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Che Giorgio Napolitano, nonostante le pressioni di Renzi, abbia l'urgenza di lasciare al più presto è cosa ovvia. Il Tempo, il padrone inesorabile delle nostre vite, non fa sconti a nessuno e benché Napolitano non abbia fatto una sola ora di lavoro nella sua lunga vita e non abbia quindi svolto alcuna attività usurante se non per il suo didietro che si è strusciato su ogni possibile cadrega, 90 anni son pur sempre 90 anni.

Se il Financial Times ha potuto scrivere che Napolitano è «una personalità che svetta nello scenario italiano» ciò dice di per sè della mediocrità della nostra attuale classe dirigente. Per 80 dei suoi 90 anni di vita Napolitano è stato un personaggio inesistente, una suppellettile del comunismo italiano, notato solo per la sua irrilevanza. «Coniglio bianco in campo bianco» lo aveva definito impietosamente qualcuno. E' nato vecchio, «nu guaglione fatt'a vecchio» aveva detto di lui lo scrittore Luigi Compagnone. Non è mai stato giovane e anche questo spiega la sua longevità non solo politica. Mentre i suoi compagni di liceo giocavano al pallone, lui partecipava ma stava a guardare. Per tutta la vita è stato a guardare. Anche, se non ci si fa suggestionare dalle apparenze, negli otto anni e mezzo del suo doppio mandato.

La cosiddetta destra lo ha dapprima avversato perché lo riteneva comunista (ma andiamo) e artefice del 'golpe' che avrebbe fatto fuori Berlusconi, poi lo ha rivalutato quando, sia pur con gran circospezione, ha ricevuto al Quirinale il Detenuto. La cosiddetta sinistra l'ha sostenuto perché lo sapeva innocuo. Il Fatto Quotidiano ne ha fatto un bersaglio 'da tre palle un soldo' soprattutto per quel suo monitar 'urbi et orbi', contemporaneamente a destra e a manca, riuscendo così a non dir nulla. Ma questo è in perfetto 'stile Napolitano'di sempre. Secondo me è stato un buon Presidente della Repubblica perché chi ricopre quel ruolo deve essere come l'arbitro delle partite di calcio: meno lo si nota e meglio è. Il 'coniglio bianco in campo bianco' ci ha provato a rimanere tale, sono stati i partiti e soprattutto i media a creare un personaggio inesistente e che senza il loro apporto non sarebbe mai esistito: Re Giorgio.

Adesso si tratta di scegliere un nuovo Presidente della Repubblica che rappresentando l'unità della Nazione dovrebbe essere 'super partes', cioè di nessuna parte. Ma un soggetto del genere è introvabile in Italia. Anche nel mondo della cosiddetta 'intellighenzia' dove tutti, per opportunità di carriera, si sono messi al traino di qualche partito. Forse bisognerebbe pescare in quel che resta del nostro mondo artistico. Un Riccardo Muti che 'ha bene meritato della Patria' in Italia e all'estero sarebbe l'ideale. Ma a parte che difficilmente il Maestro lascerebbe il suo affascinante mestiere per i polverosi stucchi del Quirinale, il Parlamento dei partiti non ha nessun interesse né la creatività e l'audacia per una soluzione del genere. Staremo quindi a vedere. Spero che Grillo non si incaponisca su Stefano Rodotà, che oltre ad avere 81 anni, ha attraversato l'ultimo trentennio ben imbozzolato nel Pci-Pds-Ds, un radical chic che nulla a che vedere, per quel che li conosco io, col mondo dei grillini. La sola cosa certa è che per l'elezione del nuovo Capo dello Stato sarà indispensabile l'apporto del Detenuto. Una cosa che può accadere solo in Italia. Un Paese irredimibile. Per rifondarlo ci sarebbero così tante cose da fare che ormai non c'è più nulla da fare.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 15 novembre 2014

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"Da bambini andavamo in auto che non avevano cinture di sicurezza né airbag. Viaggiare nella parte posteriore di un furgone aperto era una passeggiata speciale. Le nostre culle erano dipinte con colori vivacissimi, con vernici a base di piombo. Non avevamo chiusure di sicurezza per i bambini nelle confezioni dei medicinali, nei bagni, alle porte, alle prese. Quando andavamo in bicicletta non portavamo il casco. Bevevamo l’acqua dal tubo del giardino invece che dalla bottiglia dell’acqua minerale. Uscivamo a giocare con l’unico obbligo di rientrare prima del tramonto. Non avevamo cellulari, cosicché nessuno poteva rintracciarci. Impensabile. Ci tagliavamo, ci rompevamo un osso, perdevamo un dente e nessuno faceva una denuncia per questi incidenti. La colpa non era di nessuno, se non di noi stessi. Condividevamo una bibita in quattro, bevendo dalla stessa bottiglia e nessuno moriva per questo. Non avevamo Playstation, Nintendo 64, Xbox, videogiochi, televisione via cavo 99 canali, videoregistratori, dolby surround, cellulari personali, computer, chatroom su Internet. Avevamo solo tanti, tanti amici. Uscivamo, andavamo in bicicletta o camminavamo fino a casa dell’amico, suonavamo il campanello semplicemente per vedere se lui era lì e poteva uscire. Sì! Lì fuori! Nel mondo crudele! Senza un guardiano! Facevamo giochi con bastoni e palline da tennis, si formavano delle squadre per giocare una partita, non tutti venivano scelti per giocare e gli scartati dopo non subivano un trauma. Alcuni studenti non erano brillanti come altri e quando perdevano un anno lo ripetevano. Nessuno andava dallo psicologo, dallo psicopedagogo, nessuno soffriva di dislessia né di problemi di attenzione né di iperattività, semplicemente prendeva qualche scapaccione e ripeteva l’anno, perché gli insegnanti avevano sempre ragione. Avevamo libertà, fallimenti, successi, responsabilità e imparavamo a gestirli. E allora la grande domanda è questa: come abbiamo fatto a sopravvivere noi bambini degli anni ’50 e ‘60, a crescere e a diventare grandi?".

