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Non mi piace Zelensky, come, credo, a molti italiani che però non osano aprir bocca perché in questo frangente è sufficiente leggere Dostoevskij per essere sbattuti nel girone dei “filo putiniani”. Non amare Zelensky non significa essere pro Putin. Diceva Talleyrand: “Preferisco i delinquenti ai cretini, perché i primi ogni tanto si riposano”. Putin è riuscito ad essere l’uno e l’altro. Delinquente per l’aggressione all’Ucraina, che peraltro segue molte aggressioni occidentali condotte con pari violenza (Serbia, Afghanistan, Iraq, Libia – dai 650 ai 750 mila morti solo in Iraq) cui va aggiunta l’aggressione della stessa Ucraina, a partire dal 2014, ai russi del Donbass con una ferocia non dissimile, anche se su un raggio più limitato e con mezzi meno potenti, da quella che mostra Putin, da parte non solo dei nazisti di Azovstal’ ma del regolare esercito ucraino. Delinquente per gli assassinii degli oppositori, metodo di cui il presidente russo fa un uso sistematico. Cretino perché è riuscito a ricompattare la Nato che di fatto non esisteva quasi più, Macron l’aveva definita “uno spettro” e lo stesso Trump “inutile”.

Io potrei essere considerato fazioso perché sono russo per parte di madre, Zinaide Tobiasz, ebrea come si evince dal nome,  e più invecchio più mi sento russo e meno italiano per quel “mondo di mezzo” che partendo da Roma ha invaso quasi l’intero Paese, ma, come si vede, a Putin non sconto nulla. Da qui sino alla fine dell’articolo parlerò quindi da russo.

Non mi piace Zelensky perché irride e umilia i nostri soldati definendoli “vigliacchi”. È certo che i ragazzi mandati con la forza al fronte da Putin siano totalmente demotivati. Però si deve ricordare che durante la seconda guerra mondiale abbiamo lasciato sul campo 20 milioni di morti per sconfiggere il nazismo (fra le vittime c’era l’intera mia famiglia materna, la sorella di mia madre, Anja, la madre di mia madre, tutti gli zii, i cugini, i nipoti). Che parte abbiano avuto gli ucraini  in quella tragica epopea che fu il secondo conflitto mondiale non so.

La guerra non l’hanno vinta solo gli americani ma anche gli inglesi, soprattutto gli inglesi, e i russi, contadini e kulaki, che difesero la propria terra con le unghie e con i denti, a maggior gloria di Stalin che li aveva sterminati a milioni.

Zelensky vuole “armi, armi e ancora armi” e ricatta i Paesi europei. È lui a stabilire l’agenda politica dell’Unione Europea. Per la verità l’Ue non ha nessun obbligo nei confronti dell’Ucraina che non fa parte né dell’Unione Europea né della Nato. L’errore degli americani è stato quello di stringere una corda al collo della Russia circondandola di paesi Nato o filo Nato. Ed è pericoloso mettere il nemico con le spalle al muro. Questo vale in tutti gli ambiti della vita. Per esempio nel pugilato, dove il più forte non si accontenta di un k.o. tecnico ma vuole il k.o. tout court e l’avversario, spinto dalla disperazione, scaglia il cosiddetto “colpo della domenica” e manda al tappeto quello che sembrava il sicuro vincitore.

Zelensky ha disposto per decreto legge che non si può fare alcuna pace con la Russia di Putin (Putin sembra, dico sembra, un po’ più possibilista). Evidentemente pensa, come pensano quasi tutti gli occidentali, che Putin sarà disarcionato dall’opposizione interna. Ma si sbaglia e si sbagliano. La Russia profonda, quella delle campagne, che noi chiamiamo “moscoia”, che conta all’incirca 40 milioni di abitanti, sta con Putin perché ha ridato dignità a un grande Paese che con Gorbaciov si era ridotto a fare il servo degli Stati Uniti (“Distruggi un Impero e andrai a San Remo”).

