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E il Papa finalmente lo ha detto, chiaro e tondo: “Non esiste una cultura superiore a un’altra”. Parlava a Temuco nella regione cilena della Araucanìa dove vivono i Mapuche (letteralmente “il popolo della Terra”) i soli nativi del Sudamerica sopravvissuti alla colonizzazione europea e alle violenze di Stato. L’occasione era quindi propizia e Francesco l’ha colta al volo. Ma a ben guardare il discorso del Papa va ben oltre la sorte dei nativi sudamericani e la storia della violenta colonizzazione europea cui parteciparono i pii missionari. Francesco parla dello ieri ma anche, e forse soprattutto, per parlare dell’oggi. Lasciando infatti stare la colonizzazione dei secoli passati sono almeno trent’anni che l’intero Occidente a guida americana si bea d’essere una “cultura superiore” che è il modo attuale di declinare il razzismo, nei suoi vari aspetti, poiché quello classico, dopo Hitler, non è più praticabile. E’ in nome di questa “cultura superiore” che da trent’anni aggrediamo, con la violenza delle armi o dell’economia, altri popoli che hanno vicende storiche diverse dalla nostra e culture che non vogliono omologarsi alla nostra. Tutto ciò, naturalmente, è addobbato con i buoni sentimenti, con la difesa dei cosiddetti “diritti umani” che noi per primi calpestiamo quando irrompiamo in realtà diverse. Quando sento parlare di “diritti umani” metto mano alla pistola perché vuol dire che si sta per aggredire qualcuno. Debbo rifare la filastrocca? La rifaccio, anche se Travaglio sostiene che repetita non iuvant: Serbia (1999), Afghanistan (2001 e, per ora, 2018), Iraq (2003), Somalia (2006/2007), Libia (2011). Ma in questo discorso rientrano anche le decennali sanzioni all’Iran che si permette di essere una teocrazia e non una democrazia, il Venezuela di Chavez e ora di Maduro che con tutta probabilità è il prossimo obbiettivo del nostro imperialismo, e anche la Corea del Nord che osa, nientemeno, essere comunista. Il Papa infatti dice un’altra cosa che è un corollario dell’attacco alla ‘cultura superiore’: “unità non significa un’uniformità asfissiante che nasce dal predominio del più forte”. E’ un attacco diretto e senza remore alla globalizzazione e al modello di sviluppo occidentale che, come dice Francesco, sta asfissiando tutti i popoli del mondo, compreso il nostro.

Ma il Papa dice anche una terza cosa che si collega alle prime due: “non c’è sviluppo in un popolo che volta le spalle alla terra”. Non è un discorso puramente ecologico, e in questo senso quasi banale, ma riguarda il ritorno alla terra, all’agricoltura, dove risiede il nostro futuro semmai, continuando di questo passo, avremo ancora un futuro. Perché è dalla terra che noi traiamo il cibo, non dal cemento, non dal carbone, non dal petrolio, non dall’industria, non dalla finanza.

Questo profondo discorso di Papa Francesco è stato praticamente ignorato o messo sottordine da tutti i giornali, compreso, ahinoi, il nostro. Disturberebbe il manovratore. Il titolo di testa del Corriere della Sera di ieri è centrato su questa fondamentale questione: “Primarie 5 Stelle, liti e ricorsi”. Del discorso del Papa parla sì, e in termini corretti (è l’unico a farlo) ma solo a pagina 13 per la firma di Gian Guido Vecchi. La Repubblica, il più laido dei giornali che si dicono laici, lo fa a pagina 15 ma soffermandosi solo sugli aspetti pietistici del discorso papale. Solo Avvenire coglie la polpa del discorso del Pontefice a Temuco, titolando: “Non c’è una cultura superiore all’altra”.

E così in questa Italia degradata e provinciale, anche giornalisticamente (probabilmente il discorso di Francesco avrebbe avuto un diverso rilievo se avesse parlato dalle logge Vaticane) a noi che ci definiamo degli ‘onesti pagani’ per leggere qualcosa che abbia un senso, che dia una direzione sul nostro presente e sul nostro futuro, ci tocca comprare, d’ora in poi, Avvenire, Famiglia Cristiana e anche L’Osservatore Romano.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 19 gennaio 2017

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Dopo le recenti e ripetute violenze di baby gang formate da adolescenti, preadolescenti e quasi-bambini ai danni di persone indifese o in chiaro stato di inferiorità, Forza Italia ha proposto di abbassare l’età della ‘non punibilità’ da 14 a 12 anni. Sono d’accordo e andrei anche più in là: la porterei a 10. Oggi un bambino di dieci anni non è un bambino della stessa età di altri tempi. Grazie, o a causa, dei nuovi media ha una maggiore consapevolezza. Anche se, a contrario, proprio questi nuovi media, che i bambini usano compulsivamente, possono contribuire a fargli travisare la realtà. Comunque non c’è età in cui non si possa comprendere che mandare a fuoco un clochard dopo essersi divertiti per mesi a molestarlo e a irriderlo in ogni modo o aggredire un vecchio indifeso non è una ‘marachella’ ma un reato grave. Racconta un ufficiale di Polizia che si è occupato di uno dei casi in questione che questi ragazzini si sentono fortissimi quando agiscono in gruppo ma si sciolgono in lacrime quando si trovano da soli davanti a un magistrato che li interroga sia pur con tutte le dovute cautele del caso. Piccoli criminali e piccoli vigliacchi. Quando Vallanzasca, a dieci anni, insieme al fratellino di otto, aprì le gabbie di un circo per liberare tigri e leoni, sembrandogli quella prigionia intollerabile, davanti alle Autorità mantenne l’atteggiamento spavaldo di sempre. Rimase cioè se stesso. Preferisco.

