Oltre al Covid esiste, come se non bastasse, anche un “Long Covid”. Persone guarite ufficialmente da questa rognosissima influenza (ma sarà poi un’influenza, vai a sapere) accusano gli stessi sintomi e malesseri di quando erano malate: una grande stanchezza, debolezza, ansia, perdita di memoria, dolori muscolari. E’ comprensibile per chi ha vissuto un grande stress. Più curioso è che più o meno gli stessi sintomi li avvertono persone che non solo non hanno avuto il Covid ma non ne sono state nemmeno sfiorate. Qui entra in campo la paura, una componente consustanziale all’essere umano che può essere positiva, perché è grazie alla paura che noi abbiamo potuto sopravvivere per millenni a differenza di altre specie animali, ma anche, come in questo caso, negativa perché paralizzante. Basta uno stranuto, un colpo di tosse, un po’ di stanchezza (ma chi non è stanco in questa società ossessiva e nevrotica?) che subito si pensa al Covid e alla morte. Paura del tutto irrazionale perché in Italia i morti per Covid sono attualmente lo zero virgola della popolazione. Bisognerebbe che tutti ci ricordassimo del detto del vecchio e saggio Epicuro: “Muore mille volte chi ha paura della morte”. Che è proprio la situazione irrazionale che stiamo vivendo, peraltro in una società che, per una sua folle ubris non contempla la morte biologica, quella inevitabile che prima o poi arriva per tutti, ma l’ha proibita, scomunicata, dichiarata pornografica.
Credo però che in molti di noi più che la paura della morte operi un autentico e molto razionale terrore della trafila delle “quarantene”. Sono abbastanza convinto che le “quarantene” faranno più danni del Covid. L’ansia abbassa le difese immunitarie che si aprono a malattie ben più pericolose del Covid. Ma questo lo potremo sapere solo a epidemia superata e sempre che sia superata. Infatti l’aver tentato di bloccarla in tutti i modi ci espone a continui colpi di ritorno (ad uno stiamo assistendo in questi giorni) come una molla troppo compressa torna su con la stessa forza con cui l’abbiamo schiacciata. E un’altalena del genere può continuare all’infinito.
Il governo italiano ha deciso una linea, poi seguita più o meno da tutti gli altri Paesi europei, e l’ha portata avanti in modo coerente, forse l’unico appunto che gli si può fare è di non aver rafforzato i presidi sanitari fin dal momento in cui l’epidemia è comparsa in Cina, perché oggi tutto si muove a velocità supersonica.
Io, che per fortuna di tutti non sono presidente del Consiglio, avrei seguito una linea completamente diversa. Storicamente le epidemie non nascono a caso, arrivano quando c’è un eccesso di popolazione. Nel mondo non siamo poi molti, sette miliardi e mezzo circa, ma questa cifra è moltiplicata proprio dalla velocità degli spostamenti per cui, forzando un po’ il paradosso, è come se stessimo tutti nello stesso posto. L’epidemia ha la funzione di sfoltire questo eccesso di popolazione, eliminando i soggetti più deboli. Nel mondo i morti per Covid si aggirano attualmente fra gli 800 e i 900 mila. Quanti sarebbero stati senza le misure di contenimento presi dai vari Paesi? Il doppio, il triplo? Nell’ultima guerra mondiale, in un’area molto più ristretta (Europa e Giappone) i morti sono stati 50 milioni. La guerra ha avuto la funzione di un’epidemia. Se si fosse lasciato che l’epidemia sfogasse liberamente il suo corso alla fine se ne sarebbe andata, per mancanza di alimento, come sempre se ne sono andate le epidemie e se ne sarebbe riparlato fra trent’anni. Invece rischiamo di portarcela appresso per trent’anni ancora e forse più.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 8 settembre 2020
All’inizio di questa estate che sta morendo, purtroppo non da sola, il sindaco di Milano Beppe Sala in un’intervista a InOltre ripropose la ‘vexata quaestio’ delle gabbie salariali affermando in sostanza che fra chi vive nel capoluogo lombardo e chi, poniamo, a Reggio Calabria il discriminato, a suo sfavore, è il primo e non il secondo perché a Milano il costo della vita è mediamente superiore del 30 per cento. Fra le risposte sdegnate spicca quella della deputata 5stelle calabrese Federica Dieni: “Le affermazioni di Sala sono a dir poco allucinanti. E’ inaccettabile che nel 2020 si parli ancora di gabbie salariali, dietro cui si nasconde il solito complesso di superiorità della parte più sviluppata del nostro Paese”.
