Noi lo avevamo scritto sul Fatto del 15 agosto 2017: “Il prossimo obbiettivo è Nicolàs Maduro”. Ieri, dopo che il leader dell’opposizione parlamentare venezuelana Juan Guaidò si era autoproclamato presidente del Paese, Donald Trump è subito intervenuto non solo incoraggiando l’opposizione ma pronunciando la sinistra frase “tutte le opzioni sono sul tavolo”. Il che significa: intervento militare. Del resto erano mesi che altri importanti esponenti del governo americano, da Mike Pompeo a James Mattis, auspicavano un intervento armato in Venezuela in nome dei “diritti umani”, che in quel Paese sarebbero violati, e sobillando le forze armate venezuelane perché si ribellassero a Maduro. Quando sento parlare di “diritti umani” metto, metaforicamente, mano alla pistola. Perché, come la storia recente insegna, vuol dire che si sta per aggredire qualcuno.
Il metodo per eliminare leader sgraditi all’Impero americano, in genere socialisti, come per esempio Slobodan Milosevic, è sempre lo stesso, con qualche variante: prima si comminano sanzioni al Paese indesiderato, lo si strangola economicamente, nasce così uno scontento popolare e con esso un’opposizione che, sempre incoraggiata da fuori, si dà a manifestazioni più o meno violente. Prima di quelli degli ultimi giorni gli scontri fra sostenitori dell’opposizione e sostenitori di Maduro avevano causato in tutto 147 morti, equamente divisi fra le due fazioni. Si badi bene: non erano stati scontri con polizia o esercito, ma scontri fra fazioni politiche opposte. La reazione del governo venezuelano non deve essere poi, a differenza di quello che avviene nelle dittature propriamente dette o mascherate come quella di Putin in Russia, così truce se il leader dell’opposizione Juan Guaidò, sequestrato qualche giorno fa mentre era in auto con la moglie, dai servizi segreti venezuelani, è stato liberato dopo poche ore e il governo ha affermato che “è stata un’iniziativa non autorizzata” e che punirà i responsabili.
Maduro è stato rieletto per la seconda volta a maggio del 2018, col 70% dei consensi, e si è reinsediato due settimane fa. L’opposizione sostiene che si sia trattato di elezioni taroccate, perché in lizza non c’erano validi oppositori di Maduro, perché si sospetta di gravi brogli e perché sarebbero stati violati alcuni articoli della Costituzione venezuelana che danno potere di intervento al presidente dell’Assemblea nazionale, il Parlamento,” in caso di necessità e vuoto di potere”. Che ci sia un vuoto di potere in Venezuela ci par dubbio, quello che è vero è che Maduro ha svuotato il Parlamento delle sue funzioni. Se di golpe si tratta è un golpe istituzionale (alla Napolitano), non un golpe con le armi. Il golpe con le armi, cioè un golpe propriamente detto, lo ha realizzato Abd al-Fattah al-Sisi rovesciando nel luglio 2013 il governo dei Fratelli Musulmani, usciti vincitore, con tutti i crismi della legalità, dalle prime elezioni libere in Egitto, mettendo in galera, non per due ore ma a vita, il presidente legittimamente eletto Mohamed Morsi e tutta la dirigenza dei Fratelli, assassinando in varie riprese 2.500 oppositori (ma potrebbero essere molti di più perché dall’Egitto non viene, e non viene ripresa, alcuna notizia) e facendone sparire altri 2.500 che, anche in questo caso, e per le stesse ragioni, potrebbero essere molti di più. Eppure nella cosiddetta comunità internazionale, una gran parte della quale ora si scandalizza e si scaglia contro Maduro definendolo “un usurpatore”, non si levò una sola protesta. Una disparità di trattamento che salta agli occhi di tutti, almeno per chi li abbia conservati.
Il fatto è che quello di Maduro è un socialismo, un socialismo largamente imperfetto, ma un socialismo, che ha due obbiettivi di fondo: il tentativo di una maggior perequazione sociale in un Paese dove un migliaio di famiglie detiene la maggior parte della ricchezza e tutto il resto della popolazione vive in povertà, e il tentativo di prendere le distanze dall’inquietante vicino americano. È la cosiddetta ‘linea bolivariana’, che fu ripresa da Chavez, il predecessore di Maduro, e di cui Maduro è il continuatore. Linea che per parecchi anni ha avuto un certo successo coinvolgendo molti altri Paesi sudamericani. Ma adesso la situazione è cambiata. Perché molti di questi Paesi, ad eccezione della Bolivia e del Messico, sono governati dalle destre e in qualche caso da destre estreme, vedi Bolsonaro.
