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Caro Massimo Fini,

Sono d'accordissimo col suo editoriale dedicato al calcio moderno e vorrei aggiungere una mia considerazione. Il calcio internazionale (e italiano) è radicalmente mutato, per certi versi certamente in peggio, come fa egregiamente notare. Ma credo che il nostro Paese soffra nel medesimo tempo anche l'arretratezza delle sue strutture, delle pessime condizioni di grandissima parte degli stadi delle serie maggiori e il confronto col resto d'Europa è a dir poco tragico, considerando il calcio "sport nazionale". Personalmente amo seguire il calcio internazionale e questo mi dà la misura dell'abissale differenza che ci separa, ad esempio, dall'Europa. Spagna, Gran Bretagna, Germania e non ne cito altre per pudore e patria carità, sono nazioni dove il calcio gode di stadi confortevoli e con posti a sedere totalmente numerati come Spagna e Gran Bretagna. Noi cosa offriamo? Strutture da terzo o quarto mondo, gradinate di cemento gaiamente multicolori e nella serie cadetta non è raro vedere il buon vecchio filo spinato o dabbenaggini simili. Incontri di calcio con contorno di bombe carta senza che i cronisti di turno, presi dagli schemi e dal gioco maschio, sbattano almeno un sopracciglio se non col senno di poi, piagnucolare nel salotto vip. Tempo fa, in quel di Leeds, dove vive mio figlio, ho assistito, nel mitico Elland Road, a una partita della nobile decaduta: 30 mila persone per un incontro di B inglese, le assicuro che non può permetterti neanche di buttare una cicca per terra, pena l'amabile accompagnamento all'uscita, o peggio. Questo credo sia il problema supplementare che accompagna e mortifica il nostro calcio.               

Alessandro Colombera

 

Caro Colombera,

lei è d’accordo con me, ma io non sono d’accordo con lei. Non amo gli stadi tutti perfettini che poi, almeno in Italia, rafforzerebbero l’opinione che del calcio ha l’insopportabile Mario Sconcerti per cui lo stadio deve essere una sorta di “bomboniera” e quindi un posto per tifosi ricchi. Cosa che limiterebbe ancor di più quella funzione sociale, interclassista, che questo sport ha avuto. Amo nel calcio, come nella vita, un po’ di sgangheratezza. I posti a sedere tutti a modino toglierebbero quel furore che fa parte di una delle tante metafore che il calcio rappresenta: la guerra. Ho assistito a Belgrado a una partita Stella Rossa- Partizan. Sugli spalti, e peraltro anche sul campo, non era semplicemente una partita di calcio ma, appunto, una guerra fra tutti i tifosi dello stadio qualsiasi posto occupassero. Esaltante. Vabbè, quelli son serbi. In altre culture, per esempio in Scozia, si possono vedere partite giocate con furore senza che sul campo e sugli spalti scorra il sangue come a Belgrado.

Ma, più in generale, il calcio è passione, è amore, e la passione e l’amore non sono fatti per la perfezione. Il mitico Tomaso Giglio, che ho avuto la fortuna di avere come direttore all’Europeo, ebbe ottimi inizi da poeta (nel 1948 entrò nella rosa finale del Premio Saint Vincent, mettendosi dietro gente come Pasolini). Mi ricordo l’inizio di una di queste poesie: “Il nostro amore imperfetto”. Sì, era imperfetto, ma proprio per questo era amore.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 16 maggio 2018

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Pochi giorni fa Angela Merkel ad Aquisgrana, dove accompagnava il presidente francese Macron che aveva ricevuto il Premio Carlo Magno, ha dichiarato: “Non ci si può trastullare nella convinzione che gli Usa ci difenderanno, dobbiamo prendere il nostro destino nelle nostre mani e poterci difendere da soli”.

