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Il Sessantotto propriamente detto, prendendo a prestito le parole usate da Luigi Einaudi per la Massoneria, potrebbe essere definito, dal punto di vista politico, “una cosa comica e camorristica”, vissuta più sui giornali che nella realtà, mitizzata nel ricordo, se non avesse causato danni e soprattutto non fosse stato alla radice delle tragedie avvenute dopo che prendono il nome, allora impronunciabile se non volevi essere bollato come fascista, di ‘terrorismo rosso’. In realtà i fenomeni più importanti e fecondi, sul piano del costume, il movimento hippy, la liberazione sessuale, il femminismo, erano maturati prima del Sessantotto.

Nella stragrande maggioranza i ‘sessantottini’ erano figli della borghesia, dell’alta borghesia e, a Roma, perfino dell’aristocrazia (Potere Operaio, Potop in gergo, era sopranominato ‘molotov e champagne’). Figli di borghesi che, a loro detta, avrebbero dovuto spazzar via la borghesia. Una cosa che avrebbe fatto rivoltare nella tomba il vecchio Marx. E infatti tutti i maggiori leader, se si eccettuano Mario Capanna (il ‘lider maximo’ della prima fase) e pochissimi altri, erano in perfetta malafede: volevano conquistare le prime pagine del Corriere della Sera e, se possibile, la direzione. E quando conquisteranno il potere, in qualsiasi settore, in particolare quello imprenditoriale, si dimostreranno più spietati degli antichi ‘padroni delle Ferriere’ che dicevano di voler combattere. A emblema potrebbe essere preso Gian Giacomo Feltrinelli, idolo dei sessantottini, rivoluzionario dilettante di notte e padrone feroce, micragnoso e spilorcio in Casa Editrice.

Erano ragazzi viziati. Di giorno andavano in giro urlando “Fascista, basco nero, il tuo posto è al cimitero”, “Uccidere un fascista non è reato” spaccando vetrine e, all’occasione, anche qualche cranio, e alla sera rientravano nelle belle case dei loro padri, si attaccavano al telefono, “Pronto Dadi, pronto Leonetta” che non sono precisamente dei nomi proletari. Il Movimento studentesco della Statale di Milano (MS) che pretendeva di parlare in nome del proletariato non aveva fra le sue file un solo operaio. No, uno ce lo aveva: un certo Lo Bue che ostentavano portandolo in giro come una Madonna pellegrina. Qualche legame col mondo proletario ce l’avevano i ‘gruppuscoli’ come li chiamava Capanna, a sinistra del Movimento studentesco, Avanguardia operaia e Lotta Continua che perlomeno andavano a fare volantinaggio davanti alle fabbriche. Ma gli operai non li hanno mai visti di buon occhio e tantomeno i comunisti. I danni maggiori comunque questi ‘cattivi maestri’ li fecero proprio sui loro seguaci proletari che avevano preso sul serio quegli intellettuali radical chic. Emblematica è la diade Sofri-Marino. Finita la baldoria Adriano Sofri, anche se condannato a 22 anni di carcere per l’omicidio Calabresi, divenne editorialista del più importante quotidiano di sinistra, La Repubblica, e del più venduto settimanale di destra, Panorama, Leonardo Marino rimase a vendere frittelle a Bocca di Magra.

Per capire il Sessantotto, e la psicologia dei sessantottini, bisogna però fare qualche passo indietro da cui emergono non solo le responsabilità di quei giovani ma quelle degli adulti e della classe dirigente di allora. Quella del Sessantotto è la prima generazione che non aveva vissuto la guerra e aveva una sorta di inferiority complex nei confronti di quelli che la guerra l’avevano fatta e magari erano stati partigiani o dicevano di esserlo stati. Chiunque avesse appena l’età diceva di essere stato, come minimo, una ‘staffetta partigiana’. E io mi dicevo: cribbio, ma quanti messaggi si scambiavano questi partigiani (questo mito di una Resistenza in realtà fatta da pochi sarà l’origine delle Brigate Rosse).

