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Una minoranza ha cercato a Genova la violenza e il morto. E li ha puntualmente trovati. In questa minoranza comprendo anche le cosiddette «tute bianche» che sono radicalmente estranee ai moventi profondi del «popolo di Seattle» a cominciare dal loro nome (per l'antiglobalizzazione il lavoro non è un valore) e che hanno fornito ai «black block» l'acqua in cui nuotare, sia ideologicamente che materialmente.E' difficile non essere d'accordo col portavoce del Genoa Global Forum, Agnoletto, quando si chiede e chiede come mai in una città sottoposta a tanti controlli e divieti, dove a rigore non avrebbe dovuto entrare neanche uno spillo non autorizzato, abbiano potuto spadroneggiare, quattrocento ragazzi armati di tutto quanto serve alla guerriglia, passamontagna, bastoni, spranghe, molotov.Non sarò così ipocrita da piangere la morte di questo ragazzo. Altre, e ben più numerose, sono le vittime della globalizzazione e della modernità. Il direttore de “La Repubblica”, Ezio Mauro, scriveva ieri: «In politica la violenza non si misura a dosi e quantità, non conosce fini nobili che la giustifichino, né contesti che la assolvano». E' ridicolo. Senza la violenza non ci sarebbe stata la Rivoluzione francese,in nome della quale Mauro scrive, quella russa, non ci sarebbe stata l'America, non ci sarebbe stata l'unità d'Italia, non ci sarebbe stata la vicenda umana. La violenza è una delle levatrici della storia, non la sola ma una delle più importanti, e aver cercato di eliminarla del tutto, disconoscendo la vitale aggressività dell'uomo e sostituendola con la competizione economica, è uno dei tanti errori della modernità, dell'Illuminismo e della sua astrattezza.Il movimento di Seattle non è pacifista, è pacifico che è cosa diversa. Per la semplice ragione che la violenza, la guerriglia urbana, i morti non gli servono, ma lo danneggiano profondamente. A cominciare dal fatto che se non si sapesse che ormai ogni manifestazione antiglobal viene ogni volta coinvolta in scontri pericolosi, molta più gente sarebbe accorsa a Genova e altrove, intuendo, se non proprio capendo e razionalizzando, che si sta giocando una partita importante e forse decisiva per le sorti della nostra specie.Le questioni poste dal movimento antiglobalizzazione ci riguardano infatti tutti, ricchi e poveri, anzi più i ricchi che i poveri. Non si tratta di cavarsela con quattro soldi elargiti ai Paesi del Terzo Mondo, come dicono adesso, con la faccia contrita, Bush e Berlusconi. Fosse questa la questione sarebbe semplice. In discussione c'è ben altro. Sono le nostre automobili, i nostri telefonini, le nostre fabbriche, le nostre vacanze ai Caraibi, Internet e le e-mail, il nostro modo di produrre e di consumare, il mito del lavoro, le meraviglie dell'ingegneria genetica, il biotech, le madri a sessant'anni e le nonne che sono madri dei loro nipoti e sorelle delle loro figlie, i trapianti, gli espianti, le clonazioni. Insomma in discussione ci sono proprio i successi della modernità non i suoi fallimenti. E' il mostruoso ambaradan che abbiano cominciato a mettere in piedi a partire da due secoli e mezzo fa coll'illusione, la pretesa e poi un'ubris impazzita di costruire, per dirla col Candide di Voltaire, «il migliore dei mondi possibili». E' il nostro modello di sviluppo che è in discussione, per intero e alla radice. Noi, poveri e ricchi che si sia, ma più i ricchi che i poveri, non riusciamo più a tollerare la spaventosa accelerazione che ha imposto alle nostre esistenze questo meccanismo, tecnologico, industriale, economico, di cui i cosiddetti «Grandi» che si sono riuniti a Genova non sono che le marionette e, a loro volta, delle vittime, anche se non innocenti.Si può essere d'accordo col movimento antiglobalizzazione, si può essere contro. Entrambe le posizioni sono, ovviamente legittime. Ma quel che è sicuro è che questi due mondi sono inconciliabili e che non sono possibili mediazioni, di preti, di sinistra, di Papi, di organizzazioni non governative finanziate dai governi, di missionari, di elemosinieri. Perché ogni tentativo di razionalizzare il nostro modello di sviluppo, come dimostra la storia degli ultimi due secoli e mezzo, non fa che renderlo più angoscioso, spietato e disumano.