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Dopo che la Corte d'Assise d'Appello, formata oltre che da magistrati togati da giudici popolari, ha assolto per 'insufficenza di prove' i poliziotti, gli infermieri e i medici coinvolti nel 'caso Stefano Cucchi', assoluzione che ha sollevato l'indignazione dei social network, di parlamentari, di ministri, il presidente della stessa Corte, Luciano Panzani, ha dichiarato: «Basta con la gogna mediatica. Se non ci sono prove sufficenti di responsabilità individuali il giudice deve assolvere. Questo per evitare di aggiungere orrore a obbrobrio e far seguire a una morte ingiusta la condanna di persone di cui non si ritiene provata la responsabilità. E' una questione che riguarda le garanzie individuali». Dichiarazioni ineccepibili dal punto di vista del contenuto quelle del presidente della Corte, ma ugualmente inaccettabili per la forma. I magistrati, appartengano alla magistratura giudicante o a quella requirente, dovrebbero astenersi da qualsiasi commento sui procedimenti cui hanno partecipato. Bisogna tornare alla consuetudine dei vecchi dì, di un Paese meno sgangherato dell'attuale, quando il magistrato parlava solo 'per atti e documenti'. Le ragioni dell'assoluzione per 'insufficenza di prove' le sapremo quando ne saranno fornite le motivazioni. Nel contempo le dichiarazioni del presidente Panzani sono ineccepibili e addirittura ovvie: in uno Stato di diritto la Giustizia non deve trovare a tutti i costi un colpevole tanto per assecondare l'emotività dell'opinione pubblica. Questa sarebbe la giustizia giacobina, la giustizia 'popolare', quella che manda pilatescamente Cristo sulla croce perché così vuole il 'mob', il popolo ebraico. Ma la 'giustizia popolare' è l'esatto contrario della Giustizia. Ci sono volute migliaia di anni per elaborare un sistema giuridico che tuteli e garantisca l'individuo di fronte alle voglie forcaiole del popolo. Non è il caso di tornare indietro, nemmeno di fronte a un caso così doloroso come la morte di Stefano Cucchi. Che il ragazzo non sia deceduto solo per cause accidentali ma per un concorso di responsabilità lo riconosce anche la Corte d'Appello di Roma, ma nello stesso tempo afferma che in base agli elementi raccolti non è in grado di individuare con certezza il colpevole o i colpevoli. E quindi ha giudicato in base al principio fondamentale, antico e moderno, 'in dubio pro reo', che è garanzia per tutti, anche per coloro che oggi protestano contro la sentenza sulla vicenda Cucchi.

Peggio ancora di Luciano Panzani ha fatto il Procuratore generale Giuseppe Pignatone. Perché mentre il primo, pur contravvenendo al dovere di star zitto, ha perlomeno ricordato alcuni principi elementari del diritto, che tutti dovremmo conoscere e che invece ignoriamo (se fosse per me io diritto lo farei studiare dalla prima elementare), il secondo ha detto tutto e il contrario di tutto aggiungendo confusione a confusione. Da una parte ha infatti riconosciuto «l'egregio lavoro» fatto dai titolari dell'inchiesta, cioè dai Pm, dall'altro ne prospetta la riapertura. Con ciò illudendo i familiari di Cucchi. Perché una revisione del processo si ha solo quando emergano fatti clamorosamente nuovi, ed in Italia è una fattispecie rarissima tanto che nemmeno Silvio Berlusconi è riuscito ad ottenerla. A meno che Pignatone non si stia inventando un quarto grado di giudizio oltre ai tre, e son già troppi, esistenti.

Io invece ammiro i giudici, togati e popolari, della Corte d'Appello di Roma che sono riusciti a resistere alle pressioni dei frequentatori di twitter e facebook (i social network si stanno rivelando una deriva della democrazia pur apparendone il contrario) di parlamentari, di ministri. E' molto facile, molto comodo, molto gratificante fare 'le anime belle' a spese degli altri. In quest'orgia di demagogia non poteva mancare Matteo Renzi che in non so quale trasmissione (ma quando lavora costui?) si è detto «colpito dalla vicenda di Stefano come si trattasse di un mio fratello minore». Ma 'vai a dar via i ciapp' come diciamo noi che siamo di Milano.