Noi ragazzi sentivamo il bisogno di un impegno ma non sapevamo dove metterlo. Fu questo bisogno che ci spinse ad andare a Firenze nei giorni dell’alluvione del 1966. Io avevo 22 anni e raggiunta la maggior età me l’ero filata da casa, come usava allora, andando ad abitare in un squallido palazzo, in via Novara all’estrema periferia ovest di Milano. Ero in casa con tre amici e quando la radio diede notizia dell’alluvione la nostra reazione fu istintiva e istantanea: “Dobbiamo andare a Firenze a dare una mano”. Divenimmo così gli “angeli del fango”. Come mai gli “angeli del fango” si trasformeranno, nel giro di soli due anni, nei molto meno innocenti sessantottini? Per l’ottusità della borghesia. Noi ragazzi borghesi sentivamo soprattutto due esigenze: quella di essere un po’ più liberi, vestire come ci pareva, senza l’odioso obbligo della giacca e cravatta, portare i capelli come ci pareva (‘i capelloni’) e che le nostre compagne non fossero costrette a rincasare alle nove di sera per poi, magari, uscire di nascosto a mezzanotte. A Milano ci radunavamo a Brera, all’Angolo tenuto dalla bionda e bellissima Alfreda, suonavamo la chitarra e facevamo una caciara innocente. Una sera sì e una no la polizia faceva irruzione a Brera, ci chiedeva i documenti, ci identificava, ci interrogava e qualche volta ci fermava. Il giorno dopo il Corriere, diretto da Franco Di Bella, titolava “Repulisti a Brera” come se fossimo delle cimici. Fu questo bigottismo cretino della borghesia ad esasperare gli animi, come mi ammise anni dopo anche Montanelli. Non per nulla la classe dirigente inglese, che aveva fiutato il vento, che aveva capito che sul piano del costume le cose stavano cambiando, con Mary Quant, la minigonna, i Beatles, si evitò il Sessantotto e tutte le sue ben più gravi conseguenze.

Ho partecipato alle due prime occupazioni della Statale di Milano. Una notte, bighellonando come mio solito per la città arrivai davanti all’università e vidi che era illuminata e piena di ragazzi. Mi ci intruppai. Per quel poco che ci sono stato non fui mai un leader. La notte, insieme a un ragazzo padovano, alto, smilzo, allegro, Giorgio Livrini, figlio di un industriale, tenendoci svegli con dei fiaschi di vino rosso, facevamo la guardia a qualcuna delle tante porte della Statale. Ma capii molto presto che non era cambiato nulla. Se prima all’università bisognava andarci in giacca e cravatta, adesso era obbligatorio l’eskimo. Il conformismo aveva solo cambiato di segno. E non solo nel vestire. Erano diventati tutti di sinistra, di estrema sinistra: giornalisti, intellettuali, scrittori, sociologi paraculi da terza pagina del Corriere, mignottine varie. Non c’era chi scrivesse un libro, fosse anche sulla floricultura, che non lo inquadrasse in una prospettiva ‘rivoluzionaria’. Ogni dissenso era verboten e non solo a parole. Si era preso il ‘vizietto’ di picchiare gli avversari, o presunti tali, dieci, venti, trenta contro uno.

Dovevamo essere proprio agli inizi perché nell’Aula Magna, gremita di studenti e fasciata di tazebao, era stato invitato anche il Rettore, Polvani, che, dimostrando di non aver capito nulla di quel che bolliva in pentola, fece un discorsetto paludato, ancien régime. Uscì fra i fischi, seguito da un piccolo codazzo di studenti ‘fedeli’. Fra loro c’era Paolo Longanesi, il figlio di Leo, piccolo e gobbetto come lui, che fece la sciocchezza di strappare un tazebao. Eravamo in tremila, sarebbe bastato prenderlo per la collottola e portarlo fuori. Invece dal tavolo della presidenza si alzò di scatto Luca Cafiero, un assistente di filosofia che era diventato, insieme a Capanna, Luciano Pero, Michelangelo Spada, un leader del Movimento, precipitandosi su Longanesi. Ne nacque un parapiglia furibondo. Lo stavano letteralmente linciando. Le ragazze, isteriche come al solito, gridavano “Ammazzatelo! Ammazzatelo!” (le cesse, le carine erano un po’ più chete). Ci mettemmo venti minuti, con i cugini Jucker e altri, per sottrarre Longanesi alla furia degli energumeni. Dopo andai al cesso, a vomitare. Un po’ per lo sforzo e un po’ per il disgusto. Uscendo dal bagno vidi uno degli aggressori, Moneta, un ragazzo ben piantato, figlio anche lui di un grosso imprenditore, in piena ‘trance agonistica’. Tremava. Dovetti dargli uno schiaffo perché si rimettesse insieme. C’è anche da aggiungere, a parziale scusante, che quella generazione, proprio perché non aveva conosciuto la guerra non aveva conosciuto la violenza, aveva anche una gran voglia, come sempre i giovani, di menar le mani (non si può essere socialdemocratici a vent’anni).

