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Nel suo immancabile papello annuale il sempiterno Bruno Vespa ci informa che fra Salvini, Meloni e Berlusconi è stato stipulato un patto per portare quest’ultimo alla Presidenza della Repubblica. Tappa seccante ma solo intermedia per l’ex Cavaliere che da “unto del Signore” aspira legittimamente a diventare Monarca di origine divina così come lo erano in Europa tutti i Sovrani medioevali e, più recentemente, in Giappone il Mikado fino a quando i vincitori americani non imposero la devinizzazione dell’Imperatore in nome della loro “cultura superiore”, laica, anche se per la verità il Presidente degli Stati Uniti finisce sempre il proprio discorso alla Nazione con la formula “Dio protegga l’America” e non si capisce perché mai il Dio dovrebbe proteggere proprio questi guerrafondai seriali e non piuttosto i pacifici indigeni delle Isole Andamane.

Ma quando arrivato ai 120 anni a cui altrettanto legittimamente aspira, ma anche, perché no, oltre, mai mettere limiti alla Divina Provvidenza, e non sarà certo l’ex Cavaliere a porli poiché è cattolicissimo (e anche massone, vabbè, sibbè, embè, chi se ne freg, chi se ne import) tanto che nella turpe stagione di Mani Pulite, allorché i Pm non riuscendo a interrogarlo perché il Premier opponeva sempre i suoi impegni politici, gli proposero la domenica mattina, rispose: “Ma la domenica io vado a Messa”, Silvio Berlusconi salirà finalmente all’Empireo. E qui saranno problemi seri per la Santissima Trinità. Perché Berlusconi non è tipo da restar subalterno a nessuno. Poiché il numero dei giocatori in campo non può essere cambiato, così come nel Campionato di calcio i giocatori devono essere undici e se se ne vuole immettere uno nuovo un altro va sostituito, il primo a rischiare la “panca” è lo Spirito Santo questo “spettro” come lo definisce Borges che non si è mai capito bene che ruolo abbia e in quale posizione giochi. Deciderà il Capitano, sempre che rimanga tale e il Nuovo Arrivato non sostituisca anche lui precipitandolo nel Campionato parallelo dell’Europa League per i misfatti di cui si è reso responsabile (“l’unica scusante di Dio è di non esistere”, Baudelaire) rimpiazzando Lucifero che tornerà al suo posto.

Certo sarebbe la prima volta che in un Paese democratico, e anche non democratico, un soggetto che per una colossale evasione fiscale è stato condannato a quattro anni di galera, diventati poi grazie ai benefici uno e mezzo scontato a ridicoli “servizi sociali”, ma insomma condannato in via definitiva, che ha usufruito di nove prescrizioni per reati che percorrono quasi l’intero Codice penale (corruzione di magistrati, falso in bilancio, finanziamento illecito, falsa testimonianza e in almeno tre di questi casi la Cassazione appurò che quei reati erano stati effettivamente commessi ma era passato il tempo utile per giudicarli) che ha quattro processi in corso, assurge alla massima carica dello Stato. Ma per i ‘berluscones’ queste sono bazzecole, bagatelle, anzi infamie ai danni del leader di Forza Italia. Berlusconi, si sa, è vittima della “Magistratura politicizzata”, anche se quando sono gli altri ad essere sotto schiaffo la Magistratura diventa integerrima. Un sillogismo binario, aristotelico, che non può essere revocato in dubbio.

Qualche perplessità sull’età è stata sollevata persino da Vespa. Berlusconi si candiderebbe a 85 anni e mezzo e, se tutto va bene, concluderebbe il suo mandato a 92. Ma ci sono dei precedenti illustri. Pertini voleva ricandidarsi a 89 anni e avrebbe terminato il suo secondo mandato a 96. Quindi Berlusconi ha quattro anni di vantaggio. E Pertini ci teneva fortissimamente a questo secondo mandato, tanto che avendo io scritto un pezzo in contrario chiese e ottenne il mio licenziamento insieme al direttore della Domenica del Corriere Magnaschi.  Non che gli contestassi l’età, bensì il modo sciagurato con cui “il Presidente più amato dagli italiani” aveva condotto il suo settennato, violando Costituzione, imparzialità, qualsiasi protocollo e persino la buona educazione. Inoltre Berlusconi ha un vantaggio. Pertini non era noto per il suo acume (il vecchio Pietro Nenni, che in tarda età era stato colpito da un’infermità agli arti inferiori, diceva: “A me ha preso le gambe, a lui la testa”), mentre di Berlusconi non si sa se sia intelligente o meno, ai posteri l’ardua sentenza, ma è certamente furbo, furbissimo, astuto, astutissimo. Berlusconi è un bizzarro incrocio fra l’italiano di Machiavelli (“il fine giustifica i mezzi”) e quello del Guicciardini che punta sul “particulare”, ognun per sé e Dio per tutti. Quindi anche culturalmente Berlusconi ci esprime. Rappresenta al meglio il peggio degli italiani, almeno quelli di oggi: disonesti, corrotti, corruttori, opportunisti, cinici. Quindi chi meglio di lui? Io sono perciò favorevolissimo alla candidatura dell’ex Cavaliere al massimo soglio della Repubblica italiana. E grido forte: “Berlusconi for President, Silvio forever”. E così sia.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 11 novembre 2020