Nonostante l’omologazione portata dalla tecnologia e dall’adeguamento ai costumi e, possibilmente, ai consumi occidentali, il popolo russo esiste ancora con le sue grandi contraddizioni, sentimentale e crudele, generoso e avido, ospitale e infido, orgoglioso e servile, violento e masochista, scialacquatore, malinconico, fatalista, indolente, sognatore, bugiardo e comunque in ogni cosa eccessivo. Ma una cosa il popolo russo (parlo del popolo non delle ‘élite’) non ha: il cinismo roman andreottiano.

Dal punto di vista culturale l’Ucraina ha dato poco all’Europa. C’è Gogol’ (Le anime morte), ma Gogol’ ha potuto essere tale solo all’interno della grande letteratura russa fondata, per così dire, da Puskin, purtroppo intraducibile in italiano come mi diceva mia madre, è come tradurre Dante in un’altra lingua, che diede l’abbrivio a Dostoevskij, Tolstoj, Turgenev, Cechov (Il gabbiano, tra i molti altri).

Negli ultimi tempi gli Stati Uniti hanno dato segni di insofferenza per il protagonismo di Zelensky e soprattutto per alcune gravi iniziative prese in terra ucraina e anche russa senza preavvertire gli americani che pur hanno fornito all’Ucraina quasi 10 miliardi di aiuti in termini di armi.

Se perde il sostegno degli Stati Uniti in questa guerra, che poi in realtà è una guerra tra America e Russia, Zelensky è finito. Tornerà ad essere insignificante. Come l’Ucraina.

 

Il Fatto Quotidiano, 23 ottobre 2022

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“Vecchio è bello”. Questo slogan è stato molto in voga negli ultimi anni sui media. Poi è arrivato il Covid e si è visto che esser vecchi non è proprio così bello e gli anziani sono diventati “i fragili”. “Vecchio è bello”, questa ipocrisia è stata un’invenzione del marketing, vero padrone dell’economia, che si era accorto che l’Italia invecchiava e quindi bisognava stimolare i vecchi, scarsi consumatori, a consumare: a sgambettare impudicamente nelle discoteche e a scopare, anche se non ne avevano più nessuna voglia, con il viagra, eccetera. Il fenomeno è analogo a quello del boom degli anni Sessanta quando il marketing capì che i giovani adesso avevano dei soldi in tasca e quindi ci fu l’apologia della gioventù. In realtà quei soldi i giovani li avevano dai propri genitori, perché gli italiani sono dei forti risparmiatori, cioè degli sprovveduti perché il risparmio anno dopo anno viene demolito dall’inflazione o da altre magie finanziarie fino ad azzerarlo o quasi. Il risparmio è un credito erga omnes e quindi ad esso corrisponde un debito equivalente e, come scrive Vittorio Mathieu in Filosofia del denaro, “i debiti alla lunga non vengono pagati”. I ricchi, che su queste cose sono più avvertiti del cittadino comune, hanno più debiti che crediti. Comunque il denaro, se si vuole che non sia impallinato, deve essere spostato continuamente da un investimento a un altro, cosa che il piccolo risparmiatore non può fare costretto com’è a tenerselo per affrontare eventuali emergenze.

“Vecchio è bello”. I latini, che erano meno retorici di noi, chiamavano la vecchiaia atra senectus. Terenzio la considera una malattia e Seneca aggiunge etiam insanabilis, cioè inguaribile.

Tuttavia l’aspetto più drammatico della vecchiaia non è la decadenza fisica, ma l’impossibilità di un progetto di vita, esistenziale, sentimentale, professionale. Manca il tempo. Manca il futuro. Manca la speranza. Sorella Morte ha già alzato la sua falce. È vero che si può morire a qualsiasi età, anche a vent’anni, e che la morte è certa. Ma una cosa è immaginarla in un futuro indefinito, altra è quando ti cammina a fianco. Una cosa è se si tratta di una certezza lontana, remota, altra è se sai che sei al finale di partita. E che non ci saranno supplementari. “Non puoi più nemmeno piantare un albero, perché sai che non lo vedrai crescere” mi diceva il mio caro amico Giorgio Bocca quando andava verso i novanta. Cominci anche a guardare con sospetto certi oggetti che sai che ti sopravvivranno. Quando ero sulla settantina una bella ragazza di trent’anni, che mi piaceva, mi disse: “Perché non possiamo metterci insieme?”. “Perché tu stai entrando nella vita e io ne sto uscendo. Il Tempo conta, non possiamo ignorarlo”.