Si dice, credo giustamente, in particolare da Marco Minniti, un ottimo ministro degli Interni, che questo fenomeno non può essere contenuto solo con la repressione, ma ci vuole l’educazione da parte della scuola e della famiglia. E qui il discorso non riguarda più i ragazzini ma gli adulti, cioè i genitori. Che autorità possono conservare i docenti se appena si permettono una nota di biasimo vengono aggrediti dai genitori per ‘lesa maestà’ del loro stronzissimo rampollo? Io penso che si debba abbandonare definitivamente il primo Spock, quello del permissivismo a oltranza, e tornare ai vecchi metodi. Tutta la mia generazione è stata allevata a cinghiate, nel senso letterale del termine: il padre si toglieva la cinghia dei pantaloni e te le suonava per ‘marachelle’ di gravità infinitamente inferiore a quelle che oggi ci vengono continuamente segnalate. Eppure non siamo cresciuti né delinquenti né disturbati. Quando divenimmo ventenni fummo protagonisti di una contestazione dolce, quella hippy, agli adulti che chiamavamo affettuosamente “i matusa”. I sessantottini, già figli del permissivismo, vezzeggiati e coccolati da piccoli e da grandi, abbracciarono invece una violenza vile e stupida. Per esempio picchiare l’’avversario’, o presunto tale, in trenta contro uno. Una cosa da far vomitare come fan vomitare i ragazzini che sbeffeggiano e magari uccidono un clochard o un vecchio.

E’ inquietante questa nuova gioventù. Per la maggioranza è formata da bravi ragazzi ma totalmente imbelli, tanto da subire ogni sorta di sopruso non solo dai coetanei più aggressivi ma dal mondo della politica. Dall’altra parte ci sono i piccoli delinquenti attivi sulla strada ma anche, e forse soprattutto, sul web.

E’ in atto una sorta di mutazione antropologica e sociale. Per noi, figli dell’immediato dopoguerra, era un punto d’onore difendere il più debole. E se qualcuno si fosse permesso di angariarlo o irriderlo avrebbe preso, lui sì, un fracco di botte sacrosante. Certo anche noi ci davamo battaglia nei terrain vague che ci avevano lasciato graziosamente i bombardamenti angloamericani (parlo di Milano). Ma c’erano delle regole, inderogabili. Se un ‘avversario’ cadeva a terra non lo si poteva toccare finché non si fosse rialzato. Se si capiva che qualcuno si era fatto male sul serio “fermi tutti”. Una volta che il mio gruppo si trovò in otto contro sei, uno dei nostri passò dall’altra parte per pareggiare i conti. Non c’era una vera rivalità, ideologica o di classe (da ragazzini facevamo tutti, poveri o ricchi che fossimo di famiglia, la stessa vita). Avevamo solo bisogno di sfogare la nostra vitalità giovanile.

Oggi noi italiani, giovani o adulti che si sia, siamo o imbelli o violenti in modo vigliacco. Anche gli immigrati che tanto temiamo, o almeno una parte di essi, sono strafottenti e violenti ma almeno, nella maggioranza dei casi, dimostrano coraggio. E’ una delle ragioni, insieme a quella fondamentale della denatalità, per cui se non si dà rapidamente una mossa “la razza bianca”, termine usato dal candidato di centrodestra alla presidenza della Regione Lombardia, Attilio Fontana, e su cui si è innestata una stupidissima quanto ipocrita polemica, è destinata a scomparire.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 18 gennaio 2018

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Je suis Catherine Deneuve. Perché con la sua autorevolezza che le deriva dall’appartenenza di genere (il sesso forte, altro che debole), dalla sua bellezza, dalla sua raffinatezza e bravura di attrice (Belle de jour di Bunuel su tutto) mi ha salvato dalla serqua di insulti, massmediatici e no, che mi sono piovuti addosso per quattro articoli che ho scritto sul Fatto post ‘caso Weinstein’ (“Il caso Weinstein: le ricattate e il ricattatore”, 17/10/2017; “Dalle molestie alla caccia alle streghe: difendiamoci”, 7/11/2017; “Risposta a Claudia Mori”, 9/11/2017; “La caccia alle streghe”, 9/12/ 2017). La cupa Dacia Maraini afferma che “la caccia alle streghe”, maschili, non riguarda “la mano sul ginocchio o una pacca sul sedere”. Non è così. Il ministro della difesa britannico Fallon si è dimesso perché accusato di aver messo la mano sul ginocchio di una giornalista che gli sedeva accanto e anche il vecchio Bush che di ben altro dovrebbe essere ritenuto responsabile è stato messo sotto schiaffo perché dalla sua carrozzina ha messo la mano su un sedere che gli stava davanti e alla giusta altezza. Ma chi mai, se è un uomo, può resistere a un bel culo?

