Quelli che stanno cambiando profondamente in questi anni, sotto i nostri occhi ma senza che noi quasi ce ne si accorga, sono gli assetti internazionali, e non solo, usciti dalla Seconda guerra mondiale. Grandi Paesi, come Cina e India, che a quella guerra non avevano partecipato, e quindi, a differenza dei vincitori, non ne avevano potuto cogliere i frutti, si sono affacciati con prepotenza sull’arengo mondiale accogliendo il modello di sviluppo occidentale che è riuscito a sfondare in culture antichissime che gli erano antitetiche, come appunto quella cinese e indiana. Ma se ciò ha aperto all’Occidente enormi mercati prima preclusi, praterie ancor più sterminate si sono presentate davanti a Cina e India che proprio in quell’Occidente una volta egemone si abbeverano mettendolo in gravi difficoltà.
Donald Trump, che è molto meno sprovveduto di quanto lo si faccia fermandosi alle sue ‘mise’ stravaganti, ha capito, e lo ha anche detto, che gli Stati Uniti non possono, e non vogliono, più essere i ‘gendarmi del mondo’. The Donald non farà mai guerre ideologiche, tipo Afghanistan o Iraq, per raddrizzare le gambe ai cani, per convincere, con le armi, certi Paesi riottosi ad adottare la democrazia, l’uguaglianza fra uomo e donna, il rispetto dei ‘diritti umani’ che sono da sempre, almeno a partire dalla Rivoluzione francese, il ‘core’ del pensiero occidentale. Ciò che interessa a Trump è conservare il primato economico o condividerlo con la Cina che al momento appare, su questo piano, l’avversario più pericoloso.
I tedeschi, con la copertura dei francesi, stanno cercando di ottenere un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu o quantomeno un seggio per l’Ue che sostituirebbe quello attualmente occupato dalla Francia. Cosa che era impensabile fino a pochissimi anni fa. E verrà anche il momento in cui sarà tolto alla Germania democratica il divieto di possedere l’Atomica, perché è fuori da ogni logica che quest’Arma, che è un deterrente decisivo per non essere spazzati via come fuscelli (Kim Jong-un insegna), ce l’abbiano oltre a Stati Uniti, Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna anche India, Pakistan, Israele, Corea del Nord e non il più importante Paese europeo. Del resto la Nato, che in teoria avrebbe dovuto garantire la sicurezza agli Stati membri, è in crisi come ha ammesso lo stesso Trump e l’Europa ha urgente bisogno di una difesa che non sia affidata solo alle armi convenzionali, che oggi stanno all’Atomica come un tempo la spada al fucile o la cavalleria ai carri armati. E l’Unione europea avrebbe dovuto cogliere al volo le incertezze di Trump sulla Nato per togliersi finalmente di dosso la pesante e pelosa tutela americana.
Ma, al di là di questo, il vero pericolo, per tutti, è un altro e si chiama Isis, ulteriore fenomeno nuovo che non era presente alla fine della Seconda guerra mondiale, che sconfitto a Raqqa e a Mosul risorge ovunque come un’Idra dalle mille teste, in Egitto, in Libia, in Mali, in Somalia, in Kenya, in Nigeria, in Pakistan, in Afghanistan e, sporadicamente, in alcuni centri nevralgici dell’Europa. Perché Isis è un’epidemia ideologica che potrebbe anche contagiare occidentali che non hanno alle spalle alcun retaggio islamico. Tutto il fenomeno dei foreign fighters è un segnale dell’angoscia di vivere in un modello di sviluppo che non è in grado di dare alla vita un senso che non sia puramente materiale.
