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In Italia parlar bene dei morti. quando son personaggi pubblici, è quasi un dovere istituzionale. Se poi uno di questi ha la ventura di morire, per cosi dire, «sul campo», allora lo facciamo santo. Non si tratta, come qualcuno potrebbe pensare, di una forma di rispetto nei confronti del morto, ma di uno dei tanti travestimenti assunti dall'ipocrisia e dalla cattiva coscienza collettive. Nei tempi recenti oggetto di questa pelosa canonizzazione furono, per esempio, Enrico Berlinguer ed il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Ma sicuramente la più straordinaria forma di beatificazione riguarda Aldo Moro. Non c'è evidenza, per quanto macroscopica, non c'è fatto, per quanto miserando, che inducano a rivedere il giudizio sul leader democristiano. E fosse, perlomeno, un pietoso velo di silenzio quello che è stato steso su Aldo Moro. No, egli ci viene a tutt'oggi riproposto come «statista insigne», come «figura nobilissima», come esempio di preclare virtù politiche e morali. In realtà è tutto l'establishment che fa da sempre quadrato intorno a lui. Quando la Tribuna di Treviso e il Candido cominciarono, nella primavera dell'80, a scoperchiare quello che sarebbe diventato lo «scandalo dei petroli». ci vollero cinque mesi perché la stampa nazionale, di solito così avida di scoop, si degnasse di accorgersi che esisteva una truffa di più di 300 miliardi perpetrata ai danni dello Stato, e che in questa vicenda era implicato fino al collo l'uomo di fiducia di Moro, Sereno Freato. E quando non si poté più far finta di nulla tutte le colpe furono riversate su Freato, il demonio, come se il segretario del leader democristiano avesse fatto quello che ha fatto di sua iniziativa e solo per se stesso e non anche per finanziare Moro e la sua corrente. Adesso, dal processo di Torino vien fuori che con parte dei soldi della truffa sui petroli Freato aveva costituito, tramite Musselli, un «fondo nero» in Svizzera per conto di Moro. E la strabiliante giustificazione che ne vien data dalla moglie. Eleonora, e che viene recepita senza batter ciglio, è che «Aldo temeva un colpo di Stato». Ma via! E come se la cosa avesse poi la minima rilevanza. E si può continuare a far finta di credere che Aldo Moro ignorasse quel che faceva il suo braccio destro e da dove provenissero le centinaia di milioni, i miliardi che questi gli passava? Eppure, parlando del processo, il Giornale scrive che Moro «non meritava certi eredi» e la Repubblica parla di lui come di «una delle figure più nobili e disinteressate della classe dirigente repubblicana». No, signori: il problema non è Freato, non è Musselli, non sono i piccoli e grandi untorelli presi con le mani sul tagliere dello «scandalo dei petroli». Il problema è Aldo Moro. Moro non è il santino immaginario della interessata iconografia ufficiale. ma quello che risulta dai fatti della sua vita. Un uomo al centro, come principale beneficiario, di intrallazzi vergognosi, di alleanze equivoche, di truffe clamorose. Moro è quello che vien fuori dalle sue lettere, quelle lettere che scrisse quando era prigioniero delle Br e che sono quanto di più penoso ed umiliante sia mai uscito da una prigione. Lo «statista insigne» che, al momento del dunque, sconfessa tutti i principi dello Stato di diritto, sembra considerare lo Stato ed i suoi organismi come un proprio patrimonio privato, invita gli amici del suo partito ed i principali rappresentanti della Repubblica a fare altrettanto. L'uomo che chiede pietà per sé ma, in novanta lettere, non ha una parola per gli uomini della sua scorta, morti ammazzati per lui e, anzi, l'unico accenno che ne fa è gelidamente burocratico per definirli «amministrativamente non all'altezza». Il politico che conferma la tradizione della classe dirigente italiana pronta a chiedere tutto, anche la vita, agli umili, ma mai disposta, le poche volte che capita, a pagare di persona (si pensi a Mussolini in fuga sotto un pastrano tedesco, al modo con cui il re e Badoglio abbandonano Roma). Dire queste cose d'un uomo che è morto come è morto Moro può apparire, anzi è, crudele. Ma è la verità. E poiché ho scritto queste cose quando Moro era ancora vivo («Statista insigne o pover'uomo?». Il Lavoro 4 aprile 1978) non ho alcuna remora a ripeterle ora che è morto e che altri tasselli vengono a completarne la figura.Del resto, per un crudele contrappasso, Moro fu, in un certo senso, vittima di se stesso. Infatti si deve «anche» ad Aldo Moro, al suo millenarismo cattolico, alla sua politica di tutti i rinvii, di tutte le scelte mancate, di tutte le irresolutezze, di tutte le paure, di tutte le mediazioni, di tutte le ambiguità, di tutte le ipocrisie se in Italia poté allignare per tanti anni un terrorismo come quello delle Brigate rosse. E la definizione più calzante e involontariamente spietata della figura di Moro, che spiega forse anche la natura dei suoi rapporti con Freato, l'ha data la moglie Eleonora quando, deponendo ad uno dei tanti processi. affermò: «Moro era un uomo che conosceva molti modi per non dire la verità, senza per questo dire una bugia».