Massimo Fini

Il Gazzettino, 7 novembre 2014

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Papa Bergoglio ha stufato. La deve smettere di intromettersi negli affari interni dello Stato italiano. La settimana scorsa, ad un convegno, ha dichiarato: «La carcerazione preventiva quando in forma abusiva procura un anticipo della pena, previa alla condanna o come misura che si applica di fronte al sospetto più o meno fondato di un delitto commesso, costituisce un'altra forma contemporanea di pena illecita occulta, al di là di una patina di legalità». Ora, per quanto si voglia dilatare il magistero della Chiesa, non solo religioso ma anche sociale, non può comprendere l'organizzazione giudiziaria di uno Stato. Sarebbe come se un ministro della Repubblica mettesse in discussione il dogma della verginità della Madonna. Non sono affari suoi. «Libera Chiesa in libero Stato» ha detto il conte Camillo Benso di Cavour che l'Italia l'ha fondata, al contrario dei politici attuali che la stanno sfondando. Il che vuol dire che la sfera statuale e quella religiosa devono rimanere ben separate e distinte. E' invece da almeno trent'anni, dall'avvento di Wojtyla, che Papi, cardinali, vescovi e altre sottane hanno il malvezzo di entrare a piedi uniti nelle questioni del nostro Stato. Wojtyla arrivò a lanciare anatemi contro la Lega per le sue pulsioni indipendentiste (da che pulpito vien la predica: la Chiesa ha sempre cercato di impedire in tutti i modi, finché ha potuto, l'unità del nostro Paese) come se un popolo fosse più morale e spirituale se unito invece che trino.

Finché c'è stata la cara, vecchia e mai troppo rimpianta Democrazia Cristiana, quella vera, d'antan, queste intrusioni non erano permesse, almeno su questioni così prettamente statuali (aborto e divorzio sono fatti di coscienza e quindi anche religiosi). Perché i democristiani, anche quando cattolici convinti, avevano la consapevolezza di essere classe dirigente di uno Stato laico e non teocratico.

I politici di oggi invece fanno a gara per baciare le babucce papali, cardinalizie e vescovili convinti di procacciarsi con ciò il voto dei cattolici. Oltre a contravvenire al dettame di Cavour si sbagliano. A parte qualche nicchia in Italia non esistono più cattolici, è sparito, come in tutto l'Occidente, il senso del sacro e la sua assenza si avverte in particolare proprio a Roma, dove il Papa risiede, la città più pagana che io conosca (e questo vorrà pur dir qualcosa). Il cattolicesimo è stato sostituito da forme di superstizione quasi medioevali.

Ma Papa Bergoglio piace. O, per essere più precisi, è un 'piacione'. Io lo definisco «il Renzi della Chiesa». E' destino che i Papi, siano polacchi o argentini, quando arrivano in Italia cadano preda di forme di narcisismo e di protagonismo dove l'apparire è più importante dell'essere. Wojtyla si spinse fino a telefonare a 'Porta a Porta' di Bruno Vespa, arrivando a un passo dal distruggere quel che resta di Santa Madre Chiesa (durante il quarto di secolo del suo Magistero Superstar le vocazioni sono crollate, i monasteri desertificati, i conventi pure e anche le vecchie, care suorine, che io rispetto profondamente perché nel momento del bisogno loro ci sono, forse l'ultimo baluardo di un credo in gravissima crisi, hanno perso colpi). Papa Bergoglio mi pare avviato sulla buona strada. Forse, fra non molto, lo vedremo condurre un talk insieme a Renzi e a Barbara D'Urso. Che male ci sarebbe? Siamo o no moderni?

