Nel momento in cui Recep Tayyip Erdogan scatena una guerra che coinvolge cinque Stati, fra grandi e medie potenze (Stati Uniti, Russia, Turchia, Siria, Iran) oltre all’Isis e, ovviamente, alle eterne vittime della regione, i curdi, i soli che avrebbero il diritto di avervi uno Stato dato che quella regione si chiama Kurdistan ed è invece divisa fra Turchia, Siria, Iraq, Iran, vittime da sempre, e non solo da quando al potere nello Stato della Mezzaluna c’è il satrapo di Ankara (qualcuno ricorderà, forse, la strage di Halabja perpetrata da Saddam Hussein in combutta con i turchi nella generale indifferenza della cosiddetta comunità internazionale) credo che una domanda, non marginale, si imponga: che ci fa la Turchia nella Nato, acronimo di North Atlantic Treaty Organization? Anzi, perché vi è entrata quasi fin da subito (1952) in un’alleanza che doveva riguardare, almeno nelle intenzioni iniziali, i soli Paesi occidentali al di là e al di qua dell’Atlantico? Si dirà che la Turchia laica fondata da Ataturk è ben diversa da quella islamica di Erdogan. Che sul piano dei diritti civili sia stata tanto diversa da quella attuale c’è da dubitarne. Qualcuno ricorderà, forse, il film Fuga di mezzanotte, del 1978, che rivelava, in modo plastico, che cosa fossero le prigioni turche quando di Erdogan non si era mai nemmeno sentito parlare. Io stesso sono stato testimone di quanto accadeva in una piazzetta dietro la mitica Moschea Blu: dei ragazzini sui dieci anni erano schierati davanti a un muretto, arrivava un adulto, slacciava loro i pantaloncini, contrattava en plein air col magnaccia eppoi se li prendeva riportandoli qualche ora dopo. Questa era la civilissima Turchia laica.
Ma per gli Stati Uniti la Turchia, grazie anche alla sua posizione strategica e alla sua conformazione orografica, una grande piattaforma naturale, è stata sempre l’alleato transatlantico più importante, molto più dell’Europa occidentale. Non è certamente un caso che in Turchia gli americani mantengano la loro più grande base aerea, a Incirlik (quella in Kosovo, Bondsteel, ha funzioni più terrestri, in tutti i sensi: di detenzione di prigionieri islamici alla maniera di Guantanamo). E’ quindi comprensibile che l’America, non solo quella di Trump come ipocritamente si dice, sia sempre stata molto malleabile con la Turchia e che quindi oggi, col ritiro o il riposizionamento dei propri soldati, si voglia tener fuori dal grande e sanguinoso guazzabuglio creato dalla guerra di Erdogan. Insomma se ne lavi pilatescamente le mani.
La presenza della Turchia nella Nato crea situazioni paradossali. Oggi, in virtù di questo accordo, 130 soldati italiani e 25 mezzi terrestri sono schierati ai confini siriani della Turchia, a sua difesa. Cioè, nella sostanza, noi, nonostante tutte le parole vuote del nostro governo, sosteniamo i turchi contro i curdi. Ma lasciando perdere l’Italia sarebbe fuorviante e ingeneroso incolpare l’Unione europea per le sue ambiguità e le sue debolezze in questo scontro turco-curdo, con tutti i suoi annessi e connessi. L’Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale è succube degli Stati Uniti e ne segue pedissequamente gli interessi anche quando sono in netto contrasto con i suoi. Nessuna Potenza può essere tale, in senso politico ed economico, se non ha un’adeguata forza militare. E l’Europa questa forza non ce l’ha visto che resiste ancora, a 75 anni dalla fine della guerra, l’anacronistico divieto alla Germania democratica di avere armi nucleari come le hanno, oltre a Stati Uniti, Russia, Cina, anche l’India, il Pakistan, il Sudafrica e l’intoccabile Israele. Una volta che avessimo conquistato, anzi riconquistato, questa forza militare potremmo finalmente uscire dalla storica sudditanza agli americani, essere liberi. E rimandare la Nato a quel paese, cioè agli Stati Uniti che oggi totalmente la controllano.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 15 ottobre 2019
Da un bell’articolo di Silvia Truzzi sul Fatto (10.10) apprendiamo che in Italia il 7% dei diplomati conclude il ciclo di studi “con un livello di competenze così basso che è come se non avessero mai messo piede in classe”. Ma le cose non vanno meglio, anzi peggio, per gli adulti, da una rilevazione Ocse si ricava che “il 70% degli adulti italiani risulta non in grado di comprendere adeguatamente testi lunghi e complessi”.
