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Ora c’è un profluvio di ‘mea culpa’ di molti dei protagonisti della cosiddetta ‘rivoluzione digitale’ per i danni sociali e psicologici che ha provocato sulla comunità umana, dall’ex presidente di Facebook, Sean Parker (“Facebook e gli altri hanno costruito il loro successo sullo sfruttamento della vulnerabilità della psicologia umana”) a Roger McNamee (“Ho investito e guadagnato molto con Google e Facebook nei primi anni, ma oggi mi rendo conto che, come nel caso del gioco d’azzardo, della nicotina, dell’alcol e dell’eroina, Facebook e Google producono felicità di breve periodo con pesanti conseguenze negative nel lungo periodo”) a moltissimi altri che hanno abbandonato il loro ruolo in questa rivoluzione o che ancora ci restano ma con fortissime perplessità.

Credo alla sincerità di questi ‘mea culpa’ perché le conseguenze devastanti della ‘rivoluzione digitale’ potevano essere previste solo da chi avesse avuto un occhio che guardava molto lontano. Quando l’uomo introduce nella sua vita innovazioni che lì per lì sembrano formidabili non è in grado di prevedere le variabili che mette in circolo. Una cosa però è certa: una volta avviati questi processi diventano inarrestabili e irreversibili. Se si inventa la pallottola non ci si può meravigliare se poi si arriva al missile e oltre. Adam Smith considerava l’invenzione della banconota a livello di quella della macchina a vapore. Ma portando il denaro alla sua vera essenza di astrazione concettuale si arriva, anche attraverso l’ulteriore smaterializzazione del digitale, a quella finanziarizzazione della società globale che oggi ci sta travolgendo.

Ma se ho sempre nutrito molti dubbi sulla Scienza tecnologicamente applicata, adesso inizio ad averne anche sulla conoscenza in sé. La conoscenza è consustanziale all’uomo, ciò che lo distingue dagli altri animali del Creato. E’ la sua gloria ma insieme anche la sua tragedia. E’ un dono bifido. Non per nulla nella leggenda biblica, quando Adamo ed Eva vivevano felicemente nel Paradiso Terrestre, Dio proibì loro, per tutelarli, di mangiare la mela della conoscenza. Ma mentre quel tontolone di Adamo si sarebbe accontentato di tutti gli altri frutti del Paradiso, Eva, la curiosa, infranse la proibizione (Ma è mai possibile, porca miseria, che con tutti i frutti che c’erano Eva andasse a mettere i suoi dentini proprio sulla mela dell’Albero della Conoscenza? Ma questo è un altro discorso). Nietzsche la dice in un altro modo: “In un angolo remoto dell’universo scintillante e diffuso attraverso infiniti sistemi solari c’era una volta un astro, su cui animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e più menzognero della storia del mondo”.

Sono convinto che l’ignoranza sia preferibile alla conoscenza, perlomeno a quella ad alti livelli. Galileo dimostrò sulle orme di Copernico e peraltro già dei filosofi e matematici greci, Pitagora e Filolao su tutti, che era la Terra a girare intorno al Sole. Magellano, confortato da queste teorie, circumnavigò il mondo e provò in concreto la sfericità del pianeta, arrivando dalla Spagna alla mitica Isola delle Spezie. Per lui fu una meravigliosa avventura anche se conclusa nel più beffardo dei modi. Ma che cosa cambiava per il comune mortale sapere che era la Terra a girare attorno al Sole e non viceversa? Nulla. O meglio: cambiava in peggio e in due sensi. Da una parte l’uomo perdeva la convinzione di essere il centro dell’Universo e la stessa illusione di Dio, dall’altra, essendo il solo essere cosciente, veniva preso da un hybris prometeica. Per questo il cardinale Bellarmino, che sapeva benissimo, come del resto tutte le élites intellettuali dell’epoca, che Galileo diceva il vero, gli chiedeva di proseguire pure nei suoi studi ma di non divulgare le sue ricerche al di fuori di quelle élites. Per due motivi: perché questo capovolgimento copernicano avrebbe stressato le centinaia di milioni di uomini che avevano fin lì vissuto sulla concezione tolemaica-aristotelica dell’universo e perché, pensa Bellarmino, una conoscenza matematica basata sulle strutture oggettive del mondo eguaglia quella divina e un uomo che si sente uguale a Dio finisce fatalmente per sostituirlo e per perdere ogni senso del limite.

