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Non entro nel merito del piano che il ministro delle Finanze Visentini ha approntato per far pagare le tasse ai commercianti. Do per presupposto che si tratti di un piano giusto, anche se, per la verità, il principio dell'accertamento induttivo non è di quelli che fan parte d'una democrazia che funzioni come tale. Nondimeno trovo del tutto ipocrita, oltre che manichea, la divisione che è stata fatta durante tutti questi giorni fra un mondo del commercio, immorale e spregevole perché non paga le tasse, e un mondo del lavoro dipendente composto invece da individui forniti d'alto senso civico perché le tasse le pagano. Il quotidiano la Repubblica ha tracciato una linea di discriminazione democratica fra «chi paga le tasse e chi non le paga» ed ha definito «poujadismo intimidatorio» lo sciopero, anzi la «serrata» dei commercianti; Lama, Carniti e Benvenuto hanno bollato come «immorale» la chiusura delle saracinesche ed hanno minacciato, contro di essa, uno sciopero generale mentre nel giorno della manifestazione dei lavoratori del commercio la Cgil, la Cisl e la Uil milanesi hanno organizzato un controsciopero di un'ora; più in generale, si è assistito, da parte dei lavoratori dipendenti, delle organizzazioni che li rappresentano, dei partiti e dei giornali che se ne fanno portavoce, ad una criminalizzazione dell'intero mondo del commercio, a un “dagli al monatto”, ad una caccia all'uomo. Si avverte, in questo atteggiamento, un fondo del barile, della cultura di sinistra, segnatamente comunista, che ha sempre visto con molto sospetto il mercato (bollato on parole di fuoco da Marx) ed i commercianti, chiamati, con intonazione dispregiativa, «bottegai», perché, come ricordava anche Alberto Ronchey sul Corriere della Sera di domenica scorsa, non producono beni e quindi non assolverebbero un servizio di utilità sociale. Si tratta di un atteggiamento a dir poco grottesco, se si pensa che la società del cosiddetto postindustriale è fatta, per buona parte, di servizi e che, sulla sua scena, operano personaggi ben altrimenti inquietanti dei commercianti, che per lo meno stanno a bottega, come i finanzieri, i consulenti, i broker, i brasseur d'affaires, gli intermediari d'ogni tipo e genere che vi si arricchiscono con una facilità estrema sfuggendo ad ogni controllo. Ma, soprattutto, è il pulpito da cui viene la predica, cioè il pulpito dei lavoratori dipendenti e dei loro rappresentanti sindacali, che non è convincente. Se i lavoratori dipendenti italiani pagano le tasse non è certo per una loro maggior coscienza civica e morale, ma solo perché vi sono obbligati.  Inoltre c'è una questione psicologica che non si può sottovalutare: Una cosa è pagare le tasse con soldi che non si vedono mai perché materialmente erogati dall'azienda, e avendo impostato la propria vita su un salario o uno stipendio al netto, e altra cosa è, diciamo la verità, sborsare quattrini che stanno nelle nostre tasche e.su cui è umano far conto. Tanto è vero che gli stessi lavoratori dipendenti, quando hanno un secondo lavoro, evadono il fisco al medesimo modo dei commercianti. Inoltre i lavoratori dipendenti, a differenza dei commercianti, hanno un altro modo per «evadere»: non lavorare. L 'assenteista, soprattutto di un ente pubblico (ma, alla fine, anche di un'azienda privata) fa la stessa, identica, cosa di un commerciante quando non paga le tasse: sottrae denaro alla collettività. Il commerciante questo, almeno, non può farlo: se non lavora non mangia. Tanto che il commerciante ha ritmi di 60/70 ore settimanali contro le tradizionali 38 del lavoratore dipendente e c'è da chiedersi, una volta che sarà varata la riforma di Visentini, se è giusto che, a parità di introito, chi lavora il doppio, o quasi, di un altro debba pagare secondo aliquote fiscali identiche. In ogni caso non c'è dubbio che il commerciante sia uno che lavora molto: ogni volta che vado a Roma e vedo questa città tutta riversata in strada o impegnata, nel pomeriggio, in interminabili pennichelle provo una certa sorpresa, lo confesso, a vedere che i commercianti vi lavorano invece con ritmi milanesi e nordici. Mi è sembrato, poi, inaudito il controsciopero minacciato, e in parte attuato, dalle confederazioni sindacali contro i commercianti. I sindacati giustificano questo sciopero in appoggio al governo e contro altri lavoratori affermando che sono in gioco principi base di equità per cui