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Qualche anno fa vidi sulla Rete Tre un bel documentario sulla vita di un esquimese, di nome Anarvik, che abitava nell'estremo nord del Canada. Viveva di nomadismo, di pesca, al salmone naturalmente, di giornate di caccia passate a procurarsi col suo winchester il cibo e il vestiario essenziali per sé e la sua famiglia. Era una vita piena di fatiche e di incognite, legata al raccolto di giornata, ma, a quanto pareva, serena se non addirittura felice. Ma nella zona fu trovato il petrolio e arrivarono le trivelle, i canadesi, gli americani e la civiltà. Il documentario faceva vedere com'era cambiata l'esistenza di Anarvik: adesso, provvisto di divisa regolamentare, lavorava come commesso in un Supermarket, reparto surgelati, dove potenti motori ottenevano, con grande dispendio di energia, quel freddo che la natura intorno offriva senza risparmio. Prima Anarvik viveva, con altri nomadi come lui, in spazi liberi e la sua esistenza aveva dignità, identità e un senso, dopo era diventato una caricatura di se stesso, una grottesca parodia, perché un esquimese che lavora in un surriscaldato reparto surgelati è una contraddizione in termini, è solo ridicolo. Quel vecchio documentario mi è venuto in mente apprendendo la storia del popolo Innu, che vive nelle gelide regioni del Labrador, perché porta alle estreme ma logiche e prevedibili conseguenze, dandole un significato collettivo, anzi universale, la singola vicenda umana di Anarvik. Questa storia sono venuti a raccontarla in Italia, a Milano, alcuni membri della tribù Innu, aiutati dall'organizzazione Survival International. Anche gli Innu vivevano di nomadismo, di caccia e di pesca e correvano liberi per i loro vasti territori che non interessavano nessuno perché per la maggior parte dell'anno sono coperti dal ghiaccio, Poi un giorno gli occidentali scoprirono che anche quei terreni inospitali e quella comunità di pur sempre potenziali consumatori potevano essere appetibili e il governo canadese ha deciso di portare fra gli Innu la modernità e la civiltà. Espropriò quei territori e costruì scuole, ospedali, chiese, supermercati, distributori di benzina, ha innalzato dighe, aprì miniere e diede ad ogni capofamiglia Innu uno stipendio di 100 dollari. Tutto molto bene. Oggi gli Innu vivono in una condizione di totale abbruttimento, alcolizzati, drogati, violenti. I suicidi, fenomeno sconosciuto a quella popolazione come ad ogni comunità tribale, mietono vittime soprattutto fra i giovani e i giovanissimi e i ragazzi che non si sopprimono si stordiscono sniffando benzina o colla. L'85% degli abitanti sopra i quindici anni è alcolizzato. Nel giro di pochi anni gli Innu si sono ridotti a 20 mila unità e vanno verso l'estinzione. Ha detto Apes Ashini (che guidava la minidelegazione Innu, tre persone e il cui figlio quindicenne, che si faceva pateticamente chiamare «Mister T», come il personaggio di un cartoons americano, si è suicidato proprio mentre il padre si trovava in Italia): «Siamo stati costretti ad apprendere cose non nostre. Il governo e i missionari hanno creato una confusione orribile, nessuno di noi riesce più a capire chi è. E non credo che lo capiremo mai, perché le cose che ci dicono non sono nostre e così siamo considerati solo degli ubriaconi maleducati e ignoranti. Noi rivogliamo i nostri territori e il controllo della nostra vita». Non c'è niente da fare, l'Occidente è come il «Candide» di Voltaire. Pensa di aver costruito «il migliore dei modelli possibili» e vuole imporlo all'universo mondo, anche a chi ne ha fatto per migliaia di anni volentieri a meno. Non concepisce «l' altro da sé». Con le sue buone intenzioni e i suoi missionari ha spazzato via culture, tradizioni, lingue, modi di vita diversi dal nostro, devastato intere popolazioni dei cosiddetti Terzo e Quarto Mondo e ha assassinato e sta assassinando milioni se non decine di milioni di uomini, di donne, di giovani, di bambini. Ma per questo genocidio non è previsto nessun tribunale internazionale dell'Aja. Al suo posto c'è il G8.