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Trovo insopportabili questi piagnistei sui bambini fotografati in ginocchio davanti a una sedia che funge da banco a scrivere o a disegnare, come è avvenuto alla scuola elementare Maria Mazzini di Genova. A parte che i banchi sono arrivati il giorno dopo, da che mondo e mondo i bambini quando sono a casa propria scrivono e disegnano in ginocchio su un foglio appoggiato al pavimento. Se da ragazzi avevamo sempre le ginocchia sporche, per la disperazione delle nostre madri (“vai a lavarti!”) era anche per questo.

Il problema autentico a me pare un altro ed è quello della quarantena. Poniamo che in una classe di una scuola sia trovato un bambino o un ragazzo col Covid. Tutta la classe insieme ai genitori del bambino viene messa in isolamento. Per 14 giorni i ragazzi non potranno studiare, ma quel che è peggio i loro genitori non potranno andare a lavorare. Non solo. Bisognerà rintracciare le persone con cui negli ultimi giorni sono venuti in contatto i genitori. Anche queste devono andare in isolamento? A rigor di logica sì. E se fra questi soggetti che sono venuti in contatto con i genitori del bambino o ragazzino o ragazzo si trova un positivo anche questo, a rigor di logica, dovrà essere messo in isolamento? E se fra i conoscenti dei conoscenti del genitore del bambino si trova un positivo anche questo, a rigor di logica, dovrà essere messo in isolamento e ricercate le persone con cui è venuto in contatto fra le quali si potrebbe trovate benissimo qualcuno positivo al Covid in una filiera interminabile? E questo partendo da un solo caso di un bambino trovato positivo in una classe. Ma è molto probabile che bambini o ragazzini o ragazzi positivi a scuola se ne troveranno a centinaia e quindi si creerà una ragnatela che in poco tempo potrebbe investire mezzo Paese. E’ così o non è così? E’ così o sto dicendo cazzate? Su questo punto mi piacerebbe avere una risposta precisa dal Governo, dal Ministero della Pubblica Istruzione, dal Comitato Tecnico Scientifico e non da un epidemiologo intervistato da un giornale perché abbiamo visto che non ce n’è uno che sia d’accordo con l’altro.

Trovo insopportabili e del tutto strumentali le polemiche che si sono fatte sulle “criticità”, parola orribile, che si sono manifestate nei primi giorni del ritorno a scuola di oltre otto milioni di studenti dopo sei mesi di lockdown (mancanza di banchi, carenze di mascherine, parco docenti insufficiente, ridotti al minimo gli insegnanti per i disabili, eccetera) sono situazioni così intricate che nemmeno il mago Zurlì, con la sua bacchetta magica, potrebbe risolvere in un sol giorno e nemmeno in una settimana e forse in un mese. Il Governo e il ministro della Pubblica Istruzione non si sono preparati a tempo? Può essere. Ma “c’è chi naviga e va per mare e c’è chi sta a terra e giudica”. E’ troppo facile, come fa Salvini, sparare da terra su un battello in difficile navigazione.

Adesso con la riapertura delle scuole e la ripresa di tutte le attività lavorative la curva del Covid risalirà per forza. E’ necessario accettare questa realtà, non fare drammi per qualche morto in più e soprattutto non ritornare al lockdown che questo Paese e i suoi cittadini non potrebbero reggere né economicamente né, soprattutto, psicologicamente.

Io resto dell’idea che sarebbe stato meglio lasciare che l’epidemia facesse il suo corso e poi se ne andasse come se ne sono andate, storicamente, e in tempi relativamente brevi, tutte le epidemie. Ma una decisione del genere avrebbe dovuto essere presa a livello globale, da tutti i Paesi, diciamo dall’Oms. Ormai è troppo tardi per tornare indietro. Così ci trascineremo questo Covid quasi insignificante per numero di morti, ma devastante dal punto di vista economico, sociale e psicologico, per decenni. Credo anche che il tanto agognato vaccino servirà a poco, perché il Covid, per difendersi, muta di continuo e si adatta alle nuove condizioni. Insomma è un po’ più intelligente dell’uomo.

P.S. Berlusconi ha dichiarato di aver avuto un Covid con una carica virale mai riscontrata in nessun altro paziente. Anche malato e conciato da paura deve essere comunque sempre il primo.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 17 settembre 2020

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Nei giorni scorsi Beppe Grillo è stato coprotagonista di uno scontro con un giornalista della trasmissione Diritto e Rovescio, Rete4, Francesco Selvi. Le cose sono andate così. Grillo se ne stava spaparanzato sulla spiaggia di Marina di Bibbona dove ha una delle sue due normalissime case (l’altra è a Sant’Ilario sopra Genova), non le “tante ville” di cui parla Alessandro Sallusti, quelle ce le ha Berlusconi che solo in Sardegna ne possiede sette impestando quella che una volta era la splendida Gallura. Dunque Selvi si avvicina a Grillo e gli chiede un’intervista. Fin qui tutto lecito. Solo che Selvi contemporaneamente accende il cellulare. Da questo momento l’intervista è già cominciata e qualsiasi cosa dica o faccia Grillo fa da già parte di un’intervista non autorizzata. Grillo reagisce alla Grillo, cerca di strappare il cellulare allo scorretto intervistatore, lo spinge e lo manda a ruzzolar giù per le terre. Certo avrebbe potuto comportarsi diversamente, come Enrico Cuccia, già ottantenne, che tampinato da un rompiscatole delle Iene per tutto il percorso che andava dalla sua abitazione agli uffici di Mediobanca, un chilometro circa, proseguì dritto, non accelerando né diminuendo la sua camminata, senza degnare l’importuno di una parola e nemmeno di uno sguardo. O come Indro Montanelli che, settantenne, assillato da un giornalista di questo genere gli disse paro paro: “Non mi rompa i coglioni!”.

