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I bombardamenti americani su Raqqa e altre località della Siria controllate dall'Isis hanno un qualche fondamento legale, un'ombra di legittimità internazionale? No. Lo ammette sul Corriere anche Guido Olimpio, prestigioso commentatore di questioni internazionali, iperfiloamericano. La Siria non ha richiesto l'intervento americano e l'Onu si è ben guardata dall'avallarlo. «Per questo» scrive Olimpio «gli Usa si aggrappano all'unica giustificazione possibile. Quella del pericolo di un attentato terroristico di grandi proporzioni contro obbiettivi americani o di altri Paesi» organizzato dal gruppo Khorasan, definito qaedista, che non si sa nemmeno bene se sia collegato all'Isis. Insomma l'America del Premio Nobel per la Pace Barack Obama è tornata alla teoria della 'guerra preventiva' di George W. Bush, ammesso che l'abbia mai abbandonata.

E' dal collasso dell'Urss che gli americani continuano imperterriti una politica di aggressione che, ogni volta, si è rivelata un boomerang. Nel 1996 impedirono ai serbi di Bosnia una vittoria conquistata sul campo e nel 1999 attaccarono direttamente la Serbia, cristiana, per favorire la componente musulmana dei Balcani a favore del loro grande alleato nella regione, la Turchia. Risultato: oggi in Albania, in Bosnia, in Kosovo ci sono cellule di radicalismo islamico ben più vicine a noi di quelle di Raqqa e che ci possono colpire in ogni momento. Nel 2001 attaccarono l'Afghanistan, che con l'avvento dei Talebani aveva trovato almeno un po' di sicurezza e di pace dopo anni di guerra civile e di soprusi, assassini, stupri, taglieggiamenti, rapine da parte dei 'signori della guerra', senza alcuna vera ragione. Nessuno ha mai fornito le prove che alle spalle dell'attacco alle Torri Gemelle ci fosse Bin Laden, prove che, giustamente, il governo afgano-talebano chiedeva e a cui gli americani diedero la sprezzante risposta: «Le prove le abbiamo date ai nostri alleati». A un convegno tenutosi domenica a San Pellegrino il direttore del Fatto, Antonio Padellaro, ha trovato come unica giustificazione dell'aggressione all'Afghanistan il fatto che i Talebani avevano abbattuto i Buddha di Bamiyan. A parte che nell'ottica dell'Afghanistan talebano (dove, a differenza di quanto avviene in Corea del Nord, a Cuba, in Cina o in qualsiasi altro Paese, dittatoriale o no, non circolava una sola immagine del leader, il Mullah Omar) quell'abbattimento aveva un senso, quattordici anni di occupazione e di guerra, centinaia di migliaia di vittime civili provocate dai bombardamenti e dai droni della Nato sembrano un prezzo un tantino alto per due statue. Nel 2003 c'è stato l'attacco all'Iraq che con la sua disintegrazione, combinata con l'appoggio fornito ai ribelli anti Assad, ha dato origine al fenomeno dell'Isis. Nel 2006/7 c'è stato l'attacco alle Corti Islamiche somale, che in Somalia avevano fatto lo stesso lavoro di pulizia, nient'affatto etnica, dei Talebani in Afghanistan. E oggi i somali corrono a ingrossare le file dell'Isis. Nel 2011 c'è stata la defenestrazione violenta di Gheddafi e oggi la Libia è in mano agli jihadisti. Nell'estate 2013 c'è stato l'appoggio occidentale al colpo di Stato del generale tagliagole Al Sisi che ha rovesciato il governo, eletto con legittime elezioni, dei Fratelli musulmani. E oggi il Sinai è un brodo di coltura dello jihadismo così come lo è l'Algeria dove nel 1981 altri generali, sempre con l'appoggio occidentale, misero in galera e massacrarono gli esponenti del Fis (Fronte islamico di salvezