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Martedì pomeriggio, nell’ambito dell’Assemblea dell’Onu centrata sull’approvazione del documento “Action for peacekeeping”, il presidente del Consiglio italiano Giuseppe Conte ha speso lodi sperticate per le operazioni di peacekeeping del nostro Paese.  ‘Peacekeeping’? Tutti sappiamo che con la formula ipocrita ‘peacekeeping’ si mascherano operazioni militari d’aggressione in altri Paesi. Noi abbiamo più di 30 operazioni militari all’estero che ci costano circa 1.500 milioni l’anno. Solo l’operazione Leonte in Libano può essere considerata una vera missione di peacekeeping perché le forze militari italiane si interpongono fra due comunità, hezbollah libanesi e israeliani, che altrimenti si massacrerebbero senza pietà. E’ una missione di peacekeeping quella in Afghanistan dove contribuiamo ad alimentare una guerra che dura da 17 anni? E’ un’operazione di peacekeeping quella in Kosovo dove la Nato ha realizzato una delle più grandi ‘pulizie etniche’ dei Balcani poiché i serbi che abitano in Kosovo sono scesi da 300 mila a 60 mila? E’ un’operazione di peacekeeping quella in Iraq dove siamo a supporto degli americani in funzione anti-iraniana? E’ un’operazione di peacekeeping quella in Somalia dove abbiamo contribuito ad abbattere il governo degli Shabaab che avevano riportato l’ordine e la legge in un Paese dove infuriava un conflitto civile fra i ‘signori della guerra’ locali per mettere al loro posto un governo fantoccio sostenuto dagli Usa attraverso l’aggressione della molto democratica Etiopia? Adesso in Somalia è ritornata una guerra civile che fa decine di migliaia di morti e gli Shabaab si sono uniti, giustamente, all’Isis. E’ un’operazione di peacekeeping quella in Mali dove i francesi hanno aggredito le popolazioni del nord, cioè i Tuareg, nomadi, laici? E adesso i Tuareg si sono uniti, giustamente, ai radicali islamici di quell’area. E fermiamoci qui per carità di patria.

Conte ha poi tributato grandi lodi alle militari donne che partecipano a queste operazioni. In particolare sarebbero molto utili perché, a differenza dei maschi, sanno istaurare affettuosi rapporti con i “disgraziati bambini” che abitano in quelle zone. Ma quei “disgraziati bambini” non sarebbero affatto tali se non ci fossero i militari impegnati a fare una guerra mascherata da ‘operazione di pace’. Inoltre, a parer mio, le donne non dovrebbero essere impegnate in guerra. Le donne, che danno la vita, sono sempre state contrarie a queste carneficine. Adesso fanno la guerra, ma non fanno più figli.

L’articolo 11 della Costituzione recita: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Coprire le guerre barattandole come ‘operazioni di pace’ è un modo per aggirare la Costituzione e turlupinare i cittadini che ancora vi credono. Peraltro alla Costituzione possono credere solo Travaglio e i suoi supporter, perché nella Costituzione, lo dico con il massimo rispetto per i nostri Padri fondatori, c’è tutto e il suo contrario. E’ una dichiarazione di princìpi che non ha nessuna concretezza. E infatti i pragmatici inglesi non ce l’hanno nemmeno.

Prossimamente verrà votato il ‘rifinanziamento’ delle nostre operazioni, ma io le chiamerei piuttosto occupazioni, all’estero. Alla Versiliana Luigi Di Maio, su mia sollecitazione, si è impegnato pubblicamente a ritirare il nostro contingente dall’Afghanistan, che non solo è una delle operazioni di peacekeeping che ci costa di più ma è soprattutto una delle più infami perché, sempre per servire gli americani, occupiamo un Paese dove tutta la popolazione (tranne quella corrotta a suon di dollari Usa), talebana, non talebana, anti-talebana, vuole solo che le truppe straniere se ne tornino a casa. Vedremo se Di Maio rispetterà il suo impegno. In caso contrario ‘vaffa’ ai Cinque Stelle a cui ho dato finora fin troppo credito.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 27 settembre 2018