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 1 novembre 2014

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«Pagherete caro, pagherete tutto» ero il motto dei sessantottini. Da molti anni io l'ho riformulato così: «Rimpiangerete caro, rimpiangerete tutto». Visto Renzi, temo che toccherà anche a noi, che gli siamo ostili da sempre, rimpiangere Silvio Berlusconi. Per una patologica ipertrofia dell'io Renzi e Berlusconi sono alla pari, ma quanto a spocchia, arroganza, villania, volgarità e persino «una ridicola autocrazia mascherata da riformismo parolaio», come scrive Piero Ostellino sul Corriere (29/10), il primo batte il secondo e di parecchie lunghezze.

Questo signore che non è stato eletto da nessuno, che non ha avuto il consenso di nessuno (perché le elezioni europee poco o nulla hanno a che fare con quelle italiane), che dice, tronfio di sè, di rappresentare il 40% della popolazione mentre, se va bene, ne rappresenta solo un quinto, perché solo la metà dei cittadini è andata a votare, ci informa che governerà fino al 2023, altri nove anni, e solo dopo, bontà sua, si farà da parte. Credo che nemmeno Berlusconi sia arrivato a tanto.

Provvedimenti importanti del governo li annuncia via twitter o nei talk show, in cui è onnipresente aggirandovisi come una trottola impazzita, e il cittadino è frastornato perché non capisce se si tratta già di leggi dello Stato o di semplici boatos propagandistici destinati ad approdare nel nulla, come finora è quasi sempre avvenuto. E se invece qualcuno di questi provvedimenti diventa effettivamente una legge si scopre che manca la copertura economica, e tutto viene rinviato a degli imprecisati decreti attuativi, o si rivelano una solenne presa in giro. Come per le tasse. Anche se su questo terreno Berlusconi ha la coscienza assai sporca, ha buon gioco nel dire che «Renzi quel che dà con una mano lo toglie con l'altra».

Parla si sè in terza persona, come il Re Sole. Tende ad abolire ogni dibattito interno nel suo partito. E' un'esperienza già fatta da Craxi e abbiamo visto com'è andata a finire. Si sente 'novo', 'novissimo' ma in realtà è entrato nel partito che oggi vuole distruggere, identificandolo con la sua persona, all'età di 22 anni, godendo del privilegio, come quasi tutti i politici, di non aver fatto una sola ora di lavoro vero (almeno Berlusconi ha lavorato per più della metà della sua vita ed è diventato, sia pure con metodi che per carità di patria chiameremo solo 'disinvolti', un grande imprenditore).

Ha affermato che «i piccoli partiti sono stati la sciagura dell'Italia». Per la verità una sciagura molto più grave è stata proprio il suo partito, non intendo il Pci che era una cosa seria ma quel Pds in cui milita da diciassette anni. In realtà approffitando di un vuoto politico, del collasso di una destra che non è mai riuscita ad esser tale, vuole arrivare a 'un partito unico nazionale' di cui sarà ovviamente il Capo. Beh, se è per questo andiamo a Predappio e riesumiamo la salma di Benito Mussolini. Almeno il Duce aveva in testa un'idea di Stato e di Nazione, costui in testa ha solo se stesso.

Dicono che ha un linguaggio giovanilistico. Non è giovanilistico, è solo volgare. «Burraco tua sorella» è un'espressione che ho sentito, l'ultima volta, trent'anni fa, in bocca a un ragazzotto di un paesino romagnolo.

Dicono sia un bel ragazzo. I gusti son gusti. Ma se si entra in questo terreno lombrosiano sia consentito anche a noi di fare qualche osservazione. Guardategli gli occhi: sono ambigui, sfuggenti, infidi, come ambigua, sfuggente, infida è la sua persona. Del resto ha detto al suo compagno «stai sereno» e due giorni dopo gli ha soffiato il posto. Se si fosse comportato così in un bar non avrebbe più potuto metterci piede. E invece è presidente del Consiglio della Repubblica italiana.

Massimo Fini

Il Gazzettino, 30 ottobre 2014