Sono state le democrazie a uscire vincitrici dalla Seconda guerra mondiale. Si pensava quindi che questa forma di governo fosse non solo la più giusta ma anche la più efficiente. Così non è stato. Perché, salvo rari casi, le democrazie non sono mai state democrazie ma oligarchie o, come le chiamava pudicamente Sartori, poliarchie (“Democrazia e definizioni”). E queste élite, soprattutto economiche, non sono state all’altezza, come ha sottolineato Galli della Loggia in un editoriale sul Corriere (“Gli errori delle élite globali”, 10/1/19), facendo innanzitutto e soprattutto i propri interessi ai danni di quelli della popolazione. Tutti i cosiddetti ‘populismi’, pur così variegati e diversi fra loro, sono una rivolta contro le élite economiche e partitiche affinché il popolo si riprenda i propri diritti e la propria sovranità. Fino all’altroieri queste rivolte avevano calcato i solchi tradizionali, con ideologie riconoscibili e leader riconoscibili. Ma adesso queste rivolte sono diventate trasversali, non sono individuabili come appartenenti alla destra o alla sinistra, e tendono alla violenza. Non ci sono solo i gilet gialli francesi ma anche i serbi che hanno dato vita a una rivolta contro il presidente Vucic, che non ha ancora un nome e che mette insieme categorie eterogenee. Siamo all’alba di un nuovo mondo? Siamo alla rivincita postuma di Ernesto Che Guevara che non era né di sinistra né di destra ma uno che si è sempre battuto per il riscatto degli “umiliati e offesi” di tutto il mondo?
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 17 gennaio 2018
Robert Habeck, leader dei Verdi tedeschi, ha deciso di non utilizzare più né Twitter né Facebook: “Twitter mi disorienta e mi rende poco concentrato. Mi fa scattare qualcosa, sono più aggressivo, polemico, stridulo ed estremo, il tutto con una velocità che non lascia spazio alla riflessione”. Come ogni cosa buona questa decisione ha subito suscitato polemiche. Il segretario della Spd, Kingbeil, ha affermato: “Il posto dei politici è dove c’è il dibattito”. Altri hanno aggiunto che un politico deve stare al passo con i tempi anche nell’uso degli strumenti di comunicazione altrimenti finisce fuoricorso. Non mi pare che le cose stiano così. E proprio la Germania ne è un esempio. Sfido chiunque a trovare un solo tweet di Angela Merkel che pur ha governato la Repubblica federale per tredici anni con un consenso amplissimo. Merkel si è sempre espressa per note ufficiali o sue o del governo o dei suoi ministri. Al più ha concesso qualche intervista (ci mancherà Angela, con la sua visione politica ampia, il suo stile, portando anche, a differenza di Albright e Condoleezza Rice, un tocco di garbata femminilità in ruoli tradizionalmente maschili).
Da noi invece l’uso di Twitter e in generale dei social da parte dei rappresentanti politici, anche con importanti incarichi di governo, impazza. L’apristrada è stato Renzi. Dice: è giovane. Sì, ma non è che se un uomo politico è giovane deve comportarsi esattamente come i suoi coetanei e magari ciucciare il biberon. L’esempio di Renzi è stato seguito da tutti i suoi successori, con maggior o minor pudicizia a seconda delle rispettive personalità. Attualmente il più assatanato fra gli uomini di governo è Salvini, seguito affannosamente da Di Maio, che sempre gli arranca dietro, e più moderatamente da Conte. Il che crea pasticci inenarrabili soprattutto con un governo che è uno e trino. Esemplare è stato il caso della Sea Watch e della Sea Eye, con i suoi 49 migranti a bordo, che veleggiavano al largo di Malta in attesa di un ‘porto sicuro’. Salvini fa sapere via Twitter che non ne accoglierà alcuno. Fa seguire questa twittata da una miriade di interviste. E anche questa ideolipsìa - poiché la Treccani afferma che siamo in epoca di neologismi ne creiamo uno, modesto, anche noi- per le interviste spalmate giorno e notte sulla trentina di talk show in circolazione non è un buon uso della democrazia. Tu non puoi venire a sapere di una importante decisione politica da Maria Latella o dall’Annunziata. Nel frattempo Di Maio, twittante e intervistato, si dichiarava disposto ad accogliere le donne e i bambini, Conte ad andarli a prendere personalmente con un aereo (I bambini li capisco, ma perché le donne? Se son pari siano pari anche nei rischi e la classica frase, durante un naufragio, “prima le donne e i bambini” non vale più). Insomma per giorni non si è saputo, né in Italia né all’estero, quale fosse la reale posizione del governo italiano. La situazione alla fine l'ha risolta Bruxelles, la disprezzatissima Bruxelles, impegnando otto Paesi, fra cui l’Italia, con un Conte rientrato nei suoi panni, ad accogliere, pro quota (per l’Italia 15 o 25, non si sa) non solo i 49 migranti delle due Ong ma anche altri sbarcati nei giorni precedenti a Malta.
