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Sul Corriere della scorsa settimana Angelo Panebianco ha scritto un articolo («La giustizia che non c'è») che sarebbe comico se non fosse vergognoso. Questo professore dinonsisachè, di cui non si ricorda un solo lavoro scientifico degno di tal nome, ma facilmente centinaia di editoriali il cui succo si può riassumere in tre parole «Mercato è bello», senza aggiungere un' oncia, anzi,perdendone molte, a quanto detto da Adam Smith, scopre improvvisamente l'acqua calda, cioè l'inefficienza del nostro ordinamento giudiziario e, attribuendosene il merito, si pone la domanda «a che serve ormai la giustizia penale in Italia?», che da anni si fanno non solo gli operatori del settore e gli osservatori, ma persino i giornalisti (per quel che mi riguarda dal 1980). Chinandosi pensoso sulle statistiche, il professore si accorge che il 95 per cento dei furti, l '86 per cento delle rapine, il 68 per cento degli omicidi non sono puniti. E cercando le responsabilità, le accolla ai Pubblici ministeri che, più o meno, dall'epoca di Mani Pulite avrebbero smesso di perseguire la «criminalità comune» per dedicarsi, per libidine di popolarità, ai grandi fatti di delinquenza politico-amministrativa-imprenditoriale. Il presupposto da cui parte Panebianco è completamente falso. Se si va, infatti, a guardare le serie statistiche precedenti il '92, cioè l'inizio di Mani pulite, si vede che le percentuali dei furti, delle rapine, degli omicidi impuniti sono le stesse.  Mani Pulite non c'entra nulla. La cronica lentezza e inefficienza del sistema giudiziario italiano, penale e civile, dipende in massima parte dalla farraginosità e dal bizantinismo delle leggi, ereditato culturalmente dalle pandette di Gaio e Giustiniano a differenza dell' ordinamento anglosassone che prende direttamente dal diritto romano molto più pragmatico e sbrigativo. II nostro processo, checché ne vadano proclamando i cosiddetti «garantisti», Panebianco in testa, soffre di un eccesso di garanzie e non del suo contrario. Infinite sono le nullità, le invalidità, spesso solo formali (Carnevale docet), le eccezioni, le possibilità di ricorso, di ricusazione, di revisione, i conflitti di competenza, per territorio, materia e funzione, moltiplicati per tre gradi di giudizio, su cui l'imputato con la coscienza sporca può giocare. Basta por mente alla vicenda Sofri per capire dove sta il marcio del nostro sistema. C'è stata una condanna di primo grado, una di secondo grado, un rinvio alla Corte d' Appello da parte della Cassazione, una sentenza assolutoria, un secondo rinvio della Cassazione, una terza sentenza di condanna e una conferma della Cassazione che avrebbe dovuto essere definitiva. Ma la difesa di Sofri ha fatto ricorso per ottenere la revisione del processo che la Corte d' Appello ha respinto. Nel frattempo Sofri aveva cercato di invalidare le precedenti sentenze sostenendo una prima volta che uno dei giudici si era lasciato sfuggire parole di colpevolezza prima della decisione e, una seconda, che un giudice togato aveva subornato quelli popolari (ricorsi respinti). La vicenda Sofri è costata finora dieci procedimenti. Ma non è finita, perché contro la decisione che respingeva il ricorso per revisione, Sofri si è appellato alla Cassazione che potrebbe decidere di rinviare la pratica alla Corte d' Appello e tutto ricomincerebbe da capo e così, kafkianamente, all'infinito. È ovvio che in un simile guazzabuglio la pena, quasi mai applicata e applicabile, abbia perso, come scrive Panebianco, ogni «funzione dissuasiva». Ma è indecente che tale rilievo venga da chi, come Panebianco, si è battuto per l'introduzione , di ulteriori zeppe nell'  attività dei Pubblici ministeri (per esempio l'art. 513), da chi, come Panebianco, ha invocato «colpi di spugna» anche per quei pochi reati di Tangentopoli arrivati a sentenza definitiva, per chi, come Panebianco, lamenta l'assenteismo della magistratura, salvo poi prendersela con le Procure di Milano, Palermo e Napoli, e plaudire alle ispezioni ministeriali, perché lavorano troppo. L'intento del professor Panebianco è evidente: i magistrati la smettano con la sconvenienza di indagare sui delitti dei «potenti» e ritornino a occuparsi dei «reati comuni» come se la corruzione, la concussione, il peculato fossero qualcosa di diverso e chi compra un magistrato sia meno socialmente pericoloso di un topo di appartamenti. In soccorso a Panebianco è venuta l' ex suorina di sinistra Tiziana Maiolo che sul Corriere (24/3) propone tout court la depenalizzazione dei reati contro il patrimonio. Con ciò si sancirebbe finalmente quella giustizia di classe cara ai Panebianco e alle Maiolo di tutte le risme: una per i ricchi, civile, e con pene solo pecuniarie, e una per i poveri, penale e con galera. Sono infatti i poveri che, in genere, compiono reati di sangue. I ricchi e i borghesi, in genere, non si sporcano le mani con queste cose. Non per virtù. Ma per mancanza di vitalità e abitudine al rischio. Il borghese per delinquere ha quasi sempre bisogno dell'intermediazione distanziante e rassicurante del denaro. Senza contare che in una società come la nostra, interamente dominata dall' economia, i reati finanziari non hanno, per ciò, una gravità minore ma, anzi, ne acquistano una maggiore perché è attraverso di essi che un individuo può costituirsi una posizione di privilegio che può arrivare a inquinare la vita civile, il mercato e persino la politica e la democrazia.