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Ogni volta che un provvedimento giudiziario raggiunge il premier, un ministro, un sottosegretario, un parlamentare, un governatore, un assessore, un amministratore pubblico, un segretario di partito, si parla immancabilmente di «uso politico della giustizia». Ma anche chi non pensa che i magistrati siano autori di un «complotto» afferma che, in tal modo, essi fanno «oggettivamente» politica e ciò è inaccettabile perché la politica deve mantenere la più totale autonomia dal potere giudiziario. Se ogni volta che la Magistratura colpisce un politico si ingerisce arbitrariamente in un campo che non le compete o, come si esprime Vittorio Feltri su «Il Giornale», «usa mezzi impropri» a fini politici, l’unica conseguenza logica che se ne può trarre è: la classe politica deve essere esentata dal rispetto del Codice penale. Anche se non viene mai detto in modo esplicito, è questo l’obiettivo cui si vuole arrivare, di riffa o di raffa.

E giusto? A me pare proprio di no. Non solo perché ciò lede il principio fondamentale di ogni liberaldemocrazia dell’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, ma perché le classi dirigenti dovrebbero essere le prima a dare il buon esempio. Si pretende che abbia almeno i doveri di tutti gli altri cittadini, mi pare il minimo. Da noi invece i politici vogliono sottrarsi alle leggi che essi stessi fanno.

Un privilegio di cui nemmeno il monarca costituzionale godeva. Tutto sarebbe più semplice se gli uomini politici non commettessero reati a valanga, se nel loro ambito il reato rimanesse un’eccezione. Ora è vero che le democrazie sono storicamente e statisticamente i regimi più corrotti - e già questo dovrebbe far riflettere - perché si basano sul consenso, e per avere consenso ci vuole il denaro e per avere l’uno e l’altro si è disposti ad ogni disinvoltura, ma in Italia la corruzione ha superato ogni limite fisiologico.

Sono almeno quarant’anni - da quando è via via scomparsa la classe dirigente selezionata dalla guerra - che assistiamo a una serie ininterrotta di scandali. Non è una «questione morale» come si dice, è una questione penale. Eppure la nostra popolazione sembra accettare questo stato di cose. Col robusto appoggio della maggioranza dei media ogni motivo è buono, ogni sofisma è valido, per assolvere i politici corrotti. Craxi, fuggito dal proprio Paese per non scontare una condanna a dieci anni di reclusione, non è un latitante, ma un «esule», come Gobetti, come Nenni, come Pertini durante il fascismo. Per Berlusconi si parla, come fatto assodato di «accanimento giudiziario» una categoria giuridica mai esistita di cui potrebbe valersi, chiedo scusa per il paragone, anche Totò Riina.

Ho sentito il ministro La Russa affermare, come tanti altri, che questo «accanimento» è provato dal fatto che l’imprenditore Berlusconi è stato lasciato in pace per vent’anni e la Magistratura ha cominciato ad occuparsene solo quando è diventato un leader politico. La Russa dimentica che in mezzo c’è stata Mani Pulite che ha perseguito politici e imprenditori di prima grandezza, Fiat compresa, e che quindi non è poi così strano se a un certo punto è arrivata anche a Berlusconi. O costui è l’unico giglio immacolato in un cesto di fiori marciti? Se ha sbagliato paghi, come tutti gli altri. Il consenso, anche strameritato, non può diventare un’autorizzazione a delinquere.