Tutti i vecchi pensano alla morte, ci pensano sempre. E ne hanno paura. E meglio stanno fisicamente, in quel momento, e più ne hanno paura. E non potrebbe essere diversamente. Non si tratta di una paura fisica, ma metafisica. È l’orrore del Nulla, lo spaventoso Nulla. L’inesistenza. Tutto ciò che hai vissuto, amato, conosciuto, visto, ascoltato, letto, pensato, è cancellato di colpo, immerso in un buio senza tempo e senza risveglio.

I vecchi finiscono per assomigliarsi tutti, con gli stessi problemi, la stessa stanchezza, le stesse angosce, le stesse ansie, le stesse paure e alla fine anche gli stessi tratti che la vecchiaia appiattisce. Siamo tutti – ora lo sai con molta più consapevolezza di quando ti sei affacciato alla vita – nella stessa barca. E, come nella Vergogna di Bergman, cadremo uno ad uno in mare mentre gli altri faranno finta di non vedere, quasi la cosa non li riguardasse.

Il mondo dei vecchi è un mondo di ombre, le ombre degli amici morti e del passato. Anche il mondo che hai conosciuto e a volte, con l’energia e l’incoscienza della giovinezza, dominato è scomparso: il paesaggio è cambiato, i luoghi pure, gli oggetti sono diversi, altri i miti, gli idoli, gli attori, le letture di riferimento. Sei un sopravvissuto.

“Vecchio è bello”. Ma andate a dar via i ciapp.

Il Fatto Quotidiano, 19 ottobre 2022

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L’uomo è il ministro della Natura, alla natura si può comandare solo obbedendo ad essa (Francesco Bacone)

 

Bisognerebbe che prima o poi noi facessimo una riflessione, per usare il linguaggio da beccamorti dei politici, sul modello di sviluppo che chiamiamo ‘occidentale’ ma che, dimostrando di essere molto attraente, ha sfondato anche in culture diversissime come quelle indiana e cinese (nel suo Il libro della norma Lao-Tse, cinese, sostiene la in-azione e nel Buddhismo l’obbiettivo è raggiungere il nirvana,  cioè uno stato di atarassia). Cioè sono culture in totale contrapposizione col dinamismo delle nostre società.

L’attuale modello di sviluppo si basa sulle crescite esponenziali, che esistono in matematica (tu puoi sempre aggiungere un numero), non in natura. Verrà un giorno, non poi così lontano, in cui non potremo più crescere. Siamo come una lucente macchina che con la Rivoluzione industriale è andata aumentando continuamente la sua velocità ma poi si trova davanti un muro e pretende di dare ancora di gas e fonde il motore. Ne La Ragione aveva Torto? affronto il problema così: “Io vedo l’uomo moderno  scendere una ripidissima strada in sella ad una splendente bicicletta senza freni: all’inizio era stato piacevole, per chi aveva pedalato sempre in salita e con immane, penosa fatica, lasciarsi andare all’ebbrezza e alla facilità della discesa, ma ora la velocità continua ad aumentare e si è fatta insostenibile, finché ad una curva finiremo fuori”(oltre La Ragione vedi Cassandra, pièce teatrale con Elisabetta Pozzi).

Noi pensiamo di salvarci con la Tecnologia (non la Scienza che, in quanto pura conoscenza, è consustanziale all’uomo), ma la tecnologia “come risolve un problema ne apre dieci altri ancora più complessi” (Paolo Rossi, che non è l’ex centravanti della Nazionale e nemmeno il comico, ma un grande filosofo della scienza).

