pubblicato su il Fatto l'8 dicembre 2010
Ieri ho letto sul Corriere della Sera un titolo che mi ha fatto sobbalzare: «Vespa: noi moderati condannati al Lazzaretto». Era una lettera aperta al direttore in cui il conduttore di "Porta a porta" lamentava che alla presentazione di un suo libro al Multicenter Mondadori di piazza Duomo era stato preso a parolacce da Pietro Ricca e da alcuni suoi amici che lo accusavano di essere «un servo ben retribuito» e di fare «un uso scorrettissimo del servizio pubblico» mentre nessuno, «tranne due signori, ha avuto la forza e il coraggio» di difenderlo.
Lazzaretto? Costui conduce da quattordici anni un talk-show spalmato, caso unico nella storia della Radio-Televisione italiana, su quattro serate, senza contare le infinite apparizioni in tutti i programmi Tv quando deve sponsorizzare un suo libro e altri inserimenti vari durante l'anno. E sarebbe lui il discriminato? E cosa dovrebbero dire allora altri che in Tv non hanno neppure potuto metterci piede? Vespa con la consueta arroganza, che è anche quella dei Mimun e dei Minzolini e di altri lacchè televisivi di Berlusconi, con la differenza che il suo mestiere lo sa fare perché a suo tempo fu scelto da quel grande uomo di televisione che è stato Ettore Bernabei, afferma di «non aver mai visto dei Maradona in panchina». A parte che Vespa non è Maradona, ma solo un disonesto mediano di contenimento al servizio del suo padrone, un tempo la Dc oggi il Cavaliere, come fanno i ragazzi del vivaio a farsi vedere se in squadra giocano sempre gli stessi? Anni fa a Telelombardia c'era un giovane giornalista, Daniele Vimercati, che conduceva un talk-show, Iceberg, che era più obiettivo, più divertente, più ironico, più autoironico e infinitamente più libero e indipendente del plumbeo programma di Bruno Vespa. Ma in Rai non ha potuto metterci piede perché non era sufficientemente sponsorizzato da un partito. La trasmissione di Vespa è asfittica non solo perché da tre lustri è condotta dalla stessa persona, ma perché, che parli di politica o di costume o faccia i suoi indecenti "processi paralleli", si serve sempre della stessa compagnia di giro. Mai che spiri, nemmeno per sbaglio, un po' di aria nuova, che si dica qualcosa che non sia trito e ritrito, scontato.
Vespa ha sempre lavorato al servizio di un padrone. Lo ammise lui stesso nell'aprile del 1992 quando disse: «il mio editore di riferimento è la Democrazia Cristiana». E io sull'Indipendente di allora, che certo non aveva nessuna simpatia per la Prima Repubblica ma al contrario si dava da fare per contribuire a disarcionarla, lo difesi perché, per una volta nella sua viscida vita, aveva trovato il coraggio di dire la verità ("Ma Vespa ha detto la verità", Indipendente, 30/4/1992). Un giornalista di una Tv pubblica non dovrebbe essere di parte. Altrimenti non è più un giornalista ma un agit-prop. La cosa naturalmente non riguarda solo Vespa, ma tutti, i Fazio, i Floris, i Paragone, i Santoro che è una specie di "doppel ganger" di sinistra di Vespa. Non è possibile fare diversamente? È possibilissimo. Alla Televisione svizzera, dove sono stato a volte invitato, il conduttore non fa il domatore alla Santoro né il mellifluo supporter soccombista di qualche leader politico, fa il conduttore cercando di stimolare gli ospiti a dire al meglio le proprie opinioni, a fornire le proprie conoscenze, rimanendo rigorosamente neutrale. E i programmi di approfondimento della pur vicinissima e italianissima Tv (o Radio) del Canton Ticino sono di primissimo ordine, non il guazzabuglio inverecondo cui ci tocca assistere ogni sera. Quando sono terminati il telespettatore ne sa un po' di più sull'argomento, ha le idee un po' più chiare.
L'altro giorno Tiziana Maiolo mi raccontava, indignata, di essere vittima di «una sorta di maccartismo» perché da quando è passata al partito di Fini nessuno osa più pubblicare un suo libro. Costoro non si sono resi conto (credo la Maiolo) o fan finta di non rendersi conto (Vespa) degli enormi vantaggi professionali di cui hanno goduto nei sedici anni di regime berlusconiano. In questi lunghissimi sedici anni, una vita, nel Lazzaretto ci sono stati altri. Quelli che hanno conservato quel tanto di dignità e di rispetto di sé per non appecoronarsi ai piedi di un padrone, fosse di destra o di sinistra. Quelli che hanno partecipato a questo infame gioco delle sudditanze incrociate, mortificando tutti gli altri, non hanno ora il diritto di piagnucolare, meravigliarsi e scandalizzarsi se qualcuno esasperato da sedici anni di regime (il fascismo durò solo quattro anni di più) li insulta per via o gli assesta un cazzotto sul muso.
Massimo Fini