Io rimpiango i tempi in cui per incontrare una persona bisognava fargli avere prima il proprio biglietto da visita come fece Nietzsche con Wagner e dando così inizio alla più feconda amicizia che il solitario filosofo tedesco abbia avuto. Del resto allora funzionava così. Per tutti. I giornalisti devono capire che, a parte situazioni limite, guerre, scontri di strada e simili, non hanno acquisito un particolare diritto alla maleducazione. E credo che la prima, vera, urgente e forse unica riforma da fare in Italia sia quella del ritorno alla buona educazione. Anche sul gossip politico e giudiziario cui si è ridotto il nostro giornalismo, ammesso che possa definirsi ancora tale, ci sarebbe poi molto da dire. L’insinuazione politico-giornalistica è diventata l’arma preferita da usare contro gli avversari. Nell’editoriale dedicato da Alessandro Sallusti all’episodio Grillo (Il Giornale, 9.9), che gira tutto intorno al fatto che il giornalista di Rete4 non è stato difeso dalla Federazione Nazionale della Stampa perché presunto di destra (il che non è nemmen vero, la Fnsi si è dichiarata “indignata”) mentre se la stessa cosa fosse capitata a un giornalista cosiddetto di sinistra ci sarebbe stata un’insurrezione mediatica (ma non ti sei ancora accorto, Sandro, che Destra e Sinistra non esistono più, esistono semmai fazioni contrapposte?). Lo stesso direttore del Giornale si lamenta come sia “possibile che a oltre un anno dai fatti ancora la magistratura non abbia deciso se suo figlio (di Grillo, ndr) ha violentato o no una giovane ragazza finita nel suo letto?”. Sallusti deve essere diventato bipolare. Dov’è finito l’ipergarantista a 24 carati che non considera definitiva nemmeno una sentenza di condanna della Cassazione, naturalmente se riguarda Berlusconi, e vorrebbe già al gabbio il figlio di Grillo per il quale non si è ancora arrivati nemmeno a una decisione del Gip? Del resto è il concetto espresso da Madama Santanchè, un’altra del giro, per certi reati e soprattutto per certi presunti autori di questi reati: “In galera subito e buttare via la chiave”. Il processo? In questi casi è un optional. Sallusti, senza rendersene conto, è finito nella filiera iperforcaiola del “siamo tutti colpevoli fino a prova contraria” attribuita a Piercamillo Davigo. Non credo tu possa essere contento di questa comunanza, anche se molto presunta. Alessandro so che scrivi ciò che non pensi, ma pensa almeno a ciò che scrivi.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 12 settembre 2020

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Sfoglio dei vecchi ritagli cartacei (io non utilizzo il web) e trovo un mio articolo sul Giorno del 23.3.1990 intitolato “L’invito del Papa e il tempo rubato”. Papa Wojtyla dopo aver visitato gli stabilimenti della Fiat di Chivasso aveva ammonito imprenditori e lavoratori a “rispettare la sacralità della domenica” suscitando la furibonda risposta di Confindustria. E a ragione, dal punto di vista di quegli strangolatori. Perché il discorso di Wojtyla andava ben al di là della domenica ma investiva l’intero modello di sviluppo occidentale. Cioè riguardava i ritmi assassini a cui è costretto un lavoratore oggi (Amazon per tutti ritornando al presente). E investiva il feticcio totalitario della produzione, per cui noi oggi non produciamo più per consumare ma consumiamo per poter produrre. Universione che ho definito “paranoica”. Nel senso che quando non siamo al lavoro come produttori, lo siamo come consumatori. Il “tempo libero”, tipica invenzione e mostruosità moderna, che segnala tra l’altro la totale alienazione dell’uomo, non è in realtà che un ulteriore bene di consumo perfettamente inserito nella catena di montaggio della produzione. Insomma per dirla con linguaggio più semplice dei CCCP: “Produci, consuma, crepa”. Quando non siamo costretti a lavorare, siamo costretti a consumare. Ecco perché, a dispetto dell’enorme velocità di cui godiamo grazie alla tecnologia e che ci facilita ogni cosa, noi oggi viviamo la straordinaria ed angosciante esperienza di non avere mai tempo.

La società preindustriale non conosceva il tempo libero, ma aveva tempo. Perché i ritmi del pur duro lavoro di quegli uomini, legati com’erano a quelli della natura, erano più lenti, più ampi, meno affannosi, più armonici, più biologicamente giusti di quelli attuali. A differenza di oggi, lavoro e tempo libero non erano drasticamente e innaturalmente separati, ma il tempo dell’uomo, proprio perché seguiva i ritmi della natura, era un continuum in cui il lavoro sfumava nel riposo e viceversa. E in questo lento fluire c’era lo spazio, anche psicologico, per la riflessione, la pausa, l’ozio laborioso, l’attività fantastica e il divertimento semplice e istintivo e non coatti, drogati ed eterodiretti quali sono quelli cui si è costretti nel cosiddetto “tempo libero”.

I ritmi e le esigenze industriali hanno spazzato via tutto ciò. Ma proprio per questo c’è estremo bisogno che, come diceva Papa Wojtyla, e come dice oggi in un modo un po’ confusionario Beppe Grillo parlando di “tempo liberato”, resista almeno un giorno dedicato al sacro. Il che vuol dire, si sia noi religiosi o laici, un giorno liberato tanto dal lavoro che dal consumo e dedicato solamente a noi stessi.

Il lockdown potrebbe essere considerato una formidabile occasione per riflettere sul senso che ha la nostra vita all’interno di questo modello di sviluppo e sullo stesso modello. Ma da tanti segnali vedo che siamo pronti a ricominciare come prima, peggio di prima.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 10 settembre 2020