La storia viene da lontano. In quasi nessun Paese in cui sono stato ho visto la scuola trattata o meglio bistrattata come in Italia. Prendiamo a titolo di esempio la Tunisia. Sotto il regime di Ben Ali i giornali impegnavano pagine e pagine in dibattiti sull’istruzione soprattutto delle prime classi: sui tempi di attenzione dei ragazzi, sulla scansione degli intervalli, sui metodi di insegnamento, sul comportamento dei docenti, sulla disciplina, sul rigore degli esami. Anche i regimi dittatoriali hanno sempre dato, e danno, una grande importanza all’istruzione se non altro per educare i cittadini alla propria visione politica. Il Fascismo, almeno nelle grandi città, costruì per i maestri elementari, cioè per il livello più basso della classe dei docenti, case che oggi fanno gola ai benestanti. I docenti dovevano godere di una considerazione sociale elevata che poi si rifletteva sul loro prestigio in aula.
Nell’Italia repubblicana, per decenni, durante tutta l’era democristiana e oltre, il ministero dell’Istruzione andava come premio di consolazione al più sfigato dei politici o a quello che stava in ‘standby’. Sono stati ministri dell’Istruzione Giuseppe Bettiol, Egidio Tosato, Giuseppe Medici, Giacinto Bosco, Fiorentino Sullo, Riccardo Misasi, Mario Pedini, Adolfo Sarti, Guido Bodrato, Franca Falcucci, Giovanni Galloni, Gerardo Bianco, Riccardo Misasi, Rosa Russo Iervolino, Francesco D’Onofrio, Giuseppe Fioroni. E fermiamoci qui per carità di patria.
Per decenni la scuola è stata concepita come una sorta di ‘riserva indiana’ per semioccupati od occupati malpagati e frustrati, senza nessuna considerazione per il merito e la passione per il proprio lavoro (gli scatti erano solo per anzianità). Molti dei ‘babypensionati’ vengono dalla scuola e spesso erano i migliori, con una vocazione autentica per la loro delicatissima professione. Si tenga presente che il lavoro dell’insegnante scrupoloso non si esaurisce in aula ma, soprattutto per alcune materie, lettere e filosofia in particolare, continua a casa con la correzione dei compiti e la preparazione della lezione del giorno successivo. I migliori, alla lunga, hanno pensato che non ne valesse la pena e sono andati a spendere il loro talento altrove, gli altri che talento non avevano sono rimasti a scaldare i banchi.
A tutt’oggi ogni nuovo ministro della Pubblica Istruzione elabora un suo piano di studi puntualmente sconfessato dal suo successore. Non funziona così, non può funzionare così. Anche se oggi tutto va a gran velocità (che, sia detto di passata, è uno dei drammi della vita moderna) un piano di studi va pensato con vista lungimirante, per almeno due o tre generazioni. Se il mitico ‘classico’ di Gentile ha potuto resistere decenni è perché Gentile aveva guardato avanti e soprattutto aveva ben in testa che la scuola ti deve dare, oltre alle nozioni, gli strumenti per capire la realtà. Perché capire è più importante di sapere.
Tutti i recenti tentativi di riforma hanno cercato di adeguare la scuola alle nuove realtà. E’ inevitabile, ma si è troppo forzato sull’attualità. La scuola si deve occupare soprattutto dell’inattuale, Eraclito, Platone, Bacone se non li incontri a scuola poi non li incontri più. L’attualità ci entra ed esce da tutte le orecchie.
Ma la distruzione o la semidistruzione definitiva di ogni capacità di comprensione e del far propria una vera cultura, e questo riguarda l’intera popolazione, giovanile e adulta come rileva l’Ocse, viene dalla tecnologia digitale. Su internet puoi trovare tutto, subito. Incameriamo una serie infinita di nozioni, ma è un generico sapere sul sapere. Paradossalmente da questo punto di vista le cose andavano meglio in era preindustriale. Scrive Johan Huizinga ne La crisi della civiltà che è del 1935: “L’uomo comune diventa sempre meno dipendente dalle proprie facoltà di pensiero e di espressione. Il contadino, il marinaio, l’artigiano di una volta, nel tesoro delle sue conoscenze pratiche trovava anche lo schema spirituale con cui misurare la vita ed il mondo. Anche dove l’individuo sia animato da un sincero impulso verso il sapere e la bellezza, dato l’ossessivo sviluppo dei mezzi di diffusione meccanica dello scibile, difficilmente potrà sottrarsi alla noia di ricevere, bell’e confezionati o strombazzati, giudizi e nozioni”.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 12 ottobre 2019
Su Repubblica del 3.10 ho letto, per la prima volta in Italia, un esauriente reportage su Afghanistan firmato da Giampaolo Cadalanu (mi spiace per Marco ma delle buone cose le fanno anche loro soprattutto da quando alla direzione c’è Carlo Verdelli). Il reportage si divide in due parti: un’analisi dell’inviato del Guardian Jason Burke e un’intervista a uno dei più importanti comandanti talebani Qadir Hekmat. Burke, che resta ovviamente filoccidentale, afferma: “Gli attacchi dell’11 settembre si fecero all’insaputa dei leader talebani dell’epoca”. Questo io lo scrissi fin dai primi giorni e l’ho riportato poi nel mio libro Il Mullah Omar del 2011, di cui alcune ‘anime belle’, una giornalista di Libero e una deputata pdl, noti campioni della libertà d’informazione, chiesero il sequestro.