Ma lasciando perdere per il momento il caso della Sea Watch e della Sea Eye, definito “vergognoso” dall’Avvenire, questo continuo e permanente twitteraggio, condito da una infinità di interviste, finisce per disorientare i cittadini. Un provvedimento è stato solo annunciato o è in corso di elaborazione o è stato approvato? Le cose in democrazia dovrebbero andare in tutt’altro modo. Dovrebbero andare come andavano anche da noi in un tempo poi non tanto lontano: il Consiglio dei ministri propone una legge, in casi urgenti emana un decreto, se il Parlamento approva, il testo viene pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale e diventa legge dello Stato. Così ci eravamo abituati, noi pleistocenici. Male, evidentemente.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 12 gennaio 2019
A me va bene tutto. Mi sarebbe piaciuto però che nelle recenti rievocazioni delle censure perpetrate in Rai durante il ventennio berlusconiano, innescate dalla speranza che i 5Stelle riescano a spazzar via il regime partitocratico e familista che regna nella Tv pubblica dalla fine dell’epoca Bernabei, un cenno, almeno di sfuggita, fosse stato dedicato a quella che ho subìto io. Va da sé che le emarginazioni di Luttazzi, di Freccero, di Biagi e di altri protagonisti dello star system televisivo, sono molto più importanti per la notorietà di quei personaggi, ma la mia, dal punto di vista qualitativo, è la più grave. Perché non è stata una censura a un programma, ai suoi contenuti, ma a una persona in quanto tale, a prescindere. Una censura ‘antropologica’. Tanto che nel loro Regime Gomez e Travaglio le dedicarono il primo capitolo intitolato, appunto, “Massimo Fini, censura antropologica”. Cercherò qui di raccontare quegli antichi fatti, che hanno anche dei risvolti esilaranti.
Siamo agli inizi dell’autunno 2003. Un regista e produttore, Eduardo Fiorillo, direttore di una notevole struttura musicale, Match Music, propone al direttore di Rai Due, Antonio Marano, in quota Lega, un programma di costume che intende intitolare Cyrano, inspirato più a quello di Guccini che a Rostand. Conduttrice sarà Francesca Roveda, a me spetterà di cucire il filo fra i vari spezzoni del programma. Marano accetta: Cyrano andrà in onda in terza serata. Facciamo le prove negli studi Rai di corso Sempione a Milano. La prima puntata è pronta, ma deve essere ancora montata. Non è presente nessun dirigente o funzionario Rai. Insomma nessuno l’ha vista, tranne noi. In serata Fiorillo riceve una telefonata di Marano, da Roma. “Ci sono dei problemi” dice. “Sul programma?” chiede Fiorillo. “No, su un nome. Quello di Massimo Fini. Devi toglierlo di mezzo”. Fiorillo è basito. Conosce il mondo, anche nei suoi lati pericolosi e borderline, ma a violenze di questo tipo non è abituato. In fondo si è sempre occupato di musica. Comunque si rifiuta: “No, io una cosa del genere non mi sento di farla. Oltretutto il programma è centrato proprio su Fini”. Marano propone un incontro chiarificatore a tre (lui, Fiorillo ed io) per il lunedì pomeriggio, il giorno prima che il programma, ampiamente pubblicizzato dalla stessa Rai e anche dai giornali, incuriositi, vada in onda. In fondo la cosa dispiace anche a lui. In epoca di ‘reality show’ dar una patina un po’ più culturale alla sua Rete gli conviene. Nessuno dei due, né Fiorillo né Marano, si è reso conto di aver messo il piede su una merda. Io e Fiorillo decidiamo di portarci dietro un registratore, di nascosto. Non si sa mai. Marano, nella sua parte di Don Abbondio, è a suo modo onesto: “A questo punto la puntata l’ho vista. Potrei dirle che non funziona, che lei non ‘buca il video’. Ma non me la sento. Perché non è così. E’ che su di lei c’è un veto politico aziendale”. E mi propone di sparire dal video e di retrocedere ad autore. A parte che io non sono affatto autore del Cyrano, che è opera di Fiorillo, ritengo la proposta inammissibile e la rifiuto. “Non so se vi rendete conto della violenza che mi state usando. Perché mi avete avvicinato voi, mi avete contrattualizzato. Erano quindici puntate, ho dovuto modificare i miei programmi, per esempio lasciare quella poca roba che avevo su Odeon tv con Funari e cancellare un calendario di presentazioni di un mio libro Il vizio oscuro dell’Occidente. E adesso mi si dice: no, tu non puoi lavorare. Cioè, io non posso lavorare in questo Paese?”. Marano, quasi scandalizzato, farfuglia che non è così. “Diciamo allora che ci sono lavori che io non posso fare”. Marano: “Ecco, questo è più preciso”. “Va bene, dunque ci sono dei lavori che io non posso fare. Anche nel ’38 c’erano lavori che gli ebrei non potevano fare. Mi metterò una stella gialla sul petto”.
