia partitocratica sia fatta di accordi e accordicchi in funzione del proprio potere personale o di lobby senza alcuno sguardo all’interesse nazionale. L’esecutivo Conte, che ha governato bene, si è salvato perché i partiti si sono paralizzati a vicenda. Poi ci sono naturalmente le eccezioni, il governatore del Veneto Zaia è stato riconfermato perché evidentemente ha governato bene soprattutto durante l’emergenza Covid e quello della Liguria Toti per lo stesso motivo e anche perché, coadiuvato dal sindaco di Genova Marco Bucci, ha affrontato con efficacia le conseguenze del crollo del ponte Morandi che noi ‘stranieri’ abbiamo sempre chiamato il “ponte sul Polcevera” e i genovesi “ponte Saragat” perché fu inaugurato dall’allora Presidente della Repubblica e che ora si chiamerà ponte San Giorgio. E questo apre uno spiraglio di speranza per il nostro futuro che però dipende molto, almeno nell’immediato, da come verranno utilizzati i 209 miliardi che l’Europa, l’inutile Europa secondo i cretini ‘sovranisti’, ci ha generosamente concesso: se cioè finiranno nelle fauci dei soliti noti che le hanno già aperte o verranno distribuiti con intelligenza e soprattutto equità sociale.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 23 settembre 2020
Il paziente lettore ricorderà forse la mia telenovela kafkiana con Sky. La riassumo nell’essenziale. Io sono un abbonato Sky, posso godere di tutta la sua produzione. Ma a me interessa solo il calcio di cui questo network ha l’esclusiva. Quando a metà estate sono ricominciate le partite di Champions mi sono precipitato sui canali Sky dedicati al calcio ma sullo schermo appariva l’odiosa scritta “mancanza di segnale”. Potevo vedere sport tipicamente americani, come il basket o il baseball, con i Los Angeles Lakers o i Golden State Warriors, di cui non me ne potrebbe fregar di meno, ma anche le trasmissioni di calcio parlato, non le partite. Contattare Sky, come ho raccontato, è stata un’odissea, quando finalmente ho raggiunto un essere umano costui mi ha risposto che la responsabilità era del mio condominio. Quando con molte difficoltà ho raggiunto il tecnico del condominio, tale Formichetti, costui non si è nemmeno peritato di salire sulla terrazza a controllare le parabole mettendomi in una posizione di debolezza con Sky che aveva gioco facile a rimpallarmi al condominio. Ma anche l’Amministratore del condominio Bressan ci ha messo del suo, cioè niente, perché si è completamente disinteressato della questione che riguardava, oltre a me, anche un altro coinquilino. Del resto si sa cosa sono, in genere, questi amministratori: degli architetti falliti. Se ho potuto vedere qualche partita è per i magheggi di mio figlio Matteo che è una specie di hacker.
Bene. Il 29 agosto è cominciato il Tour. Mi sono detto: perdio, il Tour non me lo toglie nessuno perché lo dà Rai2. Vado su Rai2 all’ora della tappa e sullo schermo appare la solita scritta “nessun segnale”. Vado allora su Eurosport che non è di Sky ma viene ospitato dalla piattaforma Sky. Lì per lì sembra funzionare ma ad un certo punto il telecronista comincia a balbettare. Oddio, non gli sarà venuto un coccolone? No, è il preannuncio di quello che avverrà poco dopo: sullo schermo appare…Telefono disperato a mio figlio che mi dice “vai sul 5002 e lì probabilmente puoi vedere le tappe”.
Anche il ciclismo subisce l’eccesso di razionalizzazione e di economizzazione. Non è più uno sport di campioni solitari che fanno imprese eccezionali, alla Pantani, ma è uno sport di squadra, il che appiattisce tutto. Cosa fa la squadra più forte che quest’anno è la Team Jumbo-Visma di Roglic, che ha un fortissimo sponsor? In una tappa impegnativa, di salita, mette davanti un suo uomo che tira a tutta. A quella velocità nessuno può azzardare uno scatto. Dopo che il primo ha fatto il suo lavoro, ne subentra un altro e un altro ancora. La corsa è paralizzata. Vengono fatti fuori campioni importanti che in altre circostanze potrebbero dire la loro ma che qui vengono pian piano eliminati, perché non reggono quel passo ossessivo com’è successo l’altro giorno a Quintana e al vincitore del Tour dell’anno scorso Bernal. Insomma sembra essere ritornati a quelle gare di eliminazione su pista dove ad ogni giro l’ultimo della fila finiva fuori.