Non c’è nulla di allucinante e inaccettabile o complesso da “cultura superiore” nella proposta di Sala, ma molto di logico ed economicamente ineccepibile. Ciò che ha detto il sindaco di Milano è un dato di fatto che non riguarda solo Reggio Calabria, presa da Sala a puro titolo di esempio, ma l’intero nostro Sud.
Nell’Italia repubblicana e democratica le gabbie salariali sono esistite fino al 1970. La possibilità di un loro ripristino fu ripresa da Umberto Bossi negli anni Novanta. Sul ‘senatur’ caddero i fulmini sia della cosiddetta sinistra che della cosiddetta destra. Fra le tante l’accusa principale era naturalmente quella di “razzismo”. Bossi non era affatto razzista, la mitica Padania da lui sognata era di “chi ci vive e ci lavora” senza esami del sangue sulla sua provenienza. Ma la proposta di Bossi, a differenza di quella di Sala che il sindaco di Milano ha legato, chissà perché, alla contingenza del Covid che non c’entra nulla, si inseriva in una visione molto più ampia dell’Italia e dell’Europa. Bossi, che io considero l’unico statista italiano degli ultimi trent’anni, pensava che in un’Europa politicamente unita sarebbero scomparsi gli Stati nazionali, che non avrebbero avuto più alcuna ragion d’essere, sostituiti come riferimenti periferici dalle “macroregioni”, cioè da aree coese dal punto di vista economico, sociale, culturale e anche climatico. E, per quel che riguarda l’Italia, è fuori discussione che Nord, Centro, Sud sono realtà molto diverse. Non migliori o peggiori, diverse. Diceva Aristotele che “ingiustizia non è solo trattare gli eguali in modo diseguale, ma anche trattare i disuguali in modo eguale”. Da chi vive al calor bianco del Sud non si può pretendere che si comporti come l’industrialotto brianzolo che , per sua cultura e non certo solo per ragioni climatiche, ‘rusca’ 15 ore al giorno. Di converso chi vive e lavora al Sud non può pretendere lo stesso tenore di vita dell’immaginato industrialotto brianzolo . Tutti gli uomini e le donne, in Italia e fuori, hanno pari dignità, ma vivendo in situazioni economiche, sociali, culturali, climatiche diverse non possono essere trattati, seguendo Aristotele, allo stesso modo.
Devo anche dire che l’eterno piagnisteo meridionale, a più di 150 anni da quella sciagura che è stata l’Unità d’Italia, comincia a dare sui nervi. Io lo vidi bene durante gli scioperi dell’ “autunno caldo” del 1969, cui partecipai. Gli operai milanesi, in maggioranza socialisti, e gli immigrati da tempo dal Sud conducevano la loro sacrosanta lotta con la necessaria durezza ma con dignità, con quelli di più recente immigrazione si assisteva a messinscena del tutto fuori luogo che tiravano al patetico, tipo clochard involontario che tende la mano invece di pretendere diritti.
In Italia non esiste nessuna Questione Meridionale, su cui son state riempite intere biblioteche, esiste una Questione Settentrionale, dimenticata o comunque obnubilata, di una parte del Paese che deve trascinarsi dietro a forza un’altra recalcitrante.
