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Anche se ci mettessero tutto il loro migliore impegno e la più buona e onesta volontà, il tentativo dei 5stelle di riformare la Rai in senso meritocratico e non partitocratico è una ‘mission impossible’. Parlo dei 5stelle perché sono nuovi, tutti gli altri hanno alle spalle una lunghissima pratica spartitoria e la Rai è una stratificazione geologica, a tutti i livelli, di berlusconiani, di leghisti, di dem, di renziani e, prima di loro, di democristiani, di socialisti, di comunisti o pdessini che dir si voglia. Il presidente della Rai è nominato dal Consiglio di amministrazione che è frutto di un accordo tra i partiti, come vediamo bene in questi giorni e abbiamo visto sempre da quando siamo entrati nell’età della ragione. E anche la nomina dell’Amministratore delegato, che formalmente spetterebbe al ministro dell’Economia, è frutto di un accordo fra i partiti sia attraverso i membri che siedono nel Consiglio di amministrazione sia fuori da quelle stanze. La Commissione di Vigilanza è formata da esponenti di partito che quindi dovrebbero vigilare su se stessi. Quis custodiet custodes? Se per caso capita in Rai un corpo estraneo, non legato a nessuno se non alla propria capacità e professionalità, ne viene estromesso al più presto com’è stato il caso di Carlo Verdelli. Sfido chiunque a trovare in Rai un direttore di rete o di testata ma anche un redattore semplice e persino un bidello che non sia in qualche modo legato a un partito. Del resto anche decidere del merito è difficilissimo. Ci sono in Rai ottimi giornalisti che non smettono di esser tali perché sono legati a questo o a quel partito, a questa o a quell’area politica. Cosa facciamo, eliminiamo anche costoro? Eppoi qual è il criterio decisionale? L’audience? Ci sono programmi di qualità che, spesso proprio per questo, hanno una bassa audience. Eliminiamo anche questi?

In realtà una soluzione ci sarebbe. Mantenere una sola rete pubblica sotto il controllo del governo –perché anche il governo, che ci rappresenta tutti, ha il diritto e il dovere di fare ‘lato sensu’ una sua politica soprattutto culturale- com’è il caso della Bbc inglese che pur è considerata una delle migliori, se non la migliore, del mondo. Le altre due Reti dovrebbero essere messe sul mercato e vendute a soggetti diversi. Ma questo comporterebbe che anche Mediaset vendesse due delle sue tre Reti. È quello che un tempo si chiamava “disarmo bilaterale”. Ma anche questo è pura utopia.

In realtà la Rai è solo l’emblema, il più evidente e conosciuto perché la vediamo tutti da quando siamo nati, della situazione di un Paese divorato dalla partitocrazia, cioè dall’occupazione ad opera dei partiti di tutto il settore pubblico e spesso anche di parti di quello privato. Di questa stortura, diciamo pure di questo cancro, ci si era accorti, anche ad alto livello, già più di mezzo secolo fa. Nel 1960 il Presidente del Senato Cesare Merzagora, eletto come indipendente, fece un vibrante discorso, proprio in quella Camera, cioè nella sede più autorevole (Twitter non esisteva ancora e dubito che se mai fosse esistito uomini come Merzagora o Fanfani o Nenni o Saragat o Togliatti o Almirante lo avrebbero usato) contro il dilagare dei partiti che previsti in un solo articolo della nostra Costituzione (art. 49: tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale) tendevano a mettere le mani anche sugli altri 138. Sempre nello stesso anno un grande giurista, Amedeo Giannini, che proprio di questioni costituzionali si era occupato e si occupava, diede lo stesso allarme. Associarsi a un partito è una libertà non un obbligo. Ma fu tutto inutile. I politici fecero orecchie da mercante. E così, passo dopo passo, siamo arrivati alla situazione attuale.

Per scardinare un simile sistema, questa mafia che non osa dirsi tale ma che tutti noi, qualsiasi sia il posto che occupiamo nella società, conosciamo sin troppo bene, ci vorrebbe un’autentica rivoluzione. Non credo proprio che il buon Di Maio, ma neanche il più focoso Alessandro Di Battista, che peraltro se ne è andato prudentemente in Sud America, possano riuscire in questa impresa ciclopica.

Massimo Fini

Il Fatto Quotiìdiano, 4 agosto 2018

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Nell'estate del Sessantotto me ne stavo beatamente ai Bagni Umberto di Savona, bagni familiari, tipo anni Cinquanta, con una rotonda che avrebbe fatto gola ai VanzIna se fossero già stati all'onor del mondo, dove il Sessantotto non era ancora arrivato e, per la verità, non sarebbe arrivato mai, tant'è che se ci andate oggi li ritrovate tali e quali, con le signore che giocano a Burraco invece che a Ramino o a Scala Quaranta.