Il ‘vizietto’ di sprangare la gente trenta contro uno l’MS non l’avrebbe mai perso. Nel febbraio del 1972 i ‘katanga’, il cosiddetto servizio d’ordine dell’MS, picchiarono selvaggiamente uno studente israeliano accusato, naturalmente a capocchia, di essere una spia della CIA. Questo pestaggio ne seguiva un altro, ancora più violento, avvenuto un mese prima ai danni di un sindacalista della UIL, Giovanni Conti, che in un comunicato che cercava di spiegare le ragioni di quell’aggressione venne accusato, insieme a non so più quali nefandezze politiche, di alzare il gomito e di amare la notte. Tale era, sotto le parole rivoluzionarie, il moralismo bacchettone del Movimento studentesco. Io allora lavoravo all’Avanti! che simpatizzava apertamente per la ‘contestazione’, come ormai quasi tutti i giornali che facevano a gara per essere ‘di sinistra che più di sinistra non si può’. Ma l’Avanti! di Milano (a differenza di quello di Roma sotto lo stretto controllo del Partito) diretto da Ugo Intini era un giornale libero e libertario e mi permise di scrivere questo durissimo corsivo: “Il Movimento studentesco c’è ricascato. A poche settimane di distanza dall’aggressione del sindacalista della UIL, Giovanni Conti, un altro episodio di violenza vile e stupida che non trova aggancio in alcuna seria motivazione politica, ha avuto come teatro la Statale e come protagonisti i picchiatori del Movimento studentesco. A questo punto non si tratta più di casi isolati, di ‘ragazzate’ di qualche frangia particolarmente irrequieta dell’MS – come sostiene, fingendo il nulla, Mario Capanna- ma di metodo. E il linciaggio, la caccia all’uomo e alle streghe, israeliane e non, le grida al ‘monatto’, sono metodi che, ce ne doliamo con Capanna, riecheggiano le abitudini delle squadracce fasciste, sono, soprattutto, espressione di una mentalità (forse inconsciamente) fascista. Il Movimento studentesco deve uscire dall’equivoco. Il linciaggio e l’isteria collettiva non fanno parte del linguaggio politico ma della patologia medica” (Avanti!, febbraio 1972). Queste parole oggi suonano forse ovvie. Ma nel clima di conformismo sinistrorso di quegli anni, che avrebbe partorito da lì a poco le BR (“i compagni che sbagliano”), non lo erano affatto. E lo si vide subito. Io, come cronista, dovevo seguire anche le vicende dell’università. Quando rimisi piede alla Statale fui circondato dai ‘katanga’ che volevano farmi la festa. Mi salvai mettendomi sotto le ali protettrici di Capanna che alla violenza era personalmente alieno anche se ebbe la grave responsabilità politica di avallarla.