non si tratta di uno scontro fra corporazioni ma della difesa di interessi generali del paese. Ma quante volte, in questi anni, Cgil, Cisl e Uil, per proteggere gli interessi dei loro rappresentati hanno leso gli interessi generali, come quando hanno inventato il principi del salario «variabile indipendente» o hanno difeso ad oltranza qualsiasi posto di lavoro, non importa se improduttivo, o qualsiasi lavoratore, non importa se sfacciatamente assenteista o violento scaricandone poi i costi sulla collettività? Eppure nessuno si è mai sognato di contrapporre agli scioperi delle confederazioni sindacali dei propri scioperi e se si fosse azzardato a farlo si sarebbe beccato, come minimo, del «fascista», del «servo del governo», del «quinta colonna» dei padroni. Una contrapposizione del genere, sciopero contro sciopero, è segnale, in realtà, di una mentalità ipercorporativa ed è un precedente molto pericoloso per l'intero mondo del lavoro come ha segnalato anche il senatore comunista Chiaromonte che non credo possa essere sospettato di simpatie verso «i bottegai». Detto questo non c'è alcun dubbio che i commercianti non paghino le tasse nella misura dovuta: le statistiche, anche se in esse c'è sempre qualcosa di forzato, sono lì a dimostrarlo. Ma questo avviene perché in Italia manca, in generale, e non solo ai commercianti, una coscienza fiscale. Ma bisogna anche dire che è molto difficile avere in Italia, almeno in questa Italia, una coscienza fiscale. Per almeno tre motivi. Il primo è che la classe politica ed amministrativa del nostro Paese dà un tale cattivo esempio, con la sua costante rapina di denaro pubblico, cioè preso dalle nostre tasche proprio attraverso l' imposizione fiscale, con le continue grassazioni, malversazioni, appropriazioni indebite e furti di cui ci danno testimonianza i quotidiani scandali (e, statisticamente, per ogni latrocinio amministrativo che viene a galla ce ne sono almeno altri dieci di cui non si saprà mai niente), che è difficile poi chiedere al cittadino comune di non imitarla. Il secondo è che le tasse che paghiamo non danno un corrispettivo minimamente adeguato in termini di servizi e di assistenza pubblica. La sanità e la vicenda delle nostre pensioni non sono che due esempi fra i moltissimi che si potrebbero fare. Chi ha oggi quarant'anni sa benissimo che, dopo aver pagato contributi per una vita, riceverà una pensione svalutata, ridicola, puramente nominale. Il terzo motivo, che è poi la combinazione dei primi due, è che il cittadino italiano ha la netta impressione non di pagare tasse che sono utilizzate per il bene della collettività, ma di sborsare denaro che serve in buona parte a mantenere il parassitismo ed il clientelismo, quando non la sfacciata corruzione, delle decine di migliaia di consiglieri delle UssI, degli amministratori  delle aziende municipalizzate, degli enti pubblici, di quelli parastatali, dei porti, dei consorzi, dei teatri pubblici oltre che gli enormi apparati dei partiti, delle correnti, delle ipertrofiche segreterie dei singoli boss della politica. Il cittadino sente oggi, molto spesso, la tassa non come un doveroso e solidale contributo nei confronti della collettività di cui fa parte, ma come denaro buttato al vento o, peggio, come una «taglia» del tipo di quelle che i contadini dell'«ancien regime» versavano ai nobili e alle loro corti perché potessero mantenersi nel lusso senza lavorare. È naturale quindi che chi è nelle condizioni per farlo abbia poi fortissima la tentazione di sfuggire al fisco. Questa mentalità va cambiata e, certamente, uno dei  modi è anche quello di far pagare le tasse. a chi le ha sempre, parzialmente o totalmente, evase, come i commercianti. Ma senza criminalizzazioni, senza demonizzazioni, senza lezioni di moralità da parte di chi non ha nessuna autorità per darle. * * *Sull' esempio di una moda dilagante negli Stati Uniti (ma è mai possibile che noi non si riesca a rifiutare nulla, per quanto infantile ed imbecille, che ci viene dall' America?) sono nati anche in Italia centri di astrologia, come l'«Inchesegnosei» di Roma, che utilizzano l'informatica ed il computer per fornire pronostici «personalizzati» e, si assicura, rigorosamente «scientifici». Scrive Johan Huizinga  nel suo La crisi della civiltà «Una superstizione, la quale abbia pretese scientifiche, testimonia di una ben più profonda confusione intellettuale che non quella che si contenta di semplici pratiche popolari».