Ero lì per filare le ragazze e la rotonda serviva proprio a questo. Non che ai Bagni Umberto non fosse arrivato il rock, i Beatles e persino i Rolling Stones, ma noi preferivamo il lento, il 'ballo del mattone' come cantava Rita Pavone. Fra noi ragazzi esistevano dei codici precisi anche se inespressi. Se una ti metteva il gomito sul petto voleva dire che era meglio lasciar perdere. Se ti metteva la mano sulla spalla era un segnale neutro. Se ti metteva il braccio al collo voleva dire che potevi andare avanti. Ma non significava ancora nulla, perché agli albori del Sessantotto la libertà sessuale, non solo ai Bagni Umberto, era ancora di là da venire.

Del resto che altro fare nell'estate del Sessantotto a Savona, una delle città più torpide d'Italia anche se proprio per questo, per contraccolpo, ha espresso alcuni genietti della Televisione, Fabio Fazio, Antonio Ricci, Carlo Freccero, Aldo Grasso, Tatti Sanguineti.

Nel '68 avevo 24 anni. I 'sessantottini', in genere, dai diciotto ai venti, pochissimi anni di distanza ma che facevano la differenza. Io appartenevo, culturalmente, alla generazione esistenzialista, dei Sartre, dei Camus, di Merleau-Ponty, di Juliette Greco, delle caves e anche, se si vuole, a quel suo derivato che era stato il movimento hippy. Ero troppo adulto, anche se non smaliziato, per lasciarmi andare a facili entusiasmi. Inoltre mi ero laureato tre giorni prima che la contestazione esplodesse in Statale. Una fortuna. Per due motivi. Perché mi evitò di protrarre per mesi la mia tesi e, col 'trenta' gratuito che sarebbe venuto dopo e che avrebbe rovinato parecchi miei coetanei costretti a ciondolare per anni in cerca di un lavoro quale che fosse, dava alla mia laurea ancora un valore. Comunque partecipai diligentemente alle due prime occupazioni della Statale quando vi arrivarono Mario Capanna, Luciano Pero e Michelangelo Spada che erano stati espulsi dalla Cattolica. Ma me ne andai quasi subito quando vidi che il conformismo aveva solo cambiato di segno. Sia in senso letteralmente semantico (mentre prima in università bisognava andarci in giacca e cravatta, adesso la divisa obbligatoria era l'eskimo) sia in modo più profondo perché si era presa l'abitudine di sprangare in trenta contro uno chi non era 'in linea'. Insomma il linciaggio da squadracce fasciste sotto il manto della democrazia progressista. E il linciaggio è la cosa che più mi fa torcere le budella: ho sempre pensato che chi lincia si mette sullo stesso piano, se non peggio, di colui che lo subisce qualsiasi cosa costui abbia commesso.