E’ quanto stiamo sperimentando ora sulla nostra pelle e la ‘rivoluzione digitale’ non ne è che un aspetto. Bellarmino, che guardava molto lontano, perse la partita. Ma quel lontano ora è qui, ci avvolge da tutte le parti e ci perderà. Questo era ed è il Destino dell’uomo e di tutte le cose. Perché, come scrive Eliot, “in ogni inizio è contenuta la sua fine”.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 22 dicembre 2017

 

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Secondo un recente orientamento della psichiatria infantile il bambino discolo è un malato che va curato e normalizzato. Ci sarebbe invece da preoccuparsi del contrario. L’essere discoli è una manifestazione di vivacità, di vitalità, di energia, tipica dell’età infantile. Un vecchio non è ‘discolo’ non solo e non tanto perché ha imparato le regole ma perché gli mancano le energie per esserlo.

E’ tipico di questa società totalitaria e totalizzante la pretesa di voler omologare tutto a uno standard comune, che deve valere per tutti. Ogni comportamento che si stacchi da questi standard è considerato una ‘devianza’ da curare, mettendo in campo psichiatri, psicologi, ‘educatori’ di ogni genere e specie. Dobbiamo essere tutti bambini disciplinati, adulti disciplinati, come la produzione e il consumo comandano. Aveva visto giusto Aldous Huxley quando ne Il Mondo nuovo, che è del 1932, immaginava una società di amebe anestetizzate dal soma, una sorta di droga, tipo betel, che masticavano giorno e notte. Se a soma sostituite consumo la previsione di Huxley, di quasi un secolo fa, si rivela esatta.

Bisognerebbe fare una ricerca in proposito ma sono convinto che buona parte dei geni, da bambini, ma anche da adolescenti, sono stati discoli, ribelli o sbadati, e da adulti spesso stravaganti. Einstein, distratto dai suoi pensieri, al collo invece di allacciarvi la cravatta lo faceva con un calzino.

L’esperienza naturalmente non fa sondaggio, ma avendo frequentato tre licei classici di Milano, Parini, Berchet, Carducci, ed essendone stato espulso da un paio, ho potuto notare che dei ‘primi della classe’, disciplinati, obbedienti al prof, timorati di Dio, quasi nessuno ha poi combinato qualcosa nella vita, mentre i ribelli, non tutti naturalmente, sono riusciti meglio.

Questa è una società che tende a imporre, in modo diretto o indiretto e subdolo, tutta una serie di divieti. Non dobbiamo fumare perché ci fa male ma anche perché se poi ci ammaliamo le spese sono a carico del Servizio sanitario nazionale che peraltro i fumatori pagano, come tutti, ma con l’aggiunta di consistenti tasse indirette sui pacchetti di sigarette. Per gli stessi motivi non dovremmo nemmeno giocare d’azzardo, anche se una pubblicità ossessiva, martellante, ci spinge al gioco on line, il più solipsistico e masturbatorio di tutti i giochi, il modo più solitario di passare il tempo insieme a quello consumato al computer. Ma, anche qui, lo Stato ha, come dicono a Genova, “la sua convenienza” (‘business is business’ ed è veramente l’unica cosa intoccabile). Probabilmente, seguendo la stessa logica che fa del terrorismo anche sul fumo attivo, e che lede il fondamentale diritto per cui ognuno è libero di fare del proprio corpo e della propria salute ciò che più gli pare e piace, dovremmo anche scopare con moderazione, per non caricare il Servizio sanitario nazionale degli infarti e degli ictus che possono colpire chi si dà, in modo passionale o, per l’uomo, spinto dall’ansia di prestazione, a questa attività ludica. Sempre seguendo il terrorismo diagnostico dovremmo auscultarci, palpeggiarci ogni giorno, fare una mezza dozzina di esami clinici l’anno. Il malato è un criminale. Perché costa. Dobbiamo vivere da vecchi fin da giovani. Lasciamo che almeno i bambini possano fare i bambini.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 19 dicembre 2017

 

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Il Parlamento europeo ha consegnato l’altro giorno il prestigioso Premio per la libertà di espressione, intitolato a Sacharov il notissimo dissidente durante gli anni dell’Urss, all’opposizione democratica venezuelana.