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“Chi va dicendo in giro/che odio il mio lavoro/non sa con quanto amore mi dedico al tritolo/è quasi indipendente, ancora poche ore poi gli darò la voce, il detonatore. Il mio Pinocchio fragile parente artigianale di ordigni costruiti su scala industriale /di me non farà mai un cavaliere del lavoro/io sono d’un’altra razza: son bombarolo. Nello scendere le scale ci metto più attenzione/sarebbe imperdonabile giustiziarmi sul portone/proprio nel giorno in cui la decisione è mia sulla condanna a morte o l’amnistia. Per strada tante facce non hanno un bel colore/qui chi non terrorizza si ammala di terrore/C’è chi aspetta la pioggia per non piangere da solo/io sono d’un altro avviso son bombarolo/Intellettuali d’oggi idioti di domani ridatemi il cervello che basta alle mie mani/profeti molto acrobati della rivoluzione oggi farò da me senza lezione/Vi scoverò i nemici per voi così distanti/e dopo averli uccisi sarò fra i latitanti/ma finché li cerco io i latitanti sono loro/ho scelto un’altra scuola son bombarolo/Potere troppe volte delegato ad altre mani/sganciato e restituitoci dai tuoi aeroplani/io vengo a restituirti un po’ del tuo terrore, del tuo disordine, del tuo rumore/Così pensava forte un trentenne disperato/se non del tutto giusto quasi niente sbagliato/cercando il luogo idoneo adatto al suo tritolo/insomma il posto degno d’un bombarolo/C’è chi lo vide ridere davanti al Parlamento/aspettando l’esplosione che provasse il suo talento/c’è chi lo vide piangere un torrente di vocali/vedendo esplodere un chiosco di giornali/Ma ciò che lo ferì profondamente nell’orgoglio/fu l’immagine di lei che si sporgeva da ogni foglio/lontana dal ridicolo in cui lo lasciò solo/ma in prima pagina col bombarolo”.

Questo brano di Fabrizio De André è del 1973. Racconta la storia di un giovane impiegato (“un trentenne disperato”) che esasperato dalle violenze che lui e tanti come lui sono costretti a subire si fa la fantasia di diventare “bombarolo” e farsi giustizia da sé e per tutti, finendo nel ridicolo perché il suo massimo successo è far saltare un chiosco di giornali. La canzone è a tutt’oggi attuale, ma cosa veramente straordinaria è che è ancora più attuale oggi pur parlando di un soggetto che Fabrizio nel 1973 non poteva né conoscere e nemmeno immaginare: il kamikaze islamico, la sua psicologia, i suoi metodi, le sue ragioni. “Potere troppe volte delegato ad altre mani, sganciato e restituitoci dai tuoi aeroplani io vengo a restituirti un po’ del tuo terrore, del tuo disordine, del tuo rumore”. Nel gennaio 2015 Amedy Coulibaly fu autore di un attentato, che era l’ultimo di alcuni altri, a un supermercato kosher a Parigi provocando quattro morti. Uscirà allo sbaraglio dal supermercato consapevole di andare incontro a una morte certa. Prima però aveva lasciato una sorta di ‘testamento spirituale’ che dice così: “Tutto quello che facciamo è legittimo. Non potete attaccarci e pretendere che non rispondiamo. Voi e le vostre coalizioni sganciate bombe sui civili e sui combattenti ogni giorno. Siete voi che decidete quello che succede sulla Terra? Sulle nostre terre? No. Non possiamo lasciarvelo fare. Vi combatteremo”. Alla trasmissione di Corrado Formigli, a mio parere la migliore in circolazione, io feci mie le parole di Coulibaly. Formigli mi avvertì: “Guarda che in Francia per molto meno qualcuno si è messo in grossi guai”. “E va bene – risposi – allora arrestatemi in nome della libertà di espressione”.

Il “pinocchio fragile” ricorda gli strumenti artigianali (autocarri sulla folla, coltelli) cui i “lupi solitari” ricorrono per reagire in qualche modo alla sproporzione tecnologica in campo (“parente artigianale di ordigni costruiti su scala industriale”).

“Per strada tante facce non hanno un bel colore, qui chi non terrorizza si ammala di terrore”. Lo si vide a Torino nella scomposta, indegna, vergognosa, ributtante, abbietta fuga degli spettatori, in maggioranza giovani, che stavano guardando in Piazza San Carlo, su un grande schermo, la finale di Champions Juventus-Real Madrid, che presi dal panico nemmeno per lo scoppio di un petardo ma solo per un suo sospetto, fecero 1.500 feriti e un morto. Sì, in Occidente siamo “ammalati di terrore” perché abbiamo perso ogni vitalità e virilità.

