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Civiltà cattolica, la rivista dei gesuiti, ha risollevato la questione di Walter Reder, l'ex maggiore delle SS responsabile dell'eccidio di Marzabotto e detenuto da trentanove anni nel carcere di Gaeta, chiedendone la liberazione. E subito sono scoppiate le consuete polemiche fra coloro che ritengono che Reder debba essere «perdonato» e coloro che pensano che nessun perdono si possa dare a chi uccise centinaia di persone, fra cui vecchi e bambini. Il sindaco di Marzabotto ha detto che, in ogni caso, il perdono spetta a Marzabotto stessa, al «comitato per le onoranze ai caduti», ai parenti delle vittime, e della stessa opinione sembra essere Leo Valiani che sul Corriere della Sera ha scritto che il perdono «tocca ai parenti, ai discendenti, agli amici più stretti delle 1.836 persone trucidate». Il problema, messo in questi termini, è assolutamente mal posto perché non si tratta di concedere o non concedere il perdono, che è un fatto squisitamente personale,  ma d'altro; quella che è in gioco qui è infatti una questione di civiltà giuridica e di civiltà tout court che trascende la stessa persona di Reder e la sua vicenda. Walter Reder ha, puramente e semplicemente, il diritto di uscire perché ha maturato tutti e tre i requisiti che la legge italiana richiede  per la concessione della libertà condizionale a chi è  stato condannato all'ergastolo: l'aver scontato 28 anni di carcere, l'aver tenuto buona condotta, l'aver manifestato il proprio ravvedimento (articolo 176 del Codice penale che non parla affatto, né potrebbe, di perdono da parte di chicchessia). Ora, Reder di anni di galera ne ha fatti 39, la buona condotta ed il ravvedimento gli sono stati riconosciuti dal Tribunale militare di Bari che infatti lo ha ammesso, con sentenza del 14 luglio 1980, alla liberazione condizionale: Sennonché ha ulteriormente condizionato questa libertà condizionale alla permanenza di Reder nel carcere di Gaeta, realizzando così, come dice l'avvocato Bettoni, difensore dell'ex maggiore delle SS, «l'unico caso verificatosi in Italia, e probabilmente nel mondo, di un condannato “scarcerato” che rimane invece nello stesso luogo in cui era incarcerato». Ma la beffa ultima per Reder è che il Tribunale ha stabilito, con suprema ipocrisia, che egli resta a Gaeta «nel suo interesse». La realtà, naturalmente, è che Reder viene tenuto in galera per il timore delle reazioni dell'opinione pubblica italiana, soprattutto di sinistra, nel caso che egli fosse liberato. Ma questa non è una motivazione sufficiente per violare in modo così evidente, così clamoroso e, oserei dire, così vergognoso una legge giusta e civile, quale è quella che dà diritto a Walter Reder di riacquistare la libertà, e che ottempera all'irrinunciabile principio, su cui si basa l'intero nostro ordinamento penale, che il carcere debba essere, per chiunque, un luogo di rieducazione e non solo di espiazione. Furono proprio le sinistre italiane a combattere una lunga, generosa, giusta battaglia per eliminare la pena dell'ergastolo che, come quella di morte, nega quella possibilità di ravvedimento che invece a nessun uomo, neanche al più efferato, può essere a priori rifiutata. Reder in prigione ci ha passato quarant'anni, che sono qualcosa di più dell'ergastolo, che sono qualcosa di più della stessa pena di morte, quasi mezzo secolo di prigione: pensiamoci. In questi anni abbiamo visto terroristi, autori di assassini vilissimi, compiuti in tempo di pace, fuori del clima, comunque particolare, della guerra, cedere dopo pochi mesi di detenzione, impazzire, lasciarsi morire, diventare disponibili per qualsiasi nefandezza, ottenendo la comprensione dell'opinione pubblica. Reder ha passato tutta la sua vita in prigione, in terra straniera, tenendovi un comportamento «eccezionalmente esemplare» come ha riconosciuto lo stesso Tribunale di Bari. Oggi egli è un uomo di settant'anni, con un braccio amputato, l'altro immobilizzato, che ha subito quattro operazioni e a cui sono stati asportati due terzi dello stomaco. La sua colpa, il suo orribile delitto l'ha ormai espiato fino all' ultima goccia, lasciamolo morire in pace senza incrudelire ulteriormente. Negargli quella libertà cui ha diritto non ha più niente a che fare con la giustizia ma solo con la vendetta. Ed è ciò che più sgomenta: perché vuoi dire mettersi proprio in quella logica feroce, barbara e disumana del taglione per cui il nazista Walter Reder fu condannato quarant'anni fa. * * *Una festa i primi anni 70? Non scherziamoRossana Rossanda, dando l'avvio su Rai Tre ad una serie di trasmissioni su «Idee e libri degli anni Settanta», è tornata su una tesi a lei cara (e cara del resto a buona parte della sinistra tipo Manifesto): che, contrariamente agli ultimi, i primi anni Settanta sono stati giocondi, speranzosi, euforici e che in essi si respirava «un'aria di festa» che nulla ha a che fare e a che vedere con le cupezze, le violenze ed il terrorismo che vennero dopo. Mi dispiace contraddire l'autorevole Rossanda, ma non posso farci nulla se i miei ricordi sono diversi. «L'aria di festa», se mai ci fu, riguardò pochissimi mesi, se non giorni, del '68, e fu subito spazzata via da un clima di conformismo, di fanatismo, di intolleranza e di violenza. Erano «aria di festa» le intimidazioni, i pestaggi, i linciaggi di cui si faceva quotidianamente pratica, per esempio, sotto le mura della Statale di Milano nei confronti di chi, per sua sfortuna, non aveva un'aria sufficientemente «di sinistra»? Era «aria di festa» quando, nel gennaio del '72, i katanga scatenati dell' MS sprangarono quasi a morte il sindacalista della Uil Giuseppe Conti, accusato poi, in un comunicato che doveva giustificare l'aggressione, di «alzare il gomito» e di amare la notte? Era «aria di festa» quando, un mese dopo, uno studente ebreo fu selvaggiamente sprangato e mandato, all' ospedale? E quando Sergio Ramelli, missino di 19 anni, fu aggredito, ancora a colpi di spranga, in via Amedeo a Milano e morì dopo 40 giorni di agonia cos'era, era ancora «aria di festa»? Ho l'impressione che Rossana Rossanda confonda «l'aria di festa» con il «fare la festa», che è cosa tutta diversa. * * *Finalmente una legge importante Alla fine di ottobre è stata emanata una legge molto importante sotto il profilo civile alla quale, come a tutte le cose veramente importanti, i giornali hanno dedicato pochissima attenzione. Si tratta della norma che stabilisce che non serve più il certificato di ,«buona condotta» per diventare pubblico dipendente. Dice, più precisamente, la nuova norma: «Ai fini dell'accesso agli impieghi pubblici non può essere richiesto o comunque accertato il possesso del requisito della buona condotta». Perche si tratta di una legge importante? Perche ristabilisce il principio di libertà, fondamentale per uno Stato laico, per cui ognuno, nella misura in cui non viola la legge, e quindi non nuoce agli altri, è libero di essere e di fare ciò che vuole. La «buona condotta» attiene invece a norme extragiuridiche, ha a che fare con la nostra sessualità od omosessualità, con la nostra sobrietà o  ubriachezza, col nostro disordIne e, insomma, con la nostra vita prIvata. Ma la vita privata è cosa che riguarda solo noi e da cui è bene che lo Stato, specialmente uno Stato occhiuto e tendenzialmente totalitario qual è quello moderno, sia tenuto a distanza.