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Dai e ridai la rottura fra Silvio Berlusconi e Alleanza Nazionale sulla cosiddetta «questione giustizia» è arrivata. Le dichiarazioni con cui la scorsa settimana Gianfranco Fini ha preso le distanze dal leader del Polo sono tutte gravi ma una, in particolare, è pesante come un macigno. Questa: «Il candidato sindaco del Polo a Palermo si dovrà impegnare a lottare contro la mafia e non contro le istituzioni». Parole che sembrano voler dire cha a Palermo Berlusconi avrebbe preferito un sindaco che facesse il contrario: lotta a favore della mafia contro le istituzioni. A queste e alle altre durissime parole di Fini è seguita una frettolosa riappacificazione, ma fa parte di quel che un Berlusconi d'altri tempi, più sfavillante, chiamava «il teatri- no della politica» e non può mascherare la profonda frattura che c'è stata. Io mi meraviglio che non sia avvenuta prima. An non può seguire Berlusconi nella sua costante e devastante campagna di delegittimazione della magistratura italiana. Per almeno tre buoni motivi. Se An è uscita dal ghetto politico ed è oggi all'onor del mondo lo deve anche alle inchieste della magistratura (e proprio di quella magistratura che Berlusconi più contesta) che hanno spazzato via un ' intera classe dirigente pescata con le mani nel sacco della più abbietta corruzione. A differenza di Berlusconi e dei suoi, Fini e i suoi non hanno nulla da temere dalla magistratura perché il Msi, ossia il partito che hanno diretto prima di fondare Alleanza Nazionale, è stato l 'unico del vecchio regime a non aver partecipato, proprio perché escluso e ghettizzato, alla spartizione della torta. Non ha scheletri nell'armadio da nascondere. In terzo e più decisivo luogo, se An è una Destra non può accettare, senza gravissime ripercussioni sul suo elettorato, lo scardinamento dei principi di law and order che le sono peculiari. E invece è proprio questo che fa Berlusconi. Egli non dice, come è suo diritto, che i magistrati sbagliano nell'inquisire lui e i suoi collaboratori perché sono innocenti. No, Berlusconi dice che settori decisivi della magistratura (quelli che han scoperchiato un malaffare enorme, la cui esistenza è stata provata al di là di ogni ragionevole dubbio e quelli che si battono in prima linea contro la criminalità organizzata) sono autori di un «complotto» ai suoi danni e prendono direttive da un partito, il Pds (o lo ricattano, il che fa lo stesso). Si tratta di dichiarazioni eversive e per capirne la gravità è forse utile un paragone con le partite di calcio. La magistratura è come l'arbitro di una partita, in quanto tale può sbagliare e commettere degli errori, anche gravi, anche decisivi, ma la partita continua, ed è valida. Se però una delle due squadre in campo e i suoi tifosi sono certi che l'arbitro è corrotto e si è venduto agli avversari, la partita salta. Fuor di metafora salta ogni possibilità di convivenza civile e chi ha certezze così gravi dovrebbe avere la coerenza di darsi alla lotta partigiana. Invece Berlusconi e i suoi fanno di peggio: restano nelle istituzioni, chiedono di essere da esse garantiti e certamente se qualcuno entrasse in casa loro e gli rubasse l'argenteria si rivolgerebbero alla magistratura. Ora, nessuna partita è possibile se una delle squadre tiene per buone le decisioni dell'arbitro quando le sono favorevoli e nega la loro validità, rifiutando di ottemperarvi, quando le sono contrarie. Siamo ai fondamentali del diritto, del Patto sociale, di ciò che permette a una società di stare assieme. Berlusconi, col suo atteggiamento irresponsabile, sta minando questi principi. Immaginiamo cosa sarebbe successo se altri grandi imprenditori, pur essi inquisiti e anzi condannati, come Romiti, come De Benedetti, avessero sostenuto anch'essi la tesi del «complotto» della magistratura e scatenato i loro giornali in una forsennata campagna di delegittimazione come ha fatto il Cavaliere. L'ltalia non esisterebbe più, almeno come Stato di diritto, saremmo nella giungla dove vige la legge del più forte che non è certo quella del comune cittadino. Sul Tempo di Roma, antico giornale di destra, non certamente ostile a Forza Italia, Mario Caccavale ha scritto in un editoriale di prima pagina (Tempo, 24/9) che Berlusconi «pretende di fatto l'intoccabilità», per sè e per i suoi uomini. lo suggerisco che, se continua a squassare il sistema, questa intoccabilità sarebbe meglio accordargliela. Per legge. Visto che c'è una Bicamerale che ha l'incarico di riformare la Costituzione, si potrebbe inserire una norma transitoria, magari al posto di quelle, comiche, che vietano il ritorno in Italia dei discendenti maschi dei Savoia o la ricostituzione del Partito fascista, che dovrebbe essere formulata, più o meno, così: «Silvio Berlusconi e i suoi discendenti sono esentati dal rispetto del Codice penale, per il passato, il presente e il futuro. La norma si estende anche agli altri membri e ai famigli della Casa di Arcore». Eviteremmo così, perlomeno, di scardinare i nostri Codici e l'intero sistema giudiziario, con gravissime ripercussioni nella lotta alla mafia, alla criminalità organizzata, alla corruzione e con danni irreversibili al principio di legalità e di uguaglianza di tutti i Cittadini davanti alla legge, come invece stiamo facendo da tre anni per risolvere in modo indolore i problemi giudiziari dell' onorevole Berlusconi.