La creazione di un vero esercito europeo è una necessità assoluta. La forza militare, usata naturalmente come deterrente, si trascina dietro tutto il resto a cominciare dall’influenza politica che un Paese, in questo caso un raggruppamento di Paesi, la Ue, può esercitare in campo internazionale. Di questo dovrebbe tener conto il premier (nel momento in cui scriviamo non ne conosciamo ancora il nome) del governo Cinque Stelle-Lega. Il latente antieuropeismo dei grillini e dei leghisti dovrebbe essere tenuto a bada, non per rassicurare Mattarella che su un programma di governo che presumibilmente ha l’appoggio del Parlamento non ha diritto di metter becco, ma perché nuoce al Vecchio Continente e ai suoi abitanti. In particolare il ‘sovranismo’ di Matteo Salvini è un’idiozia. A differenza degli anni Trenta, quando una semi autarchia fu attuata con successo da Mussolini, oggi nessun Paese europeo potrebbe resistere da solo ai grandi agglomerati statali, Stati Uniti, Russia, Cina, India e nemmeno ai potentati economici sovranazionali che sottotraccia guidano la danza, vale a dire il famigerato ‘mercato’.

La creazione di un esercito europeo ci permetterebbe di uscire, sia pur gradualmente, dalla Nato che dal dopoguerra è stato lo strumento con cui gli Stati Uniti hanno tenuto in condizione di minorità, militare, politica, economica e anche culturale, l’Europa. Ai ricatti economici di Donald Trump l’Unione europea è in grado di resistere perché ha più di 500 milioni di abitanti, cioè di consumatori che sono in linea di massima dei consumatori forti.

Il nuovo governo italiano dovrebbe quindi seguire le indicazioni molto esplicite, se le si mette a confronto con le abituali prudenze diplomatiche, di Angela Merkel e collaborare con tedeschi e francesi per un’Europa più forte, non più debole.

Altrimenti, ad andar tutto bene, l’Europa rimarrà un gigante economico, ma un nano politico, perennemente sotto scacco.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 15 maggio 2018

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Adesso che è finita la tragicommedia del governo, che di per sé sola dice di che pasta sia fatta in realtà la democrazia (trucchi, imbrogli, agguati, imboscate, menzogne, ricatti), col nano malefico che si è fatto da parte (apparentemente perché dai nani c’è sempre da attendersi il peggio per la fisiologica ragione, come scrisse Gianna Preda di Fanfani, che “hanno il cuore troppo vicino al buco del culo”) possiamo riprendere a parlare di cose serie. Di calcio.

Anche la Nazionale, come la nostra politica, non se la passa bene. Non è riuscita ad andare ai Mondiali. Ci sarebbe da stupirsi del contrario. Le squadre di A e anche di B sono zeppe di stranieri, spagnoli, brasiliani, argentini, colombiani, marocchini, egiziani e persino coreani del Nord (robb de matt) ma soprattutto serbi, croati, bosniaci che se ci fosse ancora la cara, vecchia e mai troppo rimpianta Jugoslavia formerebbero la Nazionale più forte del mondo. Il bacino in cui può pescare il nostro Ct, si tratti di Mancini o di chi l’ha preceduto, è estremamente ridotto. Ma anche le altre nazioni europee, a livello di club, non è che siano un granché. Il Barca, dopo il ritiro di Xavi e l’inesorabile declino di Iniesta, non è più quello. Il Madrid non è una squadra ma un insieme di singoli, alcuni anche scarsi. Il Bayern è il peggior Bayern della sua storia. Il Paris Saint-Germain, che ha speso una follia per Neymar (240 milioni) sottraendolo al Barcellona dove era inutile (molto meglio ‘Pedrito’ che adesso gioca nel Chelsea) non riesce ad emergere perché Edison Cavani non è mai diventato Van Nistelrooy, il suo idolo giovanile. Rimangono i velocissimi ragazzini del Liverpool che il 26 maggio, a Kiev, nella finale infilzeranno il borioso ed eternamente aiutato Real (puntate e vi sarà dato).

Ma la questione non è questa. Ci si diverte anche a vedere giocare gli scarsi. I problemi veri nascono altrove.