Il programma andrà in onda con una settimana di ritardo e con un nuovo titolo, Borderline, senza di me. La vicenda suscita un po’ di scalpore, non tanto, il ‘minimo sindacale’.
La questione finisce davanti alla Commissione parlamentare di Vigilanza Rai presieduta dal diessino Claudio Petruccioli. E Petruccioli compie un autentico capolavoro: si fa inviare da me la cassetta con la registrazione, ne dà notizia in Commissione ma non la fa ascoltare. I consiglieri leghisti (Davide Caparini), gli ex missini ora An (Alessio Butti) e il forzista Giorgio Lainati, si scatenano subito contro di me: vogliono che sia denunciato alla Magistratura per violazione della privacy e radiato dall’Ordine. Da vittima divento il colpevole. Cornuto e mazziato (E pensare che ero stato uno dei pochissimi intellettuali italiani a difendere la prima Lega di Bossi quando era trattata peggio delle Br, un po’ come oggi i ‘populisti’ grillini, e l’unico, insieme a Mughini, a difendere il diritto di cittadinanza politica dei missini contro la truffa dell’ ‘arco costituzionale’). Un altro exploit lo fece Marcello Veneziani, uno dei leader di quella ‘nuova destra’ che pure, a suo tempo, avevo difeso, che scrisse sul Giornale: “Visto che Fini è tanto bravo e così necessario al video come mai la Rai dell’Ulivo non aveva pensato a offrirgli un programma?”. Insomma in Rai non potevo lavorare né se comandava la destra né se comandava la sinistra. Non potevo lavorare e basta. Ero (e sono rimasto) un meteco.
La mancata audizione della registrazione permise a Marano (che tuttora sverna in Rai) di cambiare completamente le carte in tavola, nonostante contro le sue menzogne ci fosse anche la testimonianza di Fiorillo: ero un incapace, uno che “non buca il video” e se non me lo aveva detto in faccia era solo per delicatezza.
Naturalmente non fui denunciato alla Magistratura, tantomeno da Marano, né radiato dall’Ordine. Sarò io a far causa alla Rai per i danni materiali e quelli morali portati alla mia immagine. E la vincerò. Ma il Tribunale riconobbe solo i danni materiali, non quelli morali con la singolare motivazione che ero stato io stesso a danneggiare la mia immagine parlando dell’accaduto con i giornali. Sarebbe come se una ragazza stuprata non venisse risarcita perché ha denunciato la violenza.
Ma come a volte avviene da un male può nascere un bene. Fiorillo decise di portare il Cyrano a teatro, ma non quello che avevamo immaginato per la Rai bensì centrato sul ‘Fini pensiero’ antimodernista. “Non ce la puoi fare, Edo” gli dissi. “Ne verrà fuori un polpettone indigeribile”. Invece Fiorillo, usando gli strumenti dello spettacolo non per distrarre gli spettatori dal ‘polpettone’ ma per supportarlo, mise in piedi una pièce che ha ottenuto un grande successo in teatri importanti come il Ciak di Milano, il Celebrazioni di Bologna, lo splendido Storchi di Modena, una piccola Scala, con i palchi, riempita fino all’inverosimile. E io ho ottenuto la mia rivincita personale. Altro che “non bucare il video”. Perché, caro Marano, a teatro, con il pubblico davanti a te, a differenza della tv o dallo scranno di un ufficio, non si può mentire.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 8 gennaio 2018