Nell’ottobre del 1973 –ero già passato all’Europeo- feci per Linus una mappa dei vari gruppi della sinistra extraparlamentare che Oreste del Buono titolò “L’extra-mappa”. Li analizzavo nei contenuti. Non era un’inchiesta pregiudizialmente ostile. Cercavo di essere obbiettivo. Molti di quei ragazzi li conoscevo bene. Alla Statale fu appeso un tazebao in cui Oreste del Buono ed io venivamo bollati come ‘spie della CIA’. Oreste, uno degli uomini più intelligenti che ho conosciuto, ma vilissimo, prese subito le distanze dall’’extra-mappa’ e, soprattutto, da me. Mi arrivò un minaccioso biglietto di Oreste Scalzone e Giairo Daghini, di cui al momento non valutai la pericolosità. Ma il colpo non venne da lì. Nell’’extra-mappa’ avevo preso in giro uno dei leader del MS, Luca Cafiero “di cui nessuno sospettava le virtù rivoluzionarie, essendo conosciuto come un ‘bravo ragazzo’, un po’ ‘ciula’, che si era educato a Oxford, faceva l’assistente e girava in Triumph”. Quando Ilio Frigerio, un mio amico militante di Lotta Continua che mi aveva aiutato a compilare l’’extra-mappa’ e che conosceva i suoi polli, lesse quel passaggio mi disse: “Tu sei pazzo”. Qualche sera dopo mentre rincasavo arrivarono in quattro, con i caschi da motocicletta e le catene. Quando il capo del manipolo mi fu quasi addosso lo riconobbi al di là della visiera: era Giorgio Livrini, l’allegro ragazzo con cui sei anni prima avevo fatto il ‘guardiaporte’ alla Statale. Si era appesantito nella stazza del picchiatore. Dissi: “Giorgio…”. Vidi nei suoi occhi passare un lampo, che diceva “Questo qui adesso o lo ammazzo, perché mi ha riconosciuto, o lasciamo perdere”. Finì a tarallucci e vino. Andammo tutti e cinque da Oreste a berci un bicchiere. Ma se, per volontà del Caso, le cose non fossero andate in quel modo, sarei finito anch’io in sedia a rotelle, come in quegli anni è capitato a molti. Il quotidiano di Lotta Continua pubblicava le fotografie, gli indirizzi, i percorsi, le abitudini di fascisti o presunti tali alcuni dei quali hanno fatto quella fine che io evitai per un soffio. I sessantottini come rivoluzionari erano farlocchi ma tutt’altro che innocenti.

All’inizio però la contestazione, almeno a Milano, ebbe anche un aspetto ludico. A Capanna piaceva piuttosto lo sberleffo, come il famoso ‘lancio delle uova’ alla Scala sulle signore impellicciate e invisonate che uscivano dal teatro. Io quella sera alla manifestazione non c’ero andato, mi ci trovai in mezzo per caso girovagando per la città come voleva la mia inquietudine notturna. Sbucando da una via laterale vidi il casino, i manifestanti, la polizia. Qualunque borghese di buon senso se ne sarebbe tenuto alla larga. Arrivò invece una lucente macchina blu. Alla guida c’era un uomo con a fianco una splendida bionda. Era Gian Giacomo Feltrinelli con la seconda moglie, Sibilla Melega. Feltrinelli pensava di essere intoccabile. Ma i manifestanti non lo riconobbero. Circondarono la macchina, la tempestavano di pugni, cercando di sfondare i finestrini e di rovesciarla. “No, no, è un compagno, è Feltrinelli!” gridava inutilmente qualcuno. Intervenne la polizia. Fra quelli che cercavano di proteggere Feltrinelli e la Melega c’ero anch’io. E feci male. Due volte male. Perché nel parapiglia generale mi beccai una ginocchiata nella coscia, il classico ‘colpo della vecchia’, da un caramba e zoppicai per un paio di giorni e perché quel rivoluzionario dilettante meritava una lezione e forse non sarebbe andato a morire qualche anno dopo quando, del tutto inesperto e incapace, cercò di mettere una bomba sotto un traliccio dell’Enel a Segrate.

Più divertente è quanto successe in Largo Gemelli davanti alla Cattolica. Sulla sinistra dello spiazzo c’era una caserma dei carabinieri. Capanna, con un megafono, intimò loro di arrendersi o qualcosa di simile. Si sentirono i tre classici squilli di tromba e cominciò la carica. Ci rifugiammo in una chiesa sconsacrata, lì accanto. Ma eravamo circondati, in trappola. Capanna con altri afferrò una grande asse di legno che serviva per i restauri e la usò come maglio contro una porticina che dava sul retro. Era una scena medioevale. Nella mia immaginazione postuma lo vedo con indosso una tonaca da monaco (del resto, con quel viso umbro, ce l’aveva un po’ l’aria del monaco eretico). Sfondammo la porta e ce la filammo.

A cinquant’anni di distanza, del Sessantotto e della sua rivoluzione di cartapesta e di spranga ci siamo liberati. Dei ‘sessantottini’ no. Sia pur invecchiati formano una potente framassoneria, trasversale alla destra e alla sinistra, soprattutto nei media e nella politica, che si autotutela e sbarra il passaggio agli altri (Luigi Manconi, Adriano Sofri, Gad Lerner, Enrico Deaglio sono i primi nomi che mi vengono in mente). E se vai a scavare nelle biografie di importanti imprenditori o manager, in età, trovi che quasi tutti hanno un passato extraparlamentare. Eppoi ci sono i figli già ben piazzati. Non ce ne sbarazzeremo mai.