Il comandante talebano Qadir sostiene in sostanza che il governo del Mullah Omar non impediva alle donne di studiare. Un uomo di parte si dirà. Però sarebbe bastato leggere all’epoca i documenti ufficiali del governo talebano per rendersi conto che Qadir dice la verità. E’ scritto infatti in un decreto del novembre 1996: “Nel caso che sia necessario che le donne escano di casa per scopi di istruzione, esigenze sociali o servizi sociali devono coprirsi concordemente alle norme della Sharia islamica”. Spiega Qadir a Cadalanu: “Mi dica, in Italia una donna può girare nuda senza violare la legge? Non credo, sarebbe subito arrestata. Ecco, quelle sono le vostre regole, la nostra è la Sharia, e prevede che le donne portino l’hijab” (non il burqa, come in Occidente si è sostenuto fino all’estenuazione). E aggiunge: “L’emirato aveva grandi progetti dedicati alle donne, ma non ha fatto in tempo a svilupparli. Non è vero che siamo contrari all’istruzione femminile, basta che le scuole siano separate da quelle maschili. Nelle zone controllate da noi, le ragazze vanno a scuola regolarmente”. L’emirato aveva grandi progetti dedicati alle donne, ma non ha fatto in tempo a svilupparli. Questo stupirà e scandalizzerà tutti quelli che per diciotto anni si sono bevuti la propaganda occidentale. La verità è che i Talebani, ai tempi del governo del Mullah Omar, non poterono sviluppare il loro programma sull’istruzione femminile perché impegnati in una lotta logorante da Massud che non accettava di esserne stato sconfitto. Avevano quindi altre priorità. E si può capirli.
I Talebani non solo non sono legati all’Isis ma lo combattono dal 2015 quando gli uomini di Al Baghdadi hanno cominciato a penetrare in Afghanistan. Qualcuno ricorderà, forse, la ‘lettera aperta’ del 2015, che noi soli abbiamo pubblicato sul Fatto, di Omar ad Al Baghdadi in cui gli intimava di non entrare in Afghanistan. Questa lotta all’Isis sta nei fatti e non avrebbe nemmeno bisogno di chiarimenti. Comunque, se proprio si vuole, la si ricava anche incrociando le dichiarazioni del giornalista del Guardian e del comandante talebano. Dice Burke: “I Talebani non hanno mai cercato di espandere i confini dell’Afghanistan…non permetterebbero a nessun gruppo o individuo di usare l’Afghanistan come trampolino di lancio per degli attacchi internazionali”. Insomma non hanno nulla a che fare col terrorismo internazionale come si è sempre sostenuto e si continua a sostenere non solo sui media italiani ma su tutti i media occidentali.
I Talebani hanno sempre concentrato i loro attacchi su obbiettivi militari e politici cercando di risparmiare il più possibile i civili per la semplice ragione che è proprio sull’appoggio di buona parte della popolazione che hanno potuto sostenere una resistenza che dura da diciotto anni. Dice Qadir: “Noi non attacchiamo mai obiettivi civili, matrimoni, funerali. Americani e Isis, sì…non c’è un solo villaggio dove gli invasori non abbiano commesso crimini di guerra o ucciso innocenti”.
Premesso che il reportage di Repubblica e di Cadalanu resta eccellente, non di meno suscita un moto di indignazione. E’ troppo facile, troppo comodo e persino ipocrita scoprire l’acqua calda dopo diciotto anni, quando ormai gli americani hanno perso la guerra (“la guerra che non si può vincere”) e Trump è deciso a ritirare le truppe perché, da buon imprenditore, ritiene inutile, a questo punto, spendere 45 miliardi di dollari l’anno.
Bene. E’ dal 1996 che scrivo queste cose sull’Afghanistan e altre non meno gravi e occultate dalla disinformatia occidentale. Ma mai, dico mai, che i media italiani, televisione, radio, giornali abbiano sentito almeno la curiosità di interpellarmi su questa vicenda e su qualsiasi altra vicenda, mentre sui talk vedo evoluire la solita ‘compagnia di giro’. Sono un emarginato, nel modo subdolo e vile che si addice ai nostri tempi tanto democratici in cui non si fa che parlare di libertà proprio mentre la si nega. Scrisse Indro Montanelli nella prefazione al mio libro Il Conformista: “Gliela faranno pagare calando su di lui una coltre di silenzio: da quando i roghi non usano più, è la sorte che attende i conformisti che non si conformano”.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 9 ottobre 2019