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Il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, non avendo altro cui pensare, ha deciso di vietare, facendosi forza del Regolamento comunale sulla “qualità dell’aria”, il fumo anche all’aperto cioè alle fermate dei mezzi pubblici, standone lontani dieci metri, nei parchi, nelle aree attrezzate per gioco, sport e attività per bambini, nelle aree cani.

Gli uomini politici devono appartenere a una specie diversa. Come si fa a pensare ad un ulteriore divieto proprio mentre siamo gravati da infiniti verboten sotto il cui peso camminiamo come il “vecchierel bianco, infermo…con gravissimo fascio in su le spalle”? Il divieto di Sala rischia di essere il classico capello che fa crollare il cammello. E’ ovvio che nel periodo d’ansia che tutti stiamo vivendo ognuno cerchi una sua qualche via di fuga. Secondo l’Iss in questo periodo è triplicato l’uso di psicofarmaci e di droghe, leggere e pesanti. Di queste dipendenze il fumo mi sembra, almeno in questo momento, il più innocente o quantomeno il meno dannoso. Per giustificare questo divieto si è detto che il fumo inquina l’aria. Ma la smettano di prenderci per i fondelli, chi inquina è la produzione di CO2 delle fabbriche e il traffico automobilistico, il fumo vi ha una parte marginalissima.

Bisognerebbe piuttosto parlare dei gravi errori compiuti dal Governo italiano che si è fatto sorprendere da una seconda ondata del Covid che gli stessi scienziati avevano previsto e, per quel che mi riguarda e per quel che vale, io avevo dato per certo: una molla fortemente compressa appena si allenti la pressione rimbalza fuori con la stessa forza con cui è stata spinta. Nel periodo che intercorre tra il primo lockdown e quello, forse ancora più pesante, che ci sta per cadere addosso, il Governo doveva rafforzare tutti i presidi sanitari e il trasporto pubblico comprando mezzi ovunque ce ne fosse la possibilità e utilizzando anche i pullman privati che al momento se ne stanno inutilmente negli hangar. Niente di tutto questo è stato fatto.

A parer mio, che per fortuna di tutti non sono Presidente del Consiglio, la linea del Governo italiano, peraltro imitata da quasi tutti i Paesi europei, era sbagliata in radice: bisognava lasciare che l’epidemia, pur fronteggiandola con tutti i mezzi (mascherine, lavarsi le mani, eccetera) tranne il devastante “distanziamento sociale”, devastante per le nostre strutture nervose e per l’economia, facesse il suo corso e la propria opera, che Madre Natura gli detta, di sfoltire la popolazione.

Dicevo: tutti i Paesi europei. In realtà non proprio tutti. Il Governo svedese si è limitato a dare “raccomandazioni” contando sul notorio senso civico dei suoi cittadini. Nel momento in cui scrivo in Svezia i morti per Covid sono circa 6.000, noi ne abbiamo circa 39.000. E’ vero che gli svedesi sono 10 milioni e noi 60, quindi, in questa macabra conta, bisogna moltiplicare per sei i deceduti scandinavi. E’ anche vero che fra Italia e Svezia c’è una densità territoriale molto diversa, 200 abitanti per chilometro quadrato in Italia, 23 in Svezia. In Svezia ci sono poche grandi città, Stoccolma, Göteborg, Malmö, da noi a causa di un movimento di urbanizzazione e desertificazione delle campagne che è mondiale (e anche questo è un dito d’accusa puntato sul modello di sviluppo della cosiddetta Modernità) ci sono molte grandi città, Milano, Torino, Genova, Firenze, Roma, Napoli, Palermo che sono ormai sfuggite o stanno per sfuggire al nostro controllo.