So bene che quello fra Occidente e Isis è lo scontro di due totalitarismi speculari. Noi vogliamo imporre con la violenza, delle armi ma anche economica, il nostro modello, i nostri valori, o presunti tali, la nostra Democrazia all’universo mondo. L’Isis vuole fare lo stesso imponendo, o perlomeno cercando d’imporre, i propri valori religiosi declinati in modo estremo. Ma fra coloro che non hanno nemmeno più il coraggio di scendere sul campo e utilizzano bombardieri, droni, “ordigni costruiti su scala industriale” e uomini che ci mettono almeno il loro corpo e la loro vita, oltre che quella altrui, io sto concettualmente con questi ultimi.

Ma il brano di De André resta attuale anche per noi italiani d’oggi, giovani e non solo. C’è innanzitutto la formidabile annotazione del chiosco di giornali fatto saltare, che è una condanna senza appello alla nostra informazione. Perché, certo, il “bombarolo” finisce nel ridicolo, ma lei lo utilizza, e viene utilizzata, per comparire su tutte le pagine, e noi, oggi, potremmo aggiungere tutte le tv, tutti i media, tutti i social.

C’è poi uno j’accuse agli intellettuali che utilizzarono il Sessantotto per fare carriera proprio in quel sistema che fingevano di contestare (“profeti molto acrobati della rivoluzione”). Insomma è la lobby di Lotta Continua, per fare l’elenco dei suoi adepti ci vorrebbero troppe pagine.

Infine i giovani d’oggi potrebbero almeno accogliere il grido di rivolta (L’uomo in rivolta di Albert Camus che non è né un rivoluzionario né un cospiratore ma semplicemente uno che vuole rimanere se stesso) che sale dalla canzone di De André, senza bombe naturalmente ma anche senza rimanere inerti, inermi, sottomessi, di fronte alle violenze che quotidianamente vengono fatte su ognuno di noi.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 22 settembre 2018

 

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Nel corso di una cerimonia in onore di Oscar Luigi Scalfaro a cent’anni dalla sua nascita il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha pronunciato un discorso che è l’ultima linea di difesa dei cittadini dall’arroganza degli uomini politici, siano essi di destra, di sinistra, di centro o di qualsiasi altra parte. Ha detto il presidente della Repubblica: “Nel nostro ordinamento non esistono giudici elettivi. I magistrati traggono legittimazione e autorevolezza dal ruolo che loro affida la Costituzione. Non sono chiamati a seguire gli orientamenti elettorali, ma devono applicare la legge e le sue regole. Nessun cittadino è al di sopra delle leggi”. Un discorso tanto ovvio quanto ineccepibile in risposta a Matteo Salvini che aveva tirato fuori un antico refrain berlusconiano secondo il quale l’uomo politico poiché è stato eletto dal popolo o da una parte di esso, ha cioè un consenso, non può essere sottoposto alla legge allo stesso modo degli altri cittadini. Aveva detto il leader della Lega: “Io sono un organo dello Stato eletto dal popolo, non come i magistrati”. Il discorso di Mattarella riporta le cose al loro posto. Mi ricordo che all’epoca in cui Silvio Berlusconi tirò fuori dal suo cilindro lo strabiliante concetto che il consenso garantiva all’uomo politico la legittima possibilità di commettere reati, Marco Travaglio ed io ci divertivamo a scherzare, in privato e sui giornali, su quale dovesse essere l’entità di questo consenso per garantire l’impunità: bastavano due milioni, ce ne volevano quattro o forse otto?

Per contestare in qualche modo questo discorso ineccepibile Alessandro Sallusti deve arrampicarsi sugli specchi, come fa ormai da anni, da decenni, cioè da quando è entrato nel giro berlusconiano, mentre in precedenza era stato un ottimo professionista. Innanzitutto liquida il discorso di Mattarella in risposta all’inaudita pretesa di Salvini come “un gioco delle parti”. Questo è il classico modo berlusconiano, e non solo berlusconiano, di considerare le Istituzioni. Le Istituzioni non fanno, non possono fare, non devono fare alcun politico “gioco delle parti”, ma semplicemente rispettare e rendere effettivo il ruolo per cui esistono: il presidente della Repubblica è il supremo garante della Costituzione, l’Esecutivo governa, il Parlamento approva le leggi, la Magistratura controlla che queste leggi non siano violate e punisce, con tutte le garanzie previste dall’ordinamento, chi queste leggi invece le infrange.