Credo che le grandi Istituzioni internazionali, Nobel compreso, dovrebbero essere molto più caute nell’assegnare questi Premi. Nel 1991 Aung San Suu Kyi fu insignita del Premio Nobel per la Pace per la sua opposizione alla dittatura dei militari birmani. Arrivata al potere la democratica Aung San Suu Kyi ha condotto, e ancora conduce, una spietata repressione nei confronti della minoranza musulmana dei Rohingya, costringendone 600mila a fuggire in Bangladesh. Ieri Medici senza Frontiere ha denunciato che fra agosto e settembre sono stati uccisi 6700 Rohingya fra cui 730 bambini sotto i 5 anni. Naturalmente l’accusa è di terrorismo islamico che è diventato un passepartout per ogni sorta di repressione e di violenze (mi viene difficile pensare che un bambino di 5 anni possa essere un terrorista). Dopo qualche mese che la democratica Aung San Suu Kyi aveva assunto il potere chiesi al mio caro amico Franco Nerozzi che dirige una onlus, Popoli, che difende i diritti di un’altra minoranza da sempre perseguitata, i Karen, se la situazione fosse migliorata. Rispose: “Migliorata? E’ peggiorata. Di molto”.

A proposito del Premio Sacharov assegnato all’opposizione democratica venezuelana, l’eurodeputata tedesca Gabi Zimmer, socialista, ha affermato: “Assegnare il Premio ad un partito politico, come nel caso dell’opposizione democratica, significa intervenire nella situazione interna del Venezuela e non è questo lo spirito del Premio Sacharov”.

Nicolàs Maduro non è un dittatore (anche se, forse, aspira a diventarlo) è al massimo un autocrate tipo Putin. Nella repressione dell’opposizione venezuelana, cui la stampa occidentale a dato ampio risalto, come ampio risalto dà ad ogni notizia negativa che provenga dal Venezuela, sono morte, negli scontri delle diverse fazioni (contestatori di Maduro e sostenitori di Maduro) un centinaio di persone, ma solo una parte appartiene all’opposizione, l’altra, fra cui cinque poliziotti, ai sostenitori di Maduro.

I Premi Nobel per la Pace, o altri consimili, si sono quasi sempre rivelati delle dichiarazioni di guerra. Maduro non ha preso il potere con un colpo di Stato, al contrario del generale egiziano Abd al-Fattah al-Sisi (molto corteggiato dagli europei, dagli americani e persino da quelle anime belle dei turchi di Erdogan) che nel luglio del 2013 rovesciò con un golpe militare il governo dei Fratelli Musulmani, guidati dall’avvocato Mohamed Morsi, che avevano vinto le prime elezioni libere di quel Paese dopo decenni di dittatura. Ammesso che Nicolàs Maduro sia direttamente responsabile degli oppositori morti (comunque ben al di sotto dei cento) ebbene Al Sisi di vittime ne ha fatte più di 2500, altre 2500 le ha affossate nel gorgo dei desaparecidos (stime assolutamente al ribasso) ha abolito la libertà di stampa e ogni altro diritto civile. Perché allora questa concentrazione di attenzione sul regime venezuelano e nulla su quello del tutto illegittimo e molto più sanguinario di Al Sisi? La ragione è sempre la stessa ed è quella che denunciavo in un articolo sul Fatto del 15 agosto di quest’anno: il socialismo sia pure imperfetto come quello di Maduro, come quello di Slobodan Milosevic portato davanti al solito Tribunale internazionale dell’Aia, non ha diritto di cittadinanza nel totalitario universo democratico. Ce l’ha il comunismo cinese, solo perché non è più comunismo ma una dittatura a libero mercato, cioè, tecnicamente, un fascismo.

Se le Democrazie continueranno su questo passo di aggressioni e di violenze per ogni dove (Serbia 1999, Afghanistan 2001, Iraq 2003, Somalia 2006/2007, Libia 2011, Mali settentrionale 2013 e fra poco, forse, Venezuela) qualcuno comincerà a chiedersi se sia stato davvero un bene che abbiano vinto la seconda guerra mondiale.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 15 dicembre 2017