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La cosa grave non è che le autorità politiche italiane, e forse anche quelle militari, non siano state avvertite dalla Nato dell'uso di uranio impoverito in Bosnia, la cosa grave è che queste armi, 10 mila proiettili in Bosnia, 30 mila in Kosovo, siano state usate. Perché ciò finisce di delegittimare, se ancora ce ne fosse bisogno, le «missioni umanitarie» e di «peace keeping» che la Nato, senz'ombra di legalità internazionale, ha compiuto negli ultimi dieci anni (quella del Golfo non è stata una «missione umanitaria» né di pace, era un atto di guerra legittimato dall'aggressione al Kuwait, stato sovrano, da parte dell'Iraq e avallata dall'Onu). Che c'è di «umanitario» in armi chimiche, perché di questo si tratta, che per la loro natura colpiscono soprattutto le popolazioni civili, cioè proprio coloro che si dice di voler difendere e in nome dei quali si interviene? Oggi in Bosnia e in Kosovo i bambini, più a contatto col terreno, curiosi, com'è naturale del materiale bellico (lo eravamo anche noi, ragazzini italiani del dopoguerra), sono esposti al rischio di radiazioni atomiche che, com'è noto, hanno un'azione quasi illimitata nel tempo. Ma rischia anche chi si ricostruisce una casa con mattoni di palazzi abbattuti con proiettili all'uranio impoverito, rischiano gli animali che si abbeverano e quindi è messa a repentaglio tutta la catena alimentare, rischia chi semplicemente vive nelle zone contaminate e rischiano, ovviamente, i soldati mandati sul posto per mantenere la pace, italiani compresi. Bisognava aspettare le «missioni di pace» della Nato per vedere l'uso di armi chimiche in funzione «umanitaria». Dopo le strategiche esperienze della prima guerra mondiale (dove comunque la potenzialità di questo tipo di armi era ancora piuttosto bassa), nemmeno Adolf Hitler, dico Adolf Hitler, aveva osato utilizzare le armi chimiche, per la loro insidiosità e perché ricadono anche su chi le utilizza. Nei tempi moderni ci ha provato solo Saddam Hussein, negli anni Ottanta, sulla città curdo-irachena di Halabaya, assassinando cinquemila civili nel silenzio complice della comunità occidentale perché allora Saddam non era ancora «il mostro» ma un criptoalleato in funzione antikomehinista. Usare armi chimiche in missioni cosiddette «umanitarie» è una contraddizione in termini. Se per sconfiggere l'esercito serbo erano necessari le armi chimiche allora era meglio non intervenire. Perché le armi chimiche hanno messo a repentaglio la vita delle popolazioni civili (per ieri, per oggi e per domani) più di quanto abbiano fatto i soldati e le milizie paramilitari serbe in Bosnia e Kosovo. Già senza armi chimiche l'intervento della Nato in Bosnia era a dir poco stravagante. In Bosnia infatti si stava combattendo una guerra, fra serbi, croati e musulmani, che aveva le sue buone ragioni d'essere. Ricapitoliamo. Agli inizi degli anni Novanta, dopo il crollo del muro di Berlino e del comunismo europeo, Croazia e Slovenia avevano proclamato il loro diritto all'indipendenza della Jugoslavia. Diritto sacrosanto, in base al principio dell'autodeterminazione dei popoli sancito ad Helsinki, prontamente riconosciuto dalla comunità internazionale. A quel punto però anche i serbi di Bosnia proclamarono il diritto all'indipendenza da uno Stato, la Bosnia, che oltretutto non era mai stato tale. Una Bosnia multietnica, a governo musulmano, aveva infatti senso in una Jugoslavia multietnica. Dopo lo sfaldamento della Jugoslavia la stessa esistenza della Bosnia, come Stato, era un non senso. Ma la comunità internazionale non riconobbe ai serbi quei diritti che aveva riconosciuto agli sloveni e ai croati e i serbi scesero in guerra. In questa guerra furono compiute delle atrocità, da parte dei serbi ma anche degli altri, come avviene quasi in ogni guerra perché ci vuole un grandissimo autocontrollo (da esercito asburgico del Settecento, prima che quel teppista di Napoleone venisse a scompligliare tutto), per comportarsi anche in guerra con un minimo di lealtà. Si ha l'impressione che ciò che ha turbato le nostre animucce occidentali, e soprattutto americana, siano stati i feroci corpo a corpo che si sono visti in Bosnia e in Kosovo. Ma è più crudele, più disumano, il corpo a corpo e lo spargimento di sangue o l'uso di armi asettiche, tecnologiche, che, senza spargere sangue, uccidono nel modo più insidioso, più subdolo, più sleale? È più disumano il sangue, che  si vede, o il tumore perché non si vede? L'intervento in Bosnia, alterando l'ecologia della guerra e negando ai serbi la vittoria che avevano ottenuto sul campo di battaglia, non ha risolto assolutamente niente, tanto che in Bosnia devono restare decine di migliaia di soldati in armi per mantenere una pace fasulla che salterà come un tappo di champagne appena se ne andassero, e quella "pulizia etnica" che era stata imputata ai serbi con grandi strilli (a proposito, dov'è finita Emma Bonino?) ha finito poi per farla la Nato, così come è poi avvenuta anche in Kosovo. Io credo - e lo scrivo da tempo su questo, libero giornale che, pur avendo, probabilmente, una maggioranza di lettori che la pensa in modo opposto, mi consente di farlo - che si debba tornare al sano principio che i popoli hanno diritto a farsi la guerra in santa pace, senza pelose supervisioni che alterando il verdetto del campo di battaglia, a favore del più debole contro il più forte, come è avvenuto in Bosnia e in Kosovo, creano una situazione di instabilità permanente. In Bosnia duecentomila persone (tante sono state, in cinque anni, le vittime) sono morte per niente. Perché la funzione della guerra - se mai ne ha avuta una - è quella di risolvere un conflitto una volta per tutte. Invece in Bosnia e Kosovo c'è ora una situazione potenzialmente esplosiva perché i serbi, che per ragioni geopolitiche, culturali e storiche sono i più forti della regione, non resteranno a lungo a subire l'egemonia albanese e musulmana. E in ogni caso c'è un contrappasso grottesco, oltre che doloroso, nel fatto che per «motivi umanitari» e di pace siano state usate delle armi, quelle chimiche, che sono le più disumane mai apparse sulla scena della guerra