Massimo Fini

Millennium, ottobre 2017

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Basterebbe ascoltare El Gato Montes, la musica che accompagna l’ingresso scalpitante del toro nell’arena, per capire che gli spagnoli, catalani e non, hanno un temperamento focoso. La partita fra Spagna e Catalogna, fra Madrid e Barcellona, fra Real e Barca, fra Sergio Ramos e Gerard Piqué, non si concluderà con un pareggio.

L’indipendentismo catalano è stato bollato come un romanticismo puerile, fuor da ogni logica, ma nella vita degli uomini e dei popoli, a volte, emergono e straripano delle passioni e dei sentimenti profondi che vanno oltre la fredda razionalità. Testimone ne è Piqué, il centrale del Barca, ricco e famoso, che da questa situazione ha solo da perdere eppure è uno dei più fieri sostenitori dell’indipendentismo catalano.

Mariano Rajoy può ben minacciare di destituzione il comandante dei Mossos, la sindaca di Barcellona e tutti gli altri sindaci che domenica hanno aperto le porte ai seggi elettorali, e lo stesso Presidente della Catalogna, Puigdemont, ma se costoro, con l’appoggio della popolazione o di gran parte di essa, non ne riconoscono più l’autorità le sue scomuniche cadono nel vuoto.

Se le polizie delle due parti contrapposte, la Guardia Civil e i Mossos che dispongono di 17 mila uomini ben armati ed equipaggiati in funzione antijihadista, arrivassero a scontrarsi apertamente –ed è già mancato un pelo che ciò accadesse, tanto che Puigdemont ha chiesto che la polizia di Madrid lasci la Catalogna- si aprirebbe in terra di Spagna una sanguinosa guerra civile, non diversa, se non nelle dimensioni, da quella che nel 1936-1939 vide battersi gli uni contro gli altri i franchisti e i repubblicani. E come allora, anche se con diversi interpreti, potrebbero accorrere in terra di Spagna, questa volta in difesa della Catalogna e non della Repubblica, altri indipendentisti, non solo spagnoli, baschi, galiziani, ma anche scozzesi, gallesi, corsi, fiamminghi, slesiani, frisi e di regioni europee che si sentono oppresse dai rispettivi Stati centrali. Una sorta di ‘Union sacrée’ fra gli indipendentisti continentali in difesa di ideali e sentimenti comuni.

L’Unione europea non ha nulla da temere dalla secessione della Catalogna perché gli indipendentisti catalani hanno dichiarato di voler restare, senza se e senza ma, nella UE. E quindi giustamente nei primi giorni Bruxelles è stata silente considerando l’indipendentismo catalano una questione interna allo Stato spagnolo. Ma poiché questo silenzio è stato aspramente rimproverato da più parti adesso l’Unione europea ha preso apertamente posizione a favore del governo di Madrid. Se questa intromissione dovesse permanere, non limitandosi a dichiarazioni ma magari aggiungendovi sanzioni o invio di navi, si riproporrebbe, questa volta su larga scala, lo scontro fra centralismo autoritario e regionalismi. Allora sì si arriverebbe allo sgretolamento dell’Europa.

In ogni caso non si illudano gli autonomisti nostrani, divisi fra ‘sovranisti’ e indipendentisti, di entrare in questa partita, qualsiasi piega prenda. Ci fu un momento della prima Lega, allora fortemente secessionista, in cui Umberto Bossi minacciò di estrarre dalle fondine le pistole. Dalle fondine i leghisti, e più in generale gli italiani, possono tirar fuori solo i loro smartphone. E basterebbero le melensaggini e la lagnosità delle nostre canzoni, con maschi eternamente imploranti, così lontane dall’ardore di El Gato Montes, per farci capire che non abbiamo le palle.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 5 ottobre 2017

