In un articolo intitolato “Con l’intelligenza artificiale nuove assunzioni” (Corriere, 19.5) Massimo Sideri sostiene, e non è il solo, che la Tecnica, storicamente parlando, e quindi anche al di fuori del digitale, ha sempre creato nuove occasioni di lavoro. Però bisogna anche vedere quante ne ha eliminate.
Faccio un esempio semplice semplice. Alla barriera sud dell’autostrada Genova-Milano c’erano, in fondo non poi tanto tempo fa, dieci caselli governati da umani. Oggi in un solo casello c’è una persona, gli altri nove lavoratori dove sono andati a finire? E’ vero che non c’è, credo, nessuna occupazione più noiosa del casellante che vive in una sorta di bolla senza avere contatti con nessuno. Ma il problema resta. Elon Musk licenziò a suo tempo circa trecento lavoratori della Tesla poi però si ricredette perché si accorse che i robot erano più inefficienti, disordinati e casinisti dei lavoratori normali. Questo è un caso favorevole che dipende dall’indubbia intelligenza di Musk, ma molti altri grandi imprenditori licenziano a manetta senza riassumere i reprobi. Dove vanno a finire costoro? Dovranno cercarsi un'altra occupazione che non hanno scelto, per la quale non hanno passione e soprattutto competenza perché non sono stati “formati”, parola magica come ”Innovazione”, per questo lavoro. Per cui ci sono in giro un mucchio di incompetenti. Questo riguarda soprattutto il mondo artigiano dove molti di costoro si sono rifugiati credendo che fosse semplice fare il falegname, il fabbro, l’imbianchino senza avere alcuna esperienza. Ma non è così. Tutti noi, o quasi, abbiamo fatto l’amara esperienza di aver ingaggiato questi lavoratori improvvisati. Esemplare in questo senso è il bel film di Silvio Soldini, Giorni e nuvole, dove il compagno di Margherita Buy, licenziato come manager, si mette appunto a fare l’imbianchino, con risultati disastrosi.
Nel Medioevo le cose andavano molto diversamente. Il giovane veniva assunto a bottega dal Maestro, che aveva l’obbligo di insegnargli il mestiere (allora si chiamava così) a regola d’arte oltreché quello di sfamarlo e di fornirgli due vestiti, uno per la domenica l’altro per i restanti giorni della settimana. Molti grandissimi artisti da Raffaello a Michelangelo (Leonardo no perché era un tale genio che il mestiere se lo insegnava da solo) sono stati prima di diventare quello che sono diventati “ragazzi di bottega”. Il momento decisivo era quando il ragazzo presentava al Maestro il ‘capolavoro’, cioè un manufatto che era all’altezza delle aspettative del maestro. A questo punto il ragazzo lasciava la bottega e ne metteva in piedi una sua. Questo probabilmente era possibile perché il mondo medievale era meno popolato. Ma l’artigiano restava legato affettivamente, e non solo materialmente, al suo mestiere, perché quello e solo quello aveva fatto per tutta la vita e ne andava orgoglioso (sono i concetti della ‘fama’ e dell’‘infamia’ medievali sottolineati da Paolo Gresti in un recente articolo sul Fatto molto diversi dai nostri dove si può essere famosi per stronzate che nulla hanno a che fare non dico con l’arte, ma con la creatività).
Questo orgoglio per il proprio manufatto ha resistito anche in èra industriale dove c’è una produzione seriale. A Milano voi potete vedere ancora oggi, incise su alcuni tombini, delle sigle, cioè in pratica delle firme, che non sono quelle dell’industria che li ha prodotti ma dell’artigiano che vi ha messo mano. Questo era l’artigianato al tempo che fu e il lavoro al tempo che fu. Quando si chiamava ancora “mestiere”.
24 maggio 2024, il Fatto Quotidiano