Ma l’affanno di Alessandro Sallusti è ancora più evidente quando si aggrappa all’occasione in cui Mattarella ha fatto il suo discorso cioè la celebrazione di Scalfaro. Il direttore del Giornale definisce Oscar Luigi Scalfaro “il peggior presidente nella storia della Repubblica”. E lo credo bene. Scalfaro rifiutò di firmare il decreto-legge Conso che voleva depenalizzare il “finanziamento illecito dei partiti” e salvare così nel pieno delle inchieste di Mani Pulite (siamo nel marzo del 1993) i politici e i partiti che avevano ricevuto per anni quei soldi, depredando di fatto il cittadino italiano. In precedenza, nel giugno del 1992, Scalfaro aveva rimandato al mittente la pretesa di Bettino Craxi, sulle soglie di essere indagato per quella corruzione che gli costerà dieci anni di galera mai scontata ma vissuta in Tunisia sotto la protezione del dittatore Ben Ali, di fare ugualmente il presidente del Consiglio. E Craxi era il grande protettore di Silvio Berlusconi, e viceversa, cui consentì attraverso la famigerata legge Mammì di essere per anni il padrone assoluto di tutto il comparto televisivo privato italiano. Sallusti insinua poi che Scalfaro avrebbe tramato per far fuori Berlusconi attraverso pressioni sui magistrati di Mani Pulite perché gli inviassero il famoso avviso a comparire mentre presiedeva a Napoli una conferenza internazionale sulla criminalità. A parte che, viste le cose con gli occhi di oggi, è abbastanza curioso che un uomo che sarebbe stato poi definito dai Tribunali della Repubblica un “delinquente naturale” presiedesse un convegno sulla criminalità, nella mente bacata di Sallusti non ci può proprio stare che la magistratura agisca per tutelare il rispetto delle leggi, come richiamava l’altro giorno Mattarella, e non per motivi politici. Il governo Berlusconi non cadde per le supposte trame di Scalfaro, fu Umberto Bossi a farlo cadere con quello che rimane il suo miglior discorso, anche dal punto di vista stilistico, in Parlamento (“Oggi finisce qui la Prima Repubblica”. Si illudeva, il buon Umberto).

Sallusti tira fuori poi il suo asso nella manica: il “non ci sto” pronunciato da Scalfaro in televisione quando fu accusato di aver percepito in modo irregolare i 100 milioni al mese destinati al ministro degli Interni quando lo stesso Scalfaro aveva ricoperto quel dicastero. Peccato che nel 1999 Oliviero Diliberto, in quel momento ministro della Giustizia, abbia ricordato che la Procura di Roma aveva comunicato il 3 marzo 1994 che “nei confronti dell’onorevole Scalfaro non sussiste alcun elemento di fatto dal quale emerga un uso non istituzionale dei fondi”.

Alessandro Sallusti deve rendersi conto che il ventennio berlusconiano della guerra senza esclusione di colpi alla Magistratura è definitivamente tramontato. E deve smetterla di fare come uno scadente illusionista il gioco delle tre tavolette contando sulla smemoratezza degli italiani. Perché alcuni testimoni di quel tempo, quorum ego, sono per buona o mala sorte ancora vivi. E anche che il progetto di legge, di matrice Cinque Stelle, secondo il quale le amministrazioni dello Stato non devono fornire la pubblicità ai giornali non è diretto al suo Giornale come scrive, facendo la vittima, nell’editoriale del 12 settembre, ma a tutti i giornali perché non c’è nessuna ragione per la quale lo Stato, cioè noi cittadini si sia chiamati a pagare pubblicazioni private. I giornali si mantengano da soli, se ce la fanno. Ma visto come sono fatti e la malafede di cui sono intrisi, di cui il Giornale di Sallusti può essere considerato il vessillifero, dubito molto che ce la facciano.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 15 settembre 2018