Ma torniamo alla mitica estate del Sessantotto che io mi spassavo in vacanza, al mare. Per la verità non ero il solo perché tutti o quasi i primi 'contestatori', diciamo i paleo-contestatori, erano figli della buona borghesia milanese (Popi Saracino and company) o romana. Tuttavia anche in quell'immobile estate di vacanza qualcosa di sessantottino ci fu. Ai primordi del Sessantotto, quando facevo la guardia da semplice mujahidin ai portoni della Statale occupata, avevo conosciuto alcuni ragazzi, tra gli altri Ilio Frigerio, Eugenio Polizzi che sarebbero poi entrati nella più strutturata Lotta Continua di Sofri e Pietrostefani. In una stagione successiva Ilio Frigerio sarebbe diventato parlamentare della Lega. Una prima lezione di quel trasformismo che avrei poi visto dilagare per ogni dove. A settembre con Ilio, Rosanna Battino detta 'Roro', che apparteneva a una delle migliori famiglie milanesi, Eugenio Polizzi e la sua ragazza, una sciocchina che squittiva per ogni cosa, rovinandola, ma riscattata dal fatto di essere parecchio carina, decidemmo di fare un viaggio in Sicilia, terra a noi allora ignota tranne che al Polizzi che era nato a Caltanissetta e vi conservava la casa dei suoi genitori. Guidavo io. Ero l'unico ad avere una macchina, un'inguardabile Simca 1000 da 'voglio ma non posso'. A quei tempi l''esproprio proletario' non era ancora in voga ma, insomma, l'idea che in qualche modo bisognava fregare il sistema era già nata. Frigerio e Polizzi erano quindi decisi a entrare in un qualche grill e farvi, di nascosto, razzia. Allora non c'erano ancora le videocamere interne, come sull'autostrada non c'erano i limiti di velocità, i tutor, l'obbligo delle cinture. La cosa quindi pareva abbastanza facile. Io non ero per nulla d'accordo ma seguii il gruppo quando entrò in un grill deciso a tutto. Ne uscii quasi subito rintanandomi in macchina con Roro e lasciando che gli altri tre facessero gli affari loro. Tornarono dopo una mezz'ora. Incazzatissimi. Non erano riusciti a prendere nulla. Allora tirai fuori dal mio giubbotto un salame, una bottiglia di vino e un filone di pane. Un trionfo. Guidai ininterrottamente per ventiquattro ore da Milano fin quasi a Caltanissetta. L'ultima ora cedetti il volante a Ilio, che per tutto quel tempo insieme agli altri non l'aveva nemmeno toccato e mi misi a dormire. Quando mi risvegliai ancora tutto intontito il buon Ilio ebbe la faccia tosta di prendermi in giro perché' mi ero addormentato. Un avvertimento, sia pur di poco momento, che avrebbe dovuto mettermi sull'avviso e che invece non ho imparato mai: se ti spendi per gli altri non avrai in cambio che derisione. Il gioco che conta è esattamente l'opposto: appropriarsi del lavoro altrui facendo finta di averlo fatto tu. Una pratica che avrei visto dispiegata in grande stile l'anno dopo quando entrai come impiegato di seconda alla Pirelli, in particolare da Marcello Di Tondo che sarebbe diventato il primo braccio destro del Berlusconi ancora imprenditore.

A Caltanissetta scoprimmo che la mafia non esisteva. Nessuno osava pronunciarne neppure il nome. Nemmeno il Polizzi che pur era di quelle parti e che mafioso non era. Del resto avrei imparato in seguito che in Sicilia è difficilissimo distinguere non solo il mafioso da chi non lo è ma anche da chi la Mafia la combatte. Negli anni ho avuto modo di parlare con Pio La Torre parlamentare comunista ucciso dalla Mafia nel 1982 e più tardi anche con Falcone quando era direttore della DIA. I toni, i tic, il modo di parlare allusivo mai diretto, tendenzialmente sfuggente era lo stesso dei mafiosi conclamati che mi è capitato di incontrare durante qualche inchiesta in Sicilia. E' la sicilitudine.

Nel '68 mentre al Nord i giovani contestatori sognavano, in modo un po' dilettantesco, di abbattere l'odiato sistema, la Mafia al Sud, almeno ufficialmente, non esisteva. Ad abbattere per vie legali se non il sistema almeno la partitocrazia ci avrebbero provato nel biennio '92-'94 i magistrati di Mani Pulite, ma non ne caveranno un ragno dal buco.

Il sistema non è caduto, la partitocrazia tanto meno, in compenso la Mafia c’è e, come ci raccontano le cronache, pare più forte e inserita che mai. Mezzo secolo è passato invano.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 27 luglio 2018

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Il futuro non è davanti ma dietro di noi

L’economia nella forma del libero mercato, insieme a tutti i suoi infiniti addentellati, domina interamente la nostra società e la discussione pubblica (lo stesso tema cogente dell’immigrazione vi è strettamente legato).

Il libero mercato è basato sull’iniziativa privata e ha al suo centro la figura dell’imprenditore, tanto più apprezzato se particolarmente abile. A questo proposito va sottolineato un elemento cui si da, ci pare, pochissima attenzione: l’iniziativa privata non è la stessa cosa della proprietà privata. La proprietà privata sta all’iniziativa privata come la forza fisica sta alla possibilità di farne uso. In nessun tempo si è mai negato a qualcuno il diritto di possedere una forza fisica superiore che dovesse essere in qualche modo ridotta per uguagliarla a quella degli altri. La forza fisica è un dono di natura e chi ce l’ha se la tiene. Ma il problema di mettere dei limiti all’uso indiscriminato di questa forza si è posto fin dall’inizio, appena l’uomo ha cominciato a vivere in comunità sufficientemente organizzate. In origine il diritto nasce proprio per impedire che individui fisicamente superiori possano usare la loro forza per danneggiare gli altri o per sottometterli. Non si capisce perché lo stesso criterio non debba valere per un altro dono di natura qual è l’abilità economica. Nella società preindustriale, preliberale, predemocratica la proprietà privata non era messa in alcun modo in discussione, era invece messa in discussione la possibilità che l’individuo potesse usare illimitatamente della propria superiore abilità e capacità in campo economico per danneggiare il prossimo o per soggiogarlo. Tutto lo sforzo della Scolastica, con la lotta al profitto e all’interesse (il tempo è di Dio e quindi di tutti e non può essere perciò monetizzato, Duns Scoto), l’elaborazione dei concetti di “giustizia commutativa e distributiva” e dei princìpi cui dovevano essere sottoposti gli atti di scambio “perché fossero conformi a un criterio di giustizia” e non permettessero sopraffazioni illimitate, fu un tentativo, generoso e per molti secoli riuscito, di evitare che alla violenza della forza fisica si sostituisse quella dell’abilità economica, dell’iniziativa privata dispiegata senza limiti ai danni dei più sprovveduti, dei meno capaci o anche dei meno interessati.