Se una previsione l’avevo azzeccata, un’altra l’ho sbagliata. Avevo scritto che con Trump non ci sarebbero più state guerre ideologiche, ma solo economiche. A quanto pare –speriamo di sbagliarci e che The Donald torni sui suoi passi- non è così.
Due osservazioni per finire. Fa ridere, fa ridere amaro, che gli Stati Uniti si scaglino contro la presunta ‘dittatura’ di Maduro quando per decenni hanno sostenuto i più feroci e sanguinari dittatori sudamericani, da Noriega a Somoza a Batista a Pinochet solo per fare i primi nomi che ci vengono in mente.
Certi esponenti europei, da Tusk a Tajani, hanno affermato che in Venezuela alcuni oppositori sono in galera, sono quindi “prigionieri politici”, una situazione inaccettabile. Ma in Spagna Puigdemont, che dopo un referendum si era proclamato Presidente della Catalogna, senza che ci fosse stata alcuna violenza da parte dell’Indipendentismo catalano, è stato costretto all’esilio, mentre altri esponenti del governo catalano, l’ex vicepresidente Oriol Junqueras, Jordi Turull, Josep Rull, Carles Mundò, Raul Romeva, Joaquim Forn, Meritxell Borras e Dolors Bassa, sono in galera da più di un anno con l’accusa di “sedizione”. Questi sì veri detenuti politici nel mezzo della democratica Europa.
Due pesi e due misure. Come al solito, come sempre. Maduro è un golpista, Al Sisi no, gli oppositori di Maduro, dopo manifestazioni violente, sono “detenuti politici”, Junqueras e gli altri, dopo un referendum, e senza violenze, sì. Ma ora, per usare un linguaggio feltriano, ci siamo proprio rotti i coglioni. Saremo probabilmente i soli, in un panorama occidentale tutto allineato all’imperialismo americano, che in Sudamerica si riassume con la famosa frase di Henry Kissinger dedicata al Brasile, definito “satellite privilegiato degli Usa”, a difendere Nicolàs Maduro e quel che resta del socialismo, che non è il comunismo, internazionale.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 25 gennaio 2019
Possibile che in Italia si abbia così poco spirito nazionale dall’interpretare ogni azione del nostro governo come propaganda senza badare ai fatti? Nell’attuale scontro fra Italia e Francia il governo italiano ha perfettamente ragione. Quando Luigi Di Maio afferma “alcuni Paesi europei con in testa la Francia non hanno mai smesso di colonizzare decine di Stati africani, se la Francia non avesse le colonie africane, che sta impoverendo, sarebbe la 15/a forza economica internazionale e invece è tra le prime per quello che sta combinando in Africa, l’Ue dovrebbe sanzionare queste nazioni come la Francia che stanno impoverendo questi posti, è necessario affrontare il problema anche all’Onu”, dice una pura verità. La Francia è l’ultimo Paese europeo ad aver conservato una mentalità vetero coloniale. Se prendiamo Le Monde, che pur è un giornale di sinistra, troviamo pagine e pagine dedicate ai Paesi africani e tutte orientate, come faceva il vecchio colonialismo, a vedere la Francia come benefattore e non come oppressore quale effettivamente è. Del resto, per restare alle cose più recenti, è stata la Francia, prima ancora degli Stati Uniti, ed è tutto dire, ad aggredire la Libia di Muammar Gheddafi per la sola ragione che voleva rafforzare la sua posizione economica in Libia ai danni dell’Italia che purtroppo si accodò a quella sciagurata operazione di cui il nostro presidente del Consiglio di allora, Silvio Berlusconi, non era affatto convinto ma ebbe la debolezza di subirla.
La Francia ha in Africa forze militari un po’ ovunque, senza che, in quasi tutti i casi, la presenza di queste truppe sia stata autorizzata dall’Onu e nemmeno dalla Nato. Prendiamo un esempio fra i tanti, che abbiamo già fatto ma che è bene riprendere (Mali: la balla del terrorismo, 20.1.2013; Mali, l’Occidente ha reso globale una guerra locale, 22.11.2015; La spocchia di Parigi è un problema europeo, 17.6.2018, pubblicati tutti sul Fatto). Nel Mali del sud, con capitale Bamako, la Francia aveva pieno controllo della situazione attraverso il solito presidente fantoccio Ibrahim Boubacar Keita. Ma non gli bastava. Così pochi anni fa aggredì il Mali del nord abitato da pacifici e laici Tuareg (fra i Tuareg quando una coppia si separa è il marito a dover abbandonare la tenda coniugale e tornare in quella dei genitori) che praticavano, come han sempre fatto, il nomadismo senza peraltro debordare in quello del Sud sotto controllo francese. Il risultato di questa brillante operazione è che i Tuareg, in ovvia inferiorità militare, per difendersi si sono alleati alle componenti islamiche radicali dell’area e così è nata una guerra e, con essa, un’emigrazione maliana che prima non c’era mai stata.
