Archie Moore, morto nei giorni scorsi a 84 anni, è stato l'unico uomo al mondo a mettere al tappeto, per qualche istante, Rocky Marciano, in un memorabile incontro che si svolse il 21 settembre del 1955 e che vide di fronte il più grande mediomassimo e il più grande massimo di tutti i tempi. Ricordo la sequenza fotografica del meraviglioso Sport Illustrato, -l'unico strumento, allora, a disposizione di noi ragazzini per avere le immagini, a colori, degli avvenimenti sportivi- che dava conto dello straordinario evento: si vede Marciano cadere al tappeto, Marciano che puntando i guantoni a terra cerca di rialzarsi, Marciano che solleva la testa e guarda, dal basso in alto, l'avversario in piedi, con uno sguardo tale che in quel momento tu vorresti essere qualsiasi persona al mondo tranne che Archie Moore. Marciano si rialzò, riempì di botte l'avversario per sette riprese e infine, alla nona, lo mise al tappeto per il conto totale. Lo score di Marciano è questo: 49 incontri, 49 vittorie, 43 per kappaò. Nessuna sconfitta, nemmeno un pareggio, solo in sei sono riusciti a finire in piedi. Ezzaro Charles, dopo un incontro con lui, disse: «Prendere un pugno da Marciano è come essere investiti da una locomotiva con ventiquattro vagoni dietro». Nonostante questa immaginifica frase Marciano più che possedere il pugno fulminante era un demolitore; «demolitore di case» lo chiamavano infatti negli States. Aveva una boxe piuttosto elementare, un coraggio senza pari, veniva avanti a piccoli passi, senza dare un pugno, anche per due, tre, quattro riprese, aspettando il momento giusto per colpire. E quando questo arrivava per l'avversario era la fine: perdeva tutta l'agilità e allora Rocky si avventava con furia selvaggia su quel bersaglio immobile e lo seppelliva di colpi che facevano male anche quando finivano sulle braccia o sulle spalle. In genere chi aveva incontrato Marciano non risaliva più sul ring (proprio Archie Moore è una delle rare eccezioni). Che Marciano sia stato il più grande lo dice il suo record. Non c'è Cassius Clay che tenga. «La Lingua» avrebbe danzato e ballato intorno a Rocky per molte riprese, stuzzicandolo e imbestialendolo come fanno i banderilleros con il toro, ma prima o poi un pugno lo avrebbe centrato e avrebbe smesso di danzare. L'unico, forse, che sarebbe stato in grado di combattere alla pari con Marciano è Sonny Liston. Non fatevi ingannare dai libri dei record che raccontano che Clay lo ha battuto due volte. furono incontri-farsa. Il vecchio Liston, un truce ex carcerato, cocainomane, legato ancora agli ambienti della malavita, ricattabile, doveva lasciare strada al giovane, bello, solare e spettacolare Cassius Clay, la stella nascente da cui gli organizzatori americani si attendevano montagne di dollari. Di traverso a questi affari stava, appunto, quel brutto ceffo di Sonny. Gli imposero di togliersi di mezzo. La cosa avvenne nel modo più ridicolo. La prima volta, a Miami (25 febbraio 1964) , Liston si rifiutò di riprendere il ring dopo la sesta ripresa sostenendo che gli si era slogata una spalla, un incidente mai visto in tutta la storia del pugilato. Ma il secondo incontro, combattuto non a caso in una piazza periferica (Lewinston, 25 maggio 1965), fu ancora più grottesco. Liston andò al tappeto dopo un minuto senza che nessuno avesse visto partire un pugno di Clay, e da lì, da terra, «The Big Bear» (così era chiamato) , rideva, rideva del riso feroce e amaro del campione che ha dovuto umiliare il proprio orgoglio davanti a un bamboccio in nome dei dollari (sia detto di passata: che gli americani si siano bevuti le versioni ufficiali sugli incontri Liston-Clay e sull'assassinio di Kennedy per mano di Oswald la dice lunga su quel popolo). Liston, dunque, è il solo che avrebbe potuto tenere testa a Marciano. Con questa differenza: mentre «The Big Bear» era un colosso, grande come un armadio, Marciano era un uomo normale, semplicemente ben piazzato, alto 1,80 e di peso al limite dei massimi. Rocco Marcheggiano (questo il suo vero nome, perché era di origine italiana) si ritirò a 28 anni, imbattuto e fisicamente integro. Era un ragazzo semplice ma intelligente e voleva godersi la vita con i quattrini che si era sudati sul ring. Morì invece qualche anno dopo pilotando il proprio aereo da turismo (come il pilota inglese Graham Hill, che aveva fatto la stessa scelta), perché Dio non ama i sogni degli uomini. In quanto ad Archie Moore gli sopravvisse non solo fisicamente ma pugilisticamente per molti anni. Poiché nella sua categoria era troppo forte (202 vittorie, 145 per kappaò) incontrò ancora due campioni dei massimi, Floyd Patterson e Cassius Clay, ma perse Con entrambi. Nel 1960, quasi cinquantenne, venne a Roma per battersi Con l'idolo locale, Giulio Rinaldi, in un match senza titolo in palio. Anche questo era un incontro accomodato. Moore giocò di scherma raffinatissima senza prendere un pugno ma anche senza darne. Quando gliene scappò uno colpì Rinaldi alla punta del mento. l'Italiano rimase un paio di secondi immobile, Con le braccia lungo i fianchi, il viso in avanti, totalmente esposto, ma Moore, che era un maestro proprio nelle serie, non doppiò. Si rifece l'anno dopo in America, col titolo in palio, dando al malcapitato Rinaldi una lezione di boxe. Si ritirò nel '63 quando era ancora campione dei mediomassimi. Il titolo glielo tolsero d'autorità perché aveva 50 anni (ma secondo alcuni erano anche di più). Ci si era un po' dimenticati di lui. Ora la morte lo restituisce, definitivamente, alla sua inimitabile leggenda.