La democrazia liberale e liberista, insieme a tutta una serie di altri fattori, precedenti, concomitanti e successivi, fra cui determinanti sono la rivoluzione scientifica, la Riforma e, soprattutto, la Rivoluzione industriale, abbatte questi limiti e contribuisce a porre le premesse dell’attuale modello di sviluppo occidentale, dove al centro c’è l’economia (insieme alla sua ancella, la Tecnologia) e l’uomo è semplicemente una variabile dipendente.

Se la liberaldemocrazia ha avuto molti e insidiosi nemici, l’attuale modello di sviluppo, inteso nella sua essenza, come Modernità, non ne ha nessuno, né a destra né a sinistra. Il presupposto, inamovibile e irrevocabile, comune ai liberali ma anche al marxismo (che all’origine si pone anch’esso come una forma di democrazia: la democrazia comunista), è infatti che il mondo moderno, pur con tutte le sue contraddizioni e lacerazioni, è infinitamente più vivibile di quello di ieri, descritto come un mondo di fame, di miseria, di prepotenze, di illiberalità, di sangue e di morte. La convergenza di destra e di sinistra, di liberali e marxisti, su questo punto fondante, che legittima l’intera Modernità, insieme alle sue dottrine politiche, è del tutto coerente e comprensibile. Figli entrambi della Rivoluzione industriale liberalismo e marxismo, nelle loro varie declinazioni, sono in realtà due facce della stessa medaglia. Sono entrambi modernisti, illuministi, progressisti, ottimisti, razionalisti, materialisti e, su tutto, economicisti, entrambi hanno il mito del lavoro, sono entrambi industrialismi che pensano che l’industria e la tecnica produrranno una tale cornucopia di beni da rendere liberi tutti gli uomini (Marx) o, più realisticamente per i liberal-liberisti, il maggior numero possibile. Questa utopia bifronte è fallita. Prima sul versante marxista che si è rivelato un industrialismo inefficiente e perciò perdente. L’unica faccia della medaglia della Modernità spendibile era quindi rimasta quella liberale, liberista, “democratica” che soprattutto attraverso i processi di globalizzazione che hanno esasperato tutti i vizi del capitalismo si è rivelata a sua volta fallimentare. Ma né i liberal-liberisti, né i marxisti fin che sono esistiti, possono mettere in discussione la Modernità perché significherebbe recidere le proprie radici dato che dalla modernità sono nate e nella modernità si sono affermate. E’ questo il “pensiero unico” di cui si sente tanto parlare senza peraltro sapere bene, spesso, di che cosa si tratti.

I pochi che osano mettersi di traverso a questo pensiero sono bollati come inguaribili e ridicoli passatisti. In un saggio di qualche tempo fa, una specie di epitome del pensiero e della sicumera modernista, lo storico francese Pierre Milza (ma lo prendiamo solo come esempio degli infiniti ‘laudatores’ della modernità) scriveva: “E’ nostro dovere spiegare che il pericolo di morte per le civiltà esiste solo quando queste si irrigidiscono nella sterile contemplazione del proprio passato”. E’ curioso come gli idolatri della Modernità, liberali o marxisti che siano, di destra o di sinistra, maniaci del cambiamento, perché da un cambiamento, anzi da una rivoluzione, sono nati, non si rendano conto che “irrigiditi nella contemplazione del passato” sono proprio loro, loro i veri passatisti perché sono seduti su categorie di pensiero ottocentesche, vecchie di due secoli, che han fatto il loro tempo e non sono più in grado di capire appieno la realtà e soprattutto le esigenze più profonde dell’uomo occidentale contemporaneo che al di là di ogni apparenza non sono economiche ma esistenziali. Non è il sonno ma il sogno della Ragione che ha partorito mostri.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 6 luglio 2018