Ipse dixit.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 3 settembre 2020
Cadono i quarant’anni dalla “legge Basaglia”, così chiamata dal suo ideologo Franco Basaglia, che imponeva la chiusura degli ospedali psichiatrici, in lingua italiana manicomi, sui quali per dirla con lo stesso Basaglia doveva “essere sparso il sale”. La “legge Basaglia” è una dimostrazione plastica del detto di Chesterton: “l’errore è una verità impazzita”. Cominciamo dalle verità. E’ assolutamente vero che in Italia c’erano manicomi, pardon ospedali psichiatrici, come quello di Barcellona di Sicilia, in cui i pazzi, pardon “i malati di mente”, erano tenuti in condizioni disumane. E’ anche vero che molte famiglie per liberarsi di un soggetto turbolento o comunque scomodo, magari un genio (qualcuno ricorderà forse il bellissimo film Beautiful Mind), lo facevano rinchiudere in un manicomio. L’errore sta nel fatto che la legge fu applicata da Basaglia e soprattutto dai suoi discepoli, spesso dei teorici che un matto vero non lo avevano mai visto in faccia, con una coerenza omicida. Chiusi infatti gli ospedali psichiatrici dove dovevano andare i malati di mente? Per “risocializzarli” dovevano tornare sul mitico “territorio” o in famiglia. La famiglia è esattamente il posto dove un malato di mente non deve tornare, perché è quasi sempre in famiglia che si è ammalato. Il “territorio” è un’illusione ottica. Nella società medievale, preindustriale, dalle piccole dimensioni del villaggio era possibile che la comunità si prendesse cura del pazzo, anzi quella società era riuscita a metabolizzare questa figura dandogli un ruolo pensando che avesse, per suoi misteriosi canali, uno speciale rapporto con Dio. Ma in città come Milano o Trieste o Roma il “territorio” non esiste. Uscendo sul “territorio” il malato di mente andava a finire semplicemente sotto un tram o un autobus e così la pratica era felicemente chiusa. Per Basaglia e i suoi quella di mente non era diversa da tutte le altre malattie, andava anzi terminologicamente abolita (Edgar Quinet nel 1865, quando l’astrazione dell’Illuminismo aveva già fatto parecchi danni, scriveva ne La Révolution: “E’ caratteristica essenziale della nostra società bizantina quella di mettere le parole al posto delle cose, nell’illusione di mutarne la sostanza”). All’inizio di questa follia, di Basaglia e dei suoi, non dei pazzi propriamente detti, poiché la malattia mentale, ammesso che esista, non è diversa da tutte le altre si mettevano questi malati insieme a tutti gli altri negli Ospedali generali. Si dovette fare qualche passo indietro quando si scoprì, con qualche meraviglia, che questi malati strappavano il catetere o i tubi dell’ossigeno agli altri. Ma la follia, di Basaglia e dei suoi, non si fermò di fronte a queste bazzecole. Quando i malati erano in “acuzie” come si dice in gergo medico, cioè davano fuori di matto in italiano, venivano ricoverati nei “repartini” speciali degli Ospedali generali. Ma in questi “repartini” non c’era nulla, nemmeno un flipper. Perché? Perché il malato di mente non doveva essere “istituzionalizzato” e per lo stesso motivo dimesso entro quindici giorni. Così cominciava il suo penoso elastico fra “repartini”, territorio, famiglia, finché non commetteva qualche sciocchezza e veniva sbattuto nei manicomi giudiziari, tipo Castiglion delle Stiviere, che oggi hanno un altro nome ma, seguendo Quinet, nella sostanza sono più o meno la stessa cosa. All’Antonini di Limbiate, Mombello per i milanesi, quel santo laico di Alberto Madeddu, un Mario Tobino (Le donne di Magliano) delle nostre parti, aveva attrezzato una struttura dove c’erano la palestra, l’atelier di pittura, la sala cinematografica, la musicoterapia, il campo di calcio dove i malati facevano ergoterapia giocando con infermieri e medici deviando così la propria aggressività. Più o meno allo stesso modo, sempre a Milano, era organizzato il Paolo Pini, dove sentii un infermiere, molto lumbard, concreto e solido, dire a un medico basagliano tutto ideologico: “sì dottore, ma ci vorrebbe anche un po’ di umanità”. Tutto questo fu spazzato via in nome della teoria basagliana dello “spargere il sale”. L’unico supporto ai malati di mente, almeno quando feci per il Giorno un reportage di quattro puntate, nel 1984, a sei anni dal varo della legge Basaglia, dovevano essere i CPS, i centri psicosociali. Cioè per non ledere la dignità del malato di mente doveva essere costui a rivolgersi autonomamente a questi centri. Ora questo lo può fare un depresso o un nevrotico non uno psicopatico che crede di essere Gesù Cristo e che malati siano tutti gli altri (forse a ragione, non si può mai dire, ma certamente in questo modo il malato viene lasciato a se stesso).
Ma questa non è che una succinta epitome delle follie della follia di Basaglia e dei suoi. A quarant’anni di distanza non possiamo che contarne le vittime, in modo approssimativo perché le statistiche tacciono opportunamente e prevale tuttora il bla bla ideologico in cui cade anche un grande giornalista come Gian Antonio Stella.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 29 agosto 2020