Quanti saranno alla fine della pandemia, ammesso che con questo comportamento stop and go ci sia una fine, i morti svedesi e i morti italiani? Non lo possiamo sapere, i conti si faranno alla fine. Nel frattempo però, due anni, tre anni, gli svedesi avranno continuato a vivere, sia pur con qualche limite autoimposto, come hanno sempre vissuto senza subire lo stress dei coprifuoco salvando contemporaneamente la loro economia. Inoltre, se qualche istituto di statistica sarà in grado di fornirci i dati, bisognerà mettere in conto gli “effetti collaterali” dei vari lockdown: depressione, che abbassa le difese immunitarie, infarti, ictus e tutti coloro che, gravati da altre e ben più pericolose patologie, non hanno potuto avere le cure adeguate e a causa di ciò son morti.

Finalino incoraggiante. Donald Trump ha già immesso nel sistema economico americano tre trilioni di dollari, Biden si appresta a infilarcene altri due. Da dove la vanno a prendere quest’enorme quantità di denaro? Se ce l’avessero avuta l’avrebbero già usata. Non ce l’avevano e non ce l’hanno. In realtà questo denaro è fatto di un credito verso un futuro ipotecato fino a regioni temporali così  sideralmente lontane da essere inesistente e, prima o poi, più prima che poi, ci ricadrà addosso, a tutti e non solo agli americani, come drammatico presente, sulla scia di quanto è avvenuto, usando lo stesso paranoico meccanismo, con la Lehman Brothers e la crisi del 2008. E’ questo che, Covid o non Covid, ci aspetta al varco. Auguri.

Pezzo inedito. 5 novembre 2020

Massimo Fini

 

 

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Nel 2021 si celebreranno i settecento anni dalla morte di Dante Alighieri. Aldo Cazzullo, il noto editorialista del Corriere della Sera, ha anticipato tutti con un bel libro “A riveder le stelle”. La lettura che Cazzullo dà del Sommo Poeta è particolarmente interessante perché, a differenza di quella del pur ottimo Sermonti che si fissa molto sui simbolismi della Divina, che pur ci sono ma che per noi hanno ormai uno scarso significato, ci restituisce un Dante in carne e ossa, con la sua vita, le sue passioni, le sue idee, i suoi pensieri. Del resto la Divina Comedia è di fatto una autobiografia (“ogni filosofia è un’autobiografia” scrive Nietzsche). Dato per scontato che Dante fonda, in modo meraviglioso, la lingua italiana (nel libro di Cazzullo vengono richiamati molti detti che sono penetrati profondamente nel linguaggio comune, attuale, anche se noi non ce ne rendiamo più conto) e che, insieme a Leopardi, è il massimo letterato del nostro Paese e, a livello mondiale, sta con Shakespeare e pochi altri, Dante come persona esce a pezzi da questa autobiografia mascherata, anche se Cazzullo, che ne condivide evidentemente in qualche modo le idee, cerca di dissimulare in tutti i modi l’indecenza della povertà umana del Sommo Poeta.

Dante è un uomo vendicativo. Non c’é personaggio, anche di notevole spessore, che non ficchi nei gironi peggiori dell’Inferno solo perché gli han fatto un qualche sgarbo o si sono schierati dalla parte politica opposta alla sua, si tratti di Guelfi Neri o Ghibellini. Non c’è città italiana che sfugga alle sue invettive, da Firenze che lo esiliò, a Pisa “vituperio delle genti”, alla garbata Siena, a Genova descritta come sentina di tutti i vizi. E’ un manicheo. E’ irriconoscente anche verso chi negli anni suoi bui gli diede generosamente una mano, come i conti Guidi che lo ospitarono più volte ma nei quali riesce comunque a trovare qualche macchia. Ispirato da Virgilio, il suo ‘doppio’, fa grandi concioni sulla pietas, che è un concetto latino piuttosto estraneo al mondo cattolico cui Dante aderisce ‘toto corde’,  ma non ne ha nessuna per i suoi avversari. E’ un legalista, un pio devoto all’ordine superiore  e non per nulla tutta la Divina è organizzata in modo gerarchico. E’ un moralista insopportabile a un occhio moderno. Il climax lo raggiunge non proprio nella Divina ma nella tenzone che ebbe con Forese Donati a cui ne dice di tutti i colori: “Non è figlio di suo padre, come Cristo non lo era di Giuseppe; è brutto, sfregiato, goloso, grasso, e non paga i conti; la moglie Nella è raffreddata anche d’agosto, perché dorme sola mentre lui è in giro con altre donne o a rubare; pure i suoi fratelli trascurano le mogli, forse perché preferiscono gli uomini” (Cazzullo traduxit). In un colpo solo son sistemati i brutti, i grassoni, le persone che non corrispondono a un canone di bellezza standard, le donne, gli omosessuali.

