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Era da anni che attendevamo un atto come quello con cui il presidente della Repubblica ha irrevocabilmente richiamato il Consiglio superiore della magistratura alle sue funzioni, che non sono né di far politica né, tantomeno, di sindacare atti di un altro organo istituzionale quale la presidenza del Consiglio, ma sono quelle stabilite dall'articolo 105 della Costituzione che dice: «Spettano al Consiglio superiore della magistratura... le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni ed i procedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati». Questa norma assicura che la carriera dei magistrati dipenda esclusivamente dal proprio organo di autogoverno, che è appunto il Consiglio superiore, e garantisce così l'assoluta autonomia del potere giudiziario da ogni altro. II Consiglio superiore della magistratura ha quindi una funzione fondamentale, che però è quella, e solo quella, stabilita dalla Costituzione. Che se ne arroghi altre è inammissibile, come ha fatto notare Cossiga. Ma l'atto del presidente della Repubblica va ben oltre la diatriba sul Consiglio superiore. Con esso, Cossiga ha mandato un esplicito messaggio che vale per tutti gli organi istituzionali italiani: è venuta l'ora che questi organi rientrino nel loro alveo, nel loro ruolo, nelle loro funzioni, che sono solo quelle previste dalla Costituzione. Per anni ed anni infatti abbiamo visto organismi istituzionali (o, per meglio dire, coloro che, di volta in volta, li impersonavano), magistrati, ministri, presidenti del Consiglio e persino presidenti della Repubblica. debordare platealmente dalle proprie funzioni. tentare di surrogare quelle altrui, invadere competenze, creare una sovrapposizione ed una confusione di poteri inammissibili in uno stato di diritto che si basa sulla loro nitida e inequivocabile distinzione. Del resto lo scontro Cossiga-Csm non trae origine proprio da uno sconfinamento della presidenza del Consiglio dai propri poteri? Perché, se è vero che il Consiglio superiore della magistratura non può sindacare «atti, comportamenti o dichiarazioni del presidente del Consiglio dei ministri» come ha richiamato Cossiga, è altrettanto vero che il presidente del Consiglio non può sindacare una sentenza della magistratura, come invece ha fatto Craxi. Ma questo non è stato che l' ultimo o il penultimo di una serie di sconfinamenti reciproci. Per anni i magistrati invece di applicare le leggi se le sono inventate (si pensi, fra gli altri, al pretore Paone) ed hanno preteso di surrogarsi al legislatore colmandone le lacune, vere o presunte. Per anni un presidente della Repubblica, che pur dovrebbe essere il massimo garante della Costituzione, ha esorbitato quasi quotidianamente dalle sue competenze fra il plauso generale della stampa. Esisteva addirittura una cultura per cui un personaggio istituzionale era tanto più simpatico quanto più usciva dal suo ruolo e la Repubblica inneggiava trionfalmente a Pertini «perché sarà ricordato come il primo presidente della Repubblica che non fa il presidente» (la Repubblica, 20-1-83). Poi c' era il «Papa che non fa il Papa» perché portava «scarp de tennis». Wojtyla dimostrerà in seguito di fare anche troppo bene il suo mestiere, ma quello che qui mi preme notare è che nella cultura laica c'era l'aspettativa che il Papa uscisse dal suo ruolo, condizione perché potesse essere accettato dalla retorica del tempo. Si dice, ora, che queste confusioni di ruolo erano in qualche modo legittimate dalla cosiddetta «fase dell'emergenza». A mio avviso non c'è emergenza al mondo che consenta di violare principi fondamentali dell'ordinamento giuridico anche se è vero, purtroppo, che la cosiddetta «legislazione d'emergenza» ha contribuito, attraverso l'impunità concessa ad autori di feroci assassinii, purché «pentiti», ed il sostanziale rovesciamento dell'onere della prova, a scardinare parecchi di questi principi ed ha fatto perdere agli italiani quel poco senso del diritto che ancora loro restava. Si è creduto così che lo stato di diritto fosse ormai una finzione, buona per i gonzi, da sacrificare ad ogni esigenza di realpolitik. Invece Cossiga, che non a caso è stato docente di diritto costituzionale, ha dimostrato di credere ancora, fino in fondo, allo Stato di diritto, alla Costituzione, alla divisione dei poteri su cui è fondata. Ed ha cominciato da se stesso impedendosi atteggiamenti men che formali anche se gli avrebbero conquistato facili applausi. Per esempio, nei giorni dell' Achille Lauro si è fatta della larvata ironia sull'«assenza» di Cossiga, ma il presidente della Repubblica, non interferendo in alcun modo in quella vicenda, non fece altro che il suo dovere perché si trattava di una vicenda squisitamente politica, la cui gestione spettava esclusivamente al governo. Ma quando il presidente della Repubblica ha constatato che il Consiglio superiore della magistratura stava per violare la lettera e la sostanza della Costituzione, garantire la quale è il suo compito primario, ha mandato un messaggio che per chiarezza giuridica e durezza ricorda quelli di Luigi Einaudi. Anche se era un atto «dovuto» ci voleva del coraggio e Francesco Cossiga questo coraggio lo ha avuto. Noi gli auguriamo, e ci auguriamo, che continui ad averlo e che riesca anche a sottrarsi al nuovo culto della personalità che ora cercano di cucirgli addosso, con lodi smodate, quegli stessi giornali e quegli stessi giornalisti che ieri si entusiasmavano per gli atteggiamenti, del tutto antitetici, del suo predecessore. È  una questione che non ci riguarda. Chi segue Battibecco, sempre così aspro con tutti, a cominciare dai potenti, sa che non è per piaggeria se, una volta tanto, abbiamo lasciato la critica per un doveroso e rispettoso consenso.