Questo ‘mantra’ circola da qualche settimana su WhatsApp. L’autore, certamente un uomo in età, è ignoto, come ignoti quasi sempre sono gli autori di certe barzellette fulminanti che nascono in genere negli ambienti impiegatizi da qualcuno che, per non morire di noia, dà libero sfogo alla propria fantasia.

L’obbiettivo sarcasticamente polemico dell’Autore Ignoto è lo Zeit Geist, lo spirito del tempo, la pretesa di mettere tutto ‘in sicurezza’, ‘a norma’, omologato da rigidi protocolli. Non siamo più in grado di accettare il rischio, l’imprevedibile, l’imponderabile, il Caso che i Greci chiamavano Fato. Ma in questa pretesa di controllare in tutto e per tutto la vita finiamo per non viverla più.

Io mi identifico totalmente nell’Autore Ignoto che offre una serie di spunti che mi spiace di non poter qui sviluppare. Sono anch’io ‘un ragazzo degli anni ‘50’, la nostra ‘educazione sentimentale’ è stata sulla strada e, sia pur fra qualche rischio e pericolo, ci ha insegnato, fra le altre, una cosa fondamentale: il principio di responsabilità (nel ‘mantra’ è l’accenno al ragazzino che si rompe un osso facendo a bastonate in una lotta fra bande o al ripetente). Oggi bambini o, peggio, adulti che si sia, la colpa è sempre degli altri, di un’infanzia difficile, della scuola, degli insegnanti, delle cattive compagnie, del ‘così fan tutti’. Quel principio di responsabilità che da tempo è venuto meno nella società italiana, in particolare nella classe politica ma anche fra i ‘very normal people’, e che è uno dei motivi principali, se non addirittura il principale, della nostra difficoltà a vivere insieme.

Massimo Fini

Il Gazzettino, 14 novembre 2014

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Secondo il rapporto 'Prosperity index 2014' l'Italia è al 37° posto perdendo cinque posizioni rispetto all'anno precedente. Ma l'indice più interessante è quello sulla fiducia nel futuro che ci vede 134esimi. Tuttavia io non credo che l'Italia sia in una situazione molto diversa dagli altri Paesi occidentali. Solo che il nostro Paese, straordinario laboratorio dei fenomeni più importanti dell'ultimo millennio (da noi, a Firenze e nel piacentino, si impose la classe dei mercanti che con la sua filosofia del profitto diede origine, insieme ad altri, complessi, fattori, alla Modernità, qui nacque il fascismo, padre dei totalitarismi di destra europei che, soprattutto nella loro declinazione tedesca, furono un tentativo, contradditorio, di respingere la Modernità -è il cosiddetto 'modernismo reazionario') è un termometro più sensibile di altri, e più di altri avverte il 'sensus finis', l'irreversibile decadenza dell'Impero Occidentale. Che prima ancora che economica è esistenziale. Le grandi ideologie partorite dalla Modernità, il liberalismo, il comunismo, il fascismo hanno fallito. E quando Nietzsche nella seconda metà dell'800 proclama «la morte di Dio», non fa che constatare, con qualche decennio d'anticipo, che Dio è morto nella coscienza dell'uomo occidentale. Nello stesso tempo l'individualismo illuminista e i processi tecnologici hanno spazzato via ogni senso della comunità e i valori, prepolitici e preideologici, che include: solidarietà, lealtà, onestà. Cosa resta allora all'uomo occidentale? La prigionia in un meccanismo anonimo che un gruppo musicale, i CCCP, ha sintetizzato nel verso «produci-consuma-crepa», basato sull'invidia per cui raggiunto un obbiettivo bisogna subito inseguirne un altro e poi un altro ancora, senza poter così mai raggiungere un momento di equilibrio, di armonia, di pace. Rovesciando venti secoli di pensiero occidentale e, ora, anche orientale (vedi Cina e India), l'industrial-capitalismo (ma il marxismo non è cosa diversa) col postulato «non è bene accontentarsi di ciò che si ha» ha creato la premessa programmatica dell'infelicità umana, perché 'ciò che non si ha' non ha confini.

Ma adesso questo meccanismo, basato sulle crescite esponenziali, che esistono in matematica ma non in natura, è arrivato al suo limite. E' fermo, come una macchina davanti a un muro. Ed è quindi vero ciò che scriveva Marcuse nei primi anni '70: «Al di sotto della sua ovvia dinamicità di superficie, questa società è un sistema di vita completamente statico, che si tiene in moto da solo con la sua produttività oppressiva». Siamo fermi. Nella creatività artistica, in cui pur noi europei fummo grandissimi, nella filmografia (i film più interessanti ci vengono da culture 'altre') e persino nella musica leggera in cui non facciamo che ripetere o scimmiottare motivi degli anni '60, '70, '80.

Questo 'sensus finis' globale si riflette inevitabilmente nelle nostre relazioni personali. Proprio nel momento in cui, liberatici della sessuofobia d'antan, i rapporti fra i sessi dovrebbero essere facilitati, sono diventati invece estremamente difficili. Viviamo in un mondo di solitudini. E l'impressionante fenomeno dei social network ne è una conferma.

Il benessere ci ha fatto male. Ci ha tolto vitalità. Ci farebbe bene uno stage in Iraq o in Afghanistan. E allora forse riusciremmo a ricomporre una gerarchia dei valori, a distinguere ciò che è importante da ciò che non lo è, e a non fare una tragedia se si rompe un frigo.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 8 novembre 2014