Ma il Mali è solo un esempio dell’oppressiva presenza francese in Africa Nera. Naturalmente –e qui ha ancora ragione Di Maio quando parla di “alcuni paesi europei”- la questione riguarda anche altri Stati del Vecchio Continente che sono presenti nell’Africa subsahariana pur senza manifestare la mentalità vetero coloniale dei francesi (Di Maio ha solo torto quando attribuisce una grande importanza al franco CFA, che ha corso legale in quattordici Paesi africani, che è una questione marginale che sottolinea solo la mentalità vetero coloniale dei francesi). La questione dello straordinario impoverimento dei Paesi dell’Africa Nera ha radici ben più profonde e sono quelle indicate da Thomas Sankara, allora Presidente del Burkina Faso, in un discorso del 1987 all’’assemblea dei Paesi non allineati’, OUA: “Il debito è la nuova forma di colonialismo. I vecchi colonizzatori si sono trasformati in tecnici dell’aiuto umanitario, ma sarebbe meglio chiamarli tecnici dell’assassinio. Sono stati loro a proporci i canali di finanziamento, i finanziatori, dicendoci che erano le cose giuste da fare per far decollare lo sviluppo del nostro Paese, la crescita del nostro popolo e il suo benessere…Hanno fatto in modo che l’Africa, il suo sviluppo e la sua crescita obbediscano a delle norme, a degli interessi che le sono totalmente estranei”. In estrema sintesi: il violento ingresso del modello occidentale ha scardinato le economie (economie di sussistenza: autoproduzione e autoconsumo) su cui quelle popolazioni avevano vissuto e a volte anche prosperato per secoli e millenni causando la miseria che oggi porta a quelle migrazioni da cui siamo tanto spaventati quanto responsabili, Italia compresa. E anche di questa situazione avevo dato conto, con largo anticipo, in un libro di notevole successo, Il Vizio oscuro dell’Occidente, che è del 2002, in cui si dimostra, dati alla mano, che l’Africa Nera era stata alimentarmente autosufficiente fino al 1960, quando non era ancora un mercato ritenuto interessante dagli occidentali (adesso ci si è messa di mezzo, in un modo un po’ più intelligente e soft, anche la Cina). Poiché gli abitanti dell’Africa Nera sono 720 milioni (escludendo il Sud Africa che fa parte a sé) è chiaro che il loro passaggio da poveri a miserabili, ridotti alla fame, resi estranei alla propria cultura, porterà a migrazioni di cui quelle a cui assistiamo oggi sono solo un pallido fantasma. Possiamo fermarli sulle coste libiche, ma li costringiamo a vivere in un inferno da noi stessi causato con l’aggressione a Gheddafi che teneva sotto controllo la situazione. Possiamo cercare di fermarli -è l’ipotesi prima di Minniti e adesso di Salvini- ai confini del Niger o di altri Paesi africani ma così li recludiamo in un altro inferno che è quello della loro miseria (che è cosa sociologicamente diversa dalla povertà) e della loro fame. Ricordiamoci che l’80% delle migrazioni provengono dall’Africa subsahariana e solo il 20% da guerre che prima o poi potrebbero anche finire. E quindi se un giorno saremo sommersi dalle popolazioni nere, come pare inevitabile, si potrà solo dire “chi è causa del suo mal pianga se stesso”.
Ma per ritornare all’attuale conflitto diplomatico fra Italia e Francia causato dalle dichiarazioni di Di Maio e di Di Battista cerchiamo di ritrovare un poco di quello spirito nazionale che c’è rimasto e rimandiamo al mittente, ancora attaccato a una grandeur ridicola quanto storicamente inesistente, le sue arroganti affermazioni e le sue mosse (“irresponsabili”, convocazione dell’ambasciatrice italiana a Parigi). Di Maio ha detto una verità, anche se solo parziale.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 23 gennaio 2019
Mentre i più importanti giornali erano impegnati a scovare anche il più piccolo granello di sabbia nell’ingranaggio dell’alleanza fra Cinque Stelle e Lega e poi a fare le pulci al ‘decretone’ del governo, di cui Conte, Di Maio, Salvini si dimostravano giustamente orgogliosi, a me il fatto più grave, e anche impressionante, è sembrato l’incriminazione di 15 magistrati calabresi (15) da parte della Procura di Salerno per reati che vanno dalla corruzione alla corruzione in atti giudiziari al favoreggiamento mafioso.
