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Non c'è niente da fare: inesorabile monta l'onda per tirar fuori dal carcere anche gli ultimi terroristi che vi sono rimasti. Non si tratta, s'intende, d'un movimento di opinione pubblica - non ho mai sentito in un bar, in un ufficio, in una strada, qualcuno chiedere la scarcerazione dei terroristi - ma della volontà comune della classe politica di questo paese di chiudere con una sanatoria generale un periodo nei confronti del quale ha, evidentemente, una lunga coda di paglia. Non sapendo più dopo la legge sui «pentiti», dopo quella sui «dissociati» dopo gli innumerevoli benefici e sconti concessi ai terroristi, cosa inventare per liberare anche gli «irriducibili», si fanno ora circolare le ipotesi più fantasiose. Si è proposto, per esempio, di subordinare la liberazione dei terroristi al perdono dei familiari delle vittime. E' una proposta grottesca. Se venisse accettata si ritornerebbe ad una giustizia familiare, di clan, basata appunto sui concetti di faida, di vendetta e di perdono. Sarebbe bene ricordare a qualcuno che la giustizia dello Stato nasce proprio per eliminare il circolo vizioso ed interminabile della vendetta privata (René Girard, La violenza ed il sacro, Adelphi). Punire gli autori dei delitti è un interesse fondamentale della collettività intera, non solo di coloro che ne sono vittime. In uno Stato moderno il perdono è un fatto esclusivamente personale, non ha, e non può avere, rilevanza giuridica ed infatti il nostro ordinamento non lo prevede da nessuna parte, nemmeno là dove regola il regime delle attenuanti.Inoltre costringere i parenti delle vittime a pronunciarsi su una simile questione sarebbe fare loro un'ulteriore ed inammissibile violenza.Il senatore socialista Salvo Andò ha invece proposto di condizionare la liberazione dei terroristi ad una loro «accettazione delle regole democratiche». Vorrà dire allora che, da adesso in poi, un assassino, purché democratico, potrà invocare la clemenza dei giudici? La democraticità non è una discriminante penale. In galera ci sono, a buon titolo, tanto cittadini democratici che antidemocratici. Come si vede la nostra classe politica, pur di liberare e di liberarsi degli «irriducibili», non arretra di fronte a niente, nemmeno al ridicolo. Perché? Perché, passando un definitivo colpo di spugna sugli anni di piombo, intende coprire la straordinaria inefficienza dimostrata, a suo tempo, davanti al fenomeno terrorista, le proprie responsabilità, le proprie connivenze. Infatti la classe dirigente di questo paese non solo non è stata in grado di garantire, con i normali e legittimi mezzi che lo Stato ha a disposizione, la vita dei cittadini, non solo ha, in alcune sue rilevanti componenti, civettato e colluso col terrorismo e, nel suo complesso, s'è infischiata del fenomeno fino a quando le strade d'Italia sono state bagnate dal sangue di cittadini qualunque e finché non è stato colpito uno dei suoi massimi esponenti, ma, dopo il delitto Moro, presa dalla paura, per fronteggiare la situazione non ha saputo trovare di meglio che scardinare i fondamenti giuridici su cui si regge una comunità. Prima allargando a dismisura il reato associativo e dimenticando disinvoltamente il principio basilare che la responsabilità penale è personale. Poi con l'ignobile legge sui «pentiti» che lede il diritto costituzionale dell'uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. Infine costruendo quel mostro giuridico che è la legge sui «dissociati» (ha scritto Giovanni Ferrara su la Repubblica: «È davvero una tesi assurda quella per cui la dissociazione culturale, politica e morale da un reato commesso estingue o ridimensiona quel reato e, con ciò, la sua pena»). Ma è proprio perché lo Stato ha violato per primo i principi su cui si sostiene che oggi gli «irriducibili» possono chiedere, con una certa forza contrattuale e la consueta arroganza (si vedano le dichiarazioni di Piperno) che si vada fino in fondo in quest'opera di scardinamento. Anche perché, poi, con le leggi sui «pentiti» e sui «dissociati», che hanno messo fuori autori di omicidi ripugnanti, come Marco Donat Cattin, come Barbone, come Sandalo, come Viscardi, come Savasta, disposti a tutto pur di riguardagnare la libertà, è andata a finire che in galera sono rimasti, in alcuni casi, i terroristi animati da una più autentica tensione morale. Ma, anche qui, la tensione morale non c'entra con la legge, che giudica i fatti e non gli individui. Per questo io credo che l'unica via legittima che la nostra classe dirigente ha per riparare, almeno in parte, agli errori e alle malefatte del passato sia quella di lavorare sul reato associativo, ridimensionandolo drasticamente. Chi, a parte quello di associazione, non ha gravi delitti da scontare ha diritto di uscire. Ma lo ha oggi come lo aveva ieri sulla base del principio che la responsabilità penale è personale e non perché, come sostengono, uniti, gli uomini politici e i terroristi, ci sia la necessità di non si capisce quale «pacificazione nazionale». Qui da pacificare non c'è proprio nulla, se non la coscienza sporca dei nostri governanti.