In Italia dal 1982, anno dell’introduzione del ‘terzo straniero’, il calcio da stadio ha perso il 40% degli spettatori. Chiunque abbia masticato calcio (e nella mia generazione lo abbiamo fatto tutti –tranne Mughini che preferiva le parallele- perché lo sci lo conosceva solo chi stava in montagna, il tennis era uno sport da ricchi o per raccattapalle, il basket era troppo americano) sa che differenza ci sia, dal punto di vista dell’atmosfera ambientale ma anche tecnico, fra il vedere una partita allo stadio e vederla in Tv.

Per ragioni televisive, quindi economiche, il calcio è stato spalmato sull’intera settimana e in ore diverse: venerdì ci sono gli anticipi di B, il sabato la B e due anticipi di A, al mezzogiorno della domenica una partita di cartello, il pomeriggio, alle tre, giocano gli sfigati, alle 18 e 30 altra partita, alle 20 e 45 il clou. Il lunedì il posticipo di A (addio, fra l’altro, al subrito della schedina giocata sabato al bar con gli amici). Al martedì e mercoledì la Champions che ha sostituito la Coppa dei Campioni (giocata, ad eliminazione diretta, solo dalle vincitrici dei rispettivi campionati europei) per poterla organizzare a gironi e quindi più partite, molte delle quali inutili, più televisione, più quattrini. Al giovedì la ridicola Europa League, ma son quattrini anche quelli. Un’abbuffata che stroncherebbe anche il più focoso degli amanti.

Squadre con dieci e anche undici stranieri, giocatori che, in un giro di valzer vorticoso, cambiano società ogni anno per fame di ‘novità’ (e spesso sono dei brocchi inguardabili) e anche durante la stagione, con tanti saluti alla regolarità del Campionato, per esigenze degli sponsor maglie diverse da quelle tradizionali, se la squadra gioca in trasferta, forsennata e costosa politica degli abbonamenti (denaro che arriva in anticipo) che schiaccia i ragazzi dietro le porte e nelle curve dove si vede poco o nulla ai quali quindi interessa tutto tranne il gioco e, raggruppati insieme, diventano dei teppisti di cui poi ipocritamente ci si lamenta.

L’economico (e anche la tecnologia, il famigerato Var) ha svuotato il calcio dei suoi contenuti identitari, rituali, mitici, simbolici, sentimentali che, al di là del gioco e dello spettacolo, hanno fatto la fortuna secolare di questo sport nazional popolare: il riconoscersi in una squadra, nella sua storia, nella sua tradizione, nei suoi colori, nelle sue maglie, in certi giocatori-simbolo, nel suo carattere la cui continuità era assicurata dal passaggio di testimone, di generazione in generazione, fra gli ‘anziani’ e i giovani del vivaio e della Primavera.

Inoltre, ed è forse la cosa più grave, il calcio ha perso la sua funzione sociale, di sport interclassista dove allo stadio si trovavano insieme, fianco a fianco, tutti, l’imprenditore e il suo operaio, il manager e l’impiegato, l’artigiano e il suo ricco cliente.

Oggi nel calcio circolano cifre enormi e spropositate, per i giocatori, gli allenatori, i direttori tecnici, i procuratori. E naturalmente per i grandi network televisivi. Proprio in questi giorni MediaPro, Mediaset e Sky si stanno scannando con cifre che superano il miliardo di euro per i diritti televisivi della serie A.

Nel 1982, dopo l’introduzione del ‘terzo straniero’, scrissi per Il Giorno un articolo in cui dicevo che il calcio, ridotto da sport sul campo alla dimensione di uno spettacolino televisivo, che come tale, fra una telefonata al cellulare e l’altra, una visita al frigo, la moglie che rompe, perde quella concentrazione che in un rito (perché il calcio è innanzitutto rito) deve essere assoluta e quindi man mano interesse, sarebbe andato fatalmente a morire. E così sarà. Morirà per overdose. Come tutto il resto.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 13 maggio 2018