Durante il Fascismo la Magistratura ordinaria fu incorruttibile. Tanto che il Regime dovette inventarsi i Tribunali Speciali per giudicare i reati politici, soprattutto quelli di opinione di cui il Codice di Alfredo Rocco, che era un grande giurista ma pur sempre un fascista, era zeppo. Nel dopoguerra, dopo gli anni dello slancio della ricostruzione e una classe politica che si era temprata in quel conflitto, cominciò a insinuarsi nelle nostre élites, chiamiamole così, il tarlo della corruzione. E la Magistratura, o almeno una parte di essa, fu connivente. Il Tribunale di Roma veniva chiamato “il porto delle nebbie” per la sua abilità nell’insabbiare le inchieste che avrebbero potuto rivelarsi insidiose per ‘lorsignori’. E a Milano, col Procuratore generale Carmelo Spagnuolo, gran frequentatore di bische, le cose non andavano tanto meglio. Ai Procuratori generali o ai Procuratori capo era facile tagliare le unghie ai Pm fastidiosi: avocavano a sé le inchieste e non se ne sapeva più nulla. Successivamente, con il Pci che si era consociato col Potere, divenne praticamente impossibile indagare sulla corruzione dilagante e sistematica fra i politici e gli imprenditori. Perché mancava l’opposizione.
Il crollo dell’Urss, nel 1989, cambiò completamente la prospettiva. Il pericolo sovietico non esisteva più, la DC divenne meno indispensabile in funzione anticomunista (il “turatevi il naso” di Montanelli) e molti voti in libera uscita andarono alla Lega, che sarà stata anche ‘brutta, sporca e cattiva’ (per me non lo era affatto) ma era una vera forza di opposizione con la quale bisognava fare i conti e non si poteva più dilapidare allegramente, a proprio uso e consumo, il denaro dei cittadini (Giuliano Cazzola ha calcolato che la corruzione fino al 1992 ci è costata circa un quarto dell’attuale debito pubblico, stima abbondantemente per difetto perché tiene conto solo dei reati corruttivi scoperti che sono in genere, come per tutti gli altri reati, un decimo di quelli effettivamente commessi). La presenza della Lega liberò le mani alla Magistratura e nacque Mani Pulite con lo straordinario pool dei Pm di Milano, alcuni dei quali ricordati da Marco Travaglio nel suo editoriale del 17/1. Non capisco però perché Marco si sia dimenticato nei polpastrelli Antonio Di Pietro che di Mani Pulite fu il motore e che nel biennio 1992-94 veniva osannato da tutti, soprattutto da chi aveva la coda di paglia (famoso e imperituro, mi dispiace per lui, rimane un editoriale del direttore del Corriere, Paolo Mieli, intitolato “Dieci domande a Tonino” come se ci avesse mangiato insieme, fin da ragazzo, a Montenero di Bisaccia). Io distinguo le persone fra quelle che hanno una percezione positiva di Di Pietro e quelle che lo hanno odiato fin dall’inizio (“Di Pietro è un uomo che mi fa orrore”, Berlusconi) e tuttora lo odiano, perché si può star certi, o quasi, che questi ultimi hanno qualcosa di losco da nascondere. Parlo naturalmente del Di Pietro magistrato, il politico, ingenuo, pare aver smarrito quella furbizia contadina (“che ci azzecca?”) che gli permise a suo tempo di mettere nel sacco gli indagati e il loro truffaldino politichese. Mi spiace comunque che oggi i magistrati o gli ex magistrati di Mani Pulite, con l’eccezione di quel gran signore che è Francesco Saverio Borrelli, abbiano isolato umanamente Di Pietro. Mi pare una brutta storia di razzismo sociale.
Passarono pochissimi anni e, con tutti i testimoni del tempo ancora in vita, ‘lorsignori’, sostenuti da quasi tutta la stampa, riuscirono, con un gioco delle tre tavolette, a capovolgere le carte in tavola: i veri colpevoli divennero i giudici, le vittime i ladri, assurti, spesso, a giudici dei loro giudici.
Era ovvio che con un simile, incoraggiante, precedente la corruzione esplodesse coinvolgendo tutti i settori della vita pubblica e privata, normali cittadini compresi. Ma se le inchieste della Procura di Salerno dovessero essere confermate l’effetto sarebbe devastante. Una corruzione così ampia all’interno della Magistratura, massimo organo di garanzia in uno Stato di diritto, minerebbe alla radice la fiducia dei cittadini di essere uguali almeno davanti alla legge e significherebbe che questo Paese è marcio fino al midollo. E si potrebbe dire, parafrasando un antico e famoso titolo dell’Espresso: “Magistratura corrotta, Nazione infetta”.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 19 gennaio 2019