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Detesto gli animalisti, non gli animali che sarebbero anche delle brave bestie se non fosse per i loro padroni. Secondo quanto ha scritto sul Fatto (30.9) Silvia D’Onghia il Museo Guggenheim di New York è stato costretto a ritirare tre opere di artisti concettuali cinesi ritenute dagli animalisti una mancanza di rispetto e un’espressione di crudeltà nei confronti degli animali. La prima a scendere in campo è stata la presidente di People for the Ethical Treatment of Animals, Ingrid Newkirk. Sono seguite imponenti manifestazioni di animalisti davanti al Guggenheim, una raccolta di firme di protesta cui hanno aderito più di 700 mila persone e i soliti social con minacce più o meno larvate. Alla fine il Guggenheim è stato costretto a cedere per evitare guai peggiori (“siamo preoccupati per la sicurezza del personale, dei visitatori e degli stessi artisti”).

Se si seguisse questa linea delle ‘anime belle’ animaliste, e sempre che si ammetta che gli uomini hanno pari dignità e diritti degli animali, il Cristo della pala di Isenheim di Matthias Grunewald, esposto nello splendido chiostro di Unterlinden a Colmar, detto anche ‘il Cristo verde’ o ‘Cristo putrefatto’, dovrebbe essere scalpellato via a colpi di martello, magari insieme allo stesso chiostro che osa ospitarlo. Il Cristo di Grunewald si staglia su un cielo scurissimo, compatto come un muro di mattoni neri. La testa è caduta sul petto, la bocca spalancata in un grido gelato dalla morte, le labbra sono già molli, la pelle verde e marrone ha il colore e la rigidità delle lucertole stecchite, un rivo di sangue si è raggrumato sul costato. E’ l’immagine stessa della sofferenza dell’essere umano provocata da altri uomini. Dovrebbero essere debellati anche il Cristo morto del Mantegna disteso come su un tavolo da obitorio e tutti i San Sebastiano trafitti.

Negli Stati Uniti vivono 163 milioni tra cani e gatti che consumano una quantità di carne tale che potrebbe sfamare interi paesi dell’Africa subsahariana. E non si tratta di carne qualsiasi ma ad alto rendimento nutritivo come quella di cui ci dà notizia ogni giorno la pubblicità (Friskies and company). Un tempo, non poi tanto lontano, ai cani e ai gatti si davano i resti della tavola.

Negli ultimi cinquant’anni la produzione mondiale dei cereali di base, riso grano e mais, è aumentata rispettivamente del 30, 40 e 50 per cento e una crescita, sia pur modesta, della produzione di tali alimenti c’è stata anche nell’Africa subsahariana. Eppure gli africani, insieme a tanta altra gente del Terzo Mondo, muoiono di fame lo stesso e ne sono drammatica testimonianza le migrazioni che tanto ci spaventano. Il fatto è che in un’economia mondiale integrata, di mercato e monetaria, il cibo non va dove ce n’è bisogno, va dove c’è il denaro per acquistarlo. Va ai maiali dei ricchi americani e, in generale, al bestiame dei paesi industrializzati se è vero che il 66 % della produzione mondiale dei cereali è destinato alla alimentazione degli animali dei paesi ricchi (dati FAO). I poveri del Terzo Mondo sono costretti a vendere alle bestie occidentali il cibo che potrebbe sfamarli.

In Occidente si è arrivati a produrre e commercializzare “shampoo e linee di beauty per cani”, gli si fa indossare, oltre ai cappottini, t-shirt, cappellini, trench, bretelle, stivaletti di montone, occhiali da sole, gli si smaltano le unghie, li si irrora di eau de toilette alla vaniglia, perché non odorino da cani, di “Color Highlight” per fare le mèche al pelo striandolo di rosa, di arancione, di blu, di fucsia, di oro, li si fa massaggiare, in centri specializzati, con gli oli essenziali e si fanno loro impacchi d’argilla, li si vaporizza con spray anti-stress, li si porta dallo psicanalista da 300 dollari a seduta, si stipulano polizze vita a loro favore del valore di 200 milioni di dollari o di euro.

Scrive Ernest Hemingway in Morte nel pomeriggio: “Io sono persuaso, per esperienza e osservazione, che coloro i quali si identificano con gli animali, vale a dire gli innamorati quasi professionisti di cani e altre bestie, sono capaci di una maggiore crudeltà verso gli esseri umani, di coloro che stentano a identificarsi con gli animali”.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 3 ottobre 2017