Non a caso Venere è Callipigia e nasce in Grecia, nella prima metà del II secolo avanti Cristo, insieme alla grande filosofia e alle matematiche. E “pour cause”. Perché il culo è innanzitutto una categoria metafisica. Possiede la perfezione geometrica delle figure astratte. E infatti, come forma, si apparenta alla sfera che è la figura geometrica perfetta. Ma la supera perché ha una simmetricità che manca alla sfera. Come la sfera è un corpo finito e infinito allo stesso tempo e, poiché è curvo, il culo è vicinissimo all’essenza stessa della verità (“Ogni verità è curva” scrive Nietzsche). C’è, racchiuso nel culo, l’enigma del rapporto finito/infinito, spazio/tempo, che è l’enigma dell’Universo. Non a caso Salvador Dalì a qualcuno che gli chiedeva come immaginasse l’universo rispose: “Un continuum a quattro natiche”.

Come questo inquietante apotema, così carico di significati simbolici, sia finito in fondo alla schiena dell’uomo e, quel che è peggio, della donna, è un mistero. Ma qui ritorna la grande ambiguità del culo, la sua finita infinitezza. Disumano per l’esattezza e la perfezione delle sue proporzioni, il culo è anche molto umano. Mentre la perfezione è, per ciò stesso, inespressiva, il culo è la parte più eloquente del corpo. Quando Moravia ne La vita interiore ha scritto che “il sedere manca di espressione” non sapeva quel che si diceva. Il culo segnala non solo il carattere ma, spesso, l’appartenenza di classe di una persona, maschio o femmina che sia. C’è il culo diffidente e avaro (che è a mele strette come hanno, in genere, i toscani), il culo fiducioso e pieno di speranza (tondo, grasso e a natiche leggermente dischiuse), il culo aggressivo (sodo e massiccio come una catena montuosa), il culo volitivo (piccolo e muscoloso), il culo colloquiale (elastico e malleabile), il culo nobile (alto, lungo e appena rilevato), il culo popolare (basso e largo), il culo burocratico (grasso e uniforme), il culo proletario (largo ma alto), il culo militare (stretto e muscoloso), il culo meschino e timoroso (che è quello magro ma senza essere ossuto), il culo indifferente (piccolo e raccolto), il culo ridanciano (largo e piatto), il culo impertinente (tondo, a scalino e sussultorio). Infine c’è il culo remissivo, che è quello che ha due tenere pieghe fra la natica e l’attaccatura della gamba ed è tondo senza essere eccessivo. Questo è il vero culo. Il culo dei culi. Perché possiede, al massimo grado, le due caratteristiche che, pur variamente mascherate, sono proprie di ogni culo: l’essere indifeso e ridicolo (“L’ilare impotenza del deretano” la chiama Sartre, che se ne intende). Il culo infatti è impotente. Perché, come           Polifemo, è cieco nonostante possegga un occhio. E’ in condizione di palese inferiorità: non può guardare ma solo essere guardato. E’ inoffensivo perché non ha spigoli. Poco o punto muscoloso non si può difendere e chiunque può oltraggiarlo. E’ nudo ed esposto poiché non ha peli. Ed infine è ridicolo come tutti gli esseri grandi e grossi ma imbelli.

Per questo connubio di impotenza e di ridicolo, il culo è la parte preferita dal sadico. Nessuno le busca come il culo. C’è da dire che, quasi sempre, il culo fa di tutto per meritarsele. Provoca. A volte infatti si presenta con un’aria di falsa innocenza, altre con impertinenza, altre ancora con arroganza. In altri casi si isola, fa finta di niente, come se ignorasse di essere un culo. Atteggiamenti, tutti, che attirano una adeguata punizione. Che del resto il culo, dopo una prima resistenza di pura parata e, diciamo così, di bandiera, accetta volentieri, arcuandosi, protendendosi, aprendosi, offrendosi. Perché il culo è profondamente, intimamente, masochista.

Ma c’è un altro elemento, nel culo, che attira il sadico: la perfezione. E’ la perfezione ad accendere il desiderio della profanazione. Solo ciò che è perfetto merita di essere sconciato, sciupato, oltraggiato, vilipeso e quindi, alla fine, reso imperfetto. E anche questa è una dimostrazione dell’enorme superiorità del culo sul seno. Il seno si accarezza, si vezzeggia, si mordicchia affettuosamente. Per consolarlo della sua pochezza, di essere solo un seno. Nella perfezione del culo c’è un orgoglio luciferino che va abbattuto e degradato.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 16 gennaio 2018