In Dante ci devono essere delle gravi turbe psichiche. Non si descrivono con minuzia di particolari, godendone, gli spaventosi tormenti dei dannati se non si ha una personalità sadomasochista. Nella bolgia dedicata ai falsari ne vede uno talmente gonfio da sembrare un liuto, una sorta di mandolino più grande, come se la testa e il busto formassero il manico e la pancia la cassa armonica dello strumento. In un altro passaggio dedicato a due ladri Buoso Donati e Francesco Cavalcanti (padre del delicato poeta, suo amico) li accoppia fondendo così l’uno nell’altro: il serpente divenuto uomo ritrae il muso appuntito per trasformarlo in una faccia, cui spuntano le orecchie, si forma il naso e si ingrossano le labbra e all’uomo divenuto serpente le orecchie si ritirano come le corna della lumaca e la lingua si biforca, mentre l’altra lingua che era biforcuta si richiude. Certo non manca la fantasia al Poeta, ma è una fantasia malata, horror, da Grand Guignol o alla Dario Argento.

Nell’ultimo cerchio dove Lucifero sta ben piantato nel ghiaccio è punito il tradimento supremo: la ribellione al potere legittimo, la rivolta contro la divinità. Dante non coglie, e non può cogliere, a differenza di Milton (“meglio esser primi all’Inferno che in Ciel servire”) la grandezza appunto luciferina di Satana, il più bello degli Angeli, il primo ribelle della Storia. Come non coglie, là dove ne accenna, la grandezza, molto più terrena e concreta, di Lucio Sergio Catilina che si ribellò al potere del Senato romano, cioè dei latifondisti che con parole moralistiche coprivano i loro interessi economici, andando fino in fondo alla sua storia ben sapendo che alla fine di questa storia c’era solo la morte (Catilina. Ritratto di un uomo in rivolta). Si dirà che Dante esprime lo zeitgeist, cioè lo spirito del suo tempo, ma Cecco Angiolieri, che gli è contemporaneo, sta su tutt’altra sponda. Cecco come poeta non è Dante, ma socialmente riflette una componente di quella società che non ci stava al “politically correct”. Dante è estraneo a questa epica perché è tutto fuorché un ribelle.

Insomma, diciamolo pure, Dante persona fa un certo senso, cosa non nuova nei grandi artisti. Se si legge la biografia di Proust, di quest’uomo che si dilettava nel veder vivisezionare i topi, ne esce una persona che uno non avrebbe voglia di frequentare nemmeno per una semplice bicchierata al bar, e lo stesso Pasolini, esempio più vicino a noi, con la sua voglia di umiliare le ‘marchette’ al di là di ogni limite (finché una di queste, “Pino la Rana”, esasperato, non lo ucciderà) è molto diverso dal Pasolini coltissimo, creativo, controcorrente che siamo abituati a leggere sulla pagina o a vedere nei suoi film (peraltro a volte non riusciti). Queste zone d’ombra dei grandi artisti sono spesso all’origine della loro grandezza, non salirebbero alle stelle se non si fossero immersi fino in fondo nelle stalle.

Col libro di Cazzullo ripercorriamo, grazie a Dante, buona parte della letteratura greca e latina che lo hanno preceduto. Inoltre in Cazzullo, che sembra avere un’ottima conoscenza della mappa del nostro Paese, sia in senso geografico che storico, ritroviamo monumenti, lapidi, iscrizioni, di cui anche la persona mediamente colta ha perso contezza.

Cazzullo confronta poi i peccati di ieri, che Dante illustra con abbondanza di perfidia, con quelli di oggi. Attualizza cioè Dante. E questa è forse una delle debolezze del suo libro perché qui il giornalista del Corriere ridiventa cronista. Non c’è bisogno che a proposito dei ‘falsari’ ci rifaccia tutta la storia del Monte dei Paschi di Siena che il lettore conosce benissimo. Come inutili e noiose sono le pagine dedicate alla tragedia del Vajont dove, anche mettendocela tutta, non si riesce a cogliere una connessione con l’Inferno, se non nel Fato che è un concetto greco del tutto estraneo a Dante per il quale tutto dipende, dicendola col Manzoni, dalla Divina Provvidenza.

E alla “fin della tenzone” non so se in questa recensione ho stroncato solo la persona del Sommo Poeta o, con una perfidia prettamente dantesca, anche il mio amico Aldo Cazzullo.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 3 novembre 2020