Una volta avviato, il processo diventa irreversibile, anzi per sua coerenza interna deve sempre accelerare. Ma oltre a questa ineluttabilità c’è la stupidità dell’uomo, in particolare dell’uomo moderno. Può darsi però che sia proprio questa stupidità ad abbreviare la nostra agonia: con la Bomba Atomica. Mi ha detto una volta Edoardo Amaldi, uno che se ne intendeva perché partecipò al progetto dell’Atomica: “Se l’uomo può fare una cosa, prima o poi la fa”. I nostri Capi sono così idioti che posso arrivare anche a questo. Joe Biden per ammonire i russi ha citato l’Armageddon e si è dato la zappa sui piedi perché l’Armageddon è un luogo fetido, almeno secondo l’Apocalisse di Giovanni, dove alla fine dei tempi tre spiriti immondi raduneranno tutti i Re. Loro ci saranno, noi sudditi no.

La Bomba, come capiscono tutti, tranne i Capi, significa la fine del mondo. È come darsela sui piedi, perché le radiazioni non rispettano i confini e in questa ipotesi non si salveranno nemmeno gli innocenti indigeni delle isole Andamane.

Non siamo stati sempre così stupidi. Alle nostre spalle, di noi europei intendo (gli americani hanno una cultura da cowboy, o piuttosto nessuna cultura, ed è per questo che il termine ‘Occidente’ è equivoco, perché accomuna storie molto diverse) ci sono i Greci, che hanno avuto la cultura più profonda che sia comparsa in Europa (sul piano esistenziale nelle loro tragedie, Eschilo, Euripide, Sofocle, c’è già tutto). Avevano matematici/filosofi, Pitagora e Filolao per dirne solo due, per cui sarebbero stati in grado di costruire macchine molto simili alle nostre (non fino al digitale, a questo non potevano arrivarci) ma pensavano che fosse pericoloso andare a modificare e replicare la Natura. Per dirla nel loro linguaggio la hybris, il delirio di onnipotenza dell’uomo, provoca la fthóhnos ton theon, l’invidia degli dei e quindi l’inevitabile punizione. Molti miti greci, da Prometeo in su e in giù, sono orientati in questo senso.

Ma veniamo alla Tecnologia in corso d’opera. È vero che della tecnologia si può fare, singolarmente, un uso “euristico e intelligente” come diceva Giulio Giorello, ma a livello di massa la tecnologia è, ed è sempre stata, impoverente e alienante. È ben vero che noi oggi possiamo interloquire con un tipo che sta in Giappone, e anche vederlo e farci vedere, ma cosa ben diversa è parlare faccia a faccia con un uomo in carne ed ossa.

I dinosauri furono buttati fuori dalla Natura perché erano troppo grossi, troppo ingombranti. Noi oggi, con l’enorme protesi tecnologica che ci portiamo appresso, siamo diventanti troppo grossi e troppo ingombranti. Prima o poi, più prima che poi, la Natura sbatterà fuori anche noi.

Utilizzando la metafora della bicicletta: non cerchiamo nemmeno di frenare, anzi incentiviamo sempre più un modello che ho chiamato “paranoico” (il “produci, consuma, crepa” dei CCCP). Del resto anche Bacone, che pur è uno dei padri della rivoluzione scientifica, ha così presente la delicatezza e la pericolosità dei rapporti con la Natura che afferma: “L’uomo è il ministro della Natura, alla natura si può comandare solo obbedendo ad essa”. E ancora negli anni Trenta Martin Heidegger poneva la questione fondamentale dell’ambiguità e dell’ambivalenza della Tecnica.

In questa società forsennatamente dinamica, dove salito un gradino bisogna farne un altro e poi un altro ancora per non essere buttati fuori, come singoli, dal sistema, non abbiamo mai il tempo per noi stessi (anche il famigerato “tempo libero” è un tempo del consumo e in questo ci aveva azzeccato, sia pur nel suo modo nebuloso, Beppe Grillo con la concezione del “tempo liberato”). Qualche sintomo di un’inversione di tendenza però c’è. In un interessante articolo per il Corriere (7/10) Mauro Magatti, sociologo ed economista, segnala che i giovani più che al lavoro, quel lavoro da “schiavi salariati” che riguarda la maggioranza, sono interessati a una vita più piena, maggiormente equilibrata “tra le diverse componenti dell’esistenza”. In fondo basterebbe tornare al vecchio e caro “lavorare tutti, lavorare meno”.

Il Fatto Quotidiano, 13 ottobre 2022