Nostalgia del vecchio ciclismo. C’erano delle specificità nazionali. I velocisti erano tutti belgi e qualche olandese. Campioni delle “classiche”, le gare di un solo giorno. Italiani e francesi erano grandi scalatori o passisti scalatori che vincevano il Tour o il Giro (Coppi, Bartali, Magni, Nencini, che fumava come un turco e si faceva anche un whisky prima della partenza, Louison Bobet, Jacques Anguetil). Qualche scalatore solitario c’era anche in Spagna, Bahamontes per andare molto indietro, e per andare ancora più indietro, a prima della guerra, “Trueba la pulce di Torrelavega”. Vincevano tappe, mai un Giro. I soli ad essere rimasti se stessi, come da tradizione di un Paese dove non succede mai nulla, sono gli svizzeri. Cronoman eccezionali. Ai tempi di Anquetil e soci c’era Rolf Graf che vinceva tutte le cronometro. Ma se doveva stare in mezzo al gruppo era un disastro perché in gruppo si “lima”, come si dice in gergo, e lui non ne era capace. La tradizione è stata poi proseguita da Alex Zulle, peraltro anche passista scalatore e uomo da Giro, Tour e Vuelta (qualcuno ricorderà la crono di Trieste del 1998: 40 chilometri alla media di 53,77, record insuperato su quella distanza) da Fabian Cancellara e oggi Marc Hirschi (22 anni). Non c’è che dire, gli svizzeri sono sempre rassicuranti. Non solo nel ciclismo.
Quando ero ragazzo gli italiani tenevano ovviamente a Coppi, Bartali, Magni. Io tenevo a Rik Van Steenbergen, il più grande velocista di tutti i tempi. A me piacciono gli “assoluti”, quelli che in una determinata specialità sono imbattibili. Quando al Giro o al Tour si profilava un arrivo in gruppo mio padre che dirigeva Il Corriere Lombardo, quotidiano del pomeriggio, faceva mettere in piombo “1°Rik Van Steenbergen” per guadagnare qualche minuto sui rivali de La Notte di Nino Nutrizio. Di Van Steenbergen ricordo una memorabile vittoria nel Campionato del mondo (ne vinse tre) del 1957 a Waregem, in Belgio. Era il primo Campionato che trasmetteva la Tv. Ma le telecamere non erano mobili, erano fisse, si vedeva solo l’ultimo chilometro. Ad un certo punto lo speaker annunciò: “Sono fuggiti in sei, tre francesi, Louison Bobet, Jacques Anquetil, Dedè Darrigade e tre belgi, Fred De Bruyne, Rik Van Looy…”, e qui lo speaker fece una sapiente pausa ”…e Rik Van Steenbergen”. Dalla folla che seguiva la corsa sul circuito si levò un urlo: con Rik la vittoria era assicurata. Nell’ultimo chilometro c’era un ponticello le cui spallette coprivano i corridori. Ma sulle spallette si vide elevarsi una gobba, era Van Steenbergen che lanciava la volata agli ottocento metri (oggi un velocista se, dopo essere stato pilotato dai compagni, parte ai cento è già tanto). Alla sua ruota si mise l’infido Van Looy che teoricamente era un suo gregario, sperando di bruciarlo negli ultimi cento metri. E così fece. E qui si assistette a una scena comica. Uscito dalla scia di Van Steenbergen, che era alto 1,88 e possente, Van Looy invece di avanzare cominciò ad arretrare. Arriverà quarto o quinto. Negli ultimi anni era apparsa una nuova stella come velocista, lo spagnolo Poblet che aveva uno sprint fulminante negli ultimi cinquanta metri. In un Giro che doveva essere del 1961 o 62, non ricordo, Van Steenbergen aveva vinto in volata quattro tappe, Poblet pure. Ma c’era l’ultima tappa che si concludeva al Vigorelli. Era una sfida all’O.k Corral fra Van Steenbergen e Poblet. Sul circuito apparve prima Van Steenbergen con la scritta Cora su una maglia nera, che completava il suo aspetto piuttosto tenebroso. Dietro Poblet. Ai cinquanta metri Poblet lanciò il suo sprint micidiale ma Van Steenbergen con un colpo di reni formidabile lo fulminò. Van Steenbergen, che se avesse voluto avrebbe potuto anche correre per la vittoria in un Giro o in un Tour, in quello del 1951, vinto da Magni, si mise alle spalle Kubler e Coppi.
Vabbè, ho parlato come sempre del passato. Del resto “passato è bello” mi aveva soprannominato il mio caro amico Walter Tobagi che credeva di avere un grande futuro che gli fu invece spezzato da due ragazzi male educati.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 19 settembre 2020