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La vicenda Sofri è giunta al suo undicesimo pronunciamento giudiziario. Per ora. Ci sono state sette sentenze fra primo grado, Appello e Cassazione, quattro di condanna, due interlocutorie e una sola di assoluzione, la quarta, poi cassata dalla Suprema Corte perché la motivazione era in totale contrasto col dispositivo in quanto riconosceva che l'accusa di Leonardo Marino era veritiera almeno là dove era un'autoaccusa ma lo mandava ugualmente assolto assieme agli altri. Per questa motivazione ( che è stata chiamata «suicida» ma che in realtà prendeva semplicemente atto di quanto avvenuto in camera di consiglio) Sofri e compagni hanno denunciato per «abuso d'ufficio», davanti al Tribunale di Brescia, il giudice che l'aveva materialmente stesa, Fernando Pincioni. Ma il Gip, Anna Di Martino, ha archiviato. Successivamente quando la Corte d'Appello di Milano ribadì la condanna, Sofri e gli altri denunciarono, sempre a Brescia, il presidente di quel Tribunale, La Torre, perché avrebbe espresso giudizi sfavorevoli agli imputati prima del dibattimento e perché avrebbe subornato gli altri giurati. Anche qui il Gip Di Martino archiviò. E fan nove. In seguito, dopo la condanna definitiva della Cassazione e la carcerazione dei tre imputati, c'è stata la richiesta di revisione del processo respinta dalla Corte d' Appello di Milano l'11 marzo 1998 e,nei giorni scorsi la sentenza della Cassazione che ha rinviato gli atti alla Corte d' Appello perché si pronunci nuovamente sull'ammissibilità o meno della revisione del processo. E fan undici. Se la Corte si dichiarerà (dodicesimo pronunciamento) per la revisione, ci sarà un nuovo processo (tredicesimo) la cui sentenza sarà poi impugnata in Cassazione (quattordicesimo) che potrà cassarla, rinviando alla Corte d'Appello che dovrà ripronunciarsi e così via all'infinito. Ma anche qualora la Cassazione dovesse convalidare il giudizio della Corte d'Appello ed emettere una sentenza «definitiva» questa, se di condanna, non sarebbe affatto tale perché gli imputati potrebbero sempre scovare «fatti nuovi» del tipo di quelli che sono stati addotti per chiedere l'attuale revisione (testimoni che a distanza di un quarto di secolo ricordano circostanze di cui non avevano trovato modo di fare menzione in sette processi) per ottenere una revisione della revisione. Basta questa esposizione, nuda e cruda, per capire che il sistema giudiziario italiano ha fatto bancarotta, ma per un eccesso di garanzie e non per un loro difetto come da tempo si va gridando. A differenza infatti del sistema anglosassone, che, prendendo dal diritto romano contadino e pragmatico, privilegia la rapidità, scontando la possibilità di un margine di errore, il nostro, che prende da quello bizantino, ha invece la pretesa dell'infallibilità. Perciò predispone innumerevoli garanzie e controgaranzie, pesi e contrappesi, possibilità di eccezioni, di invalidità, di nullità, casi di incompetenza (per territorio, materia, funzione), il tutto spalmato su tre gradi di giudizio -caso unico al mondo -cui se ne può aggiungere un quarto, la revisione. Il processo è così portato a spasso per anni e per decenni diventando di fatto inservibile, una pura finzione anche se costosissima in termini economici e di un inutile dispendio di energie. Non è questa la funzione del processo e, più in generale, del diritto, i quali non devono aspirare all'accertamento di una verità storica incontrovertibile, ma devono accontentarsi di una più modesta verità giuridica che definisca, in tempi ragionevoli e una volta per tutte, le questioni penali, civili, amministrative che sorgono fra gli uomini. La certezza storica, sempre rivedibile, non coincide necessariamente con quella giuridica che ha bisogno di mettere dei punti fermi e di passar oltre perché la vita della comunità possa proseguire. La possibilità dell'ingiustizia, sempre presente nelle cose umane, è lo scotto che la giustizia deve pagare a se stessa. La pretesa assoluta di evitare l'errore porta inevitabilmente all'errore più sicuro e più grave, perché allungando a dismisura le procedure fa sì che la giustizia non arrivi mai o arrivi in tempi biblici, non umani, inservibili. Come sapevano i latini, e come sanno oggi gli anglosassoni, una giustizia che arriva tardi è sempre denegata giustizia. E nessuno, nè l'individuo nè la società, sa che farsene di un diritto che venga risarcito o di un torto che venga riparato dopo venti o trent'anni. Il processo italiano, penale e civile, non adempie quindi alla sua funzione che è quella di produrre certezze di diritto e di rapporti giuridici. Da noi nulla è mai definito e definitivo, tutto è sempre, perennemente, in discussione. In giro c'è un processo Moro quater o quinquies, a ventinove anni di distanza esiste un procedimento su Piazza Fontana, l'inchiesta per Ustica non è ancora conclusa, la vicenda De Benedetti si è trascinata per più di tre lustri e così sarà sicuramente per Berlusconi il cui abile e possente collegio difensivo è riuscito a rinviare alle calende greche alcuni processi con cavilli tanto ineccepibili quanto risibili (una volta un giudice ha detto una frase incauta a proposito del calendario delle udienze, un'altra il Cavaliere non è stato citato come possibile parte lesa di se stesso), Pacciani era stato appena assolto che subito si è riaperta l'inchiesta su di lui, solo crepando si è tolto dalle pastoie della giustizia perché in Italia l'unico, vero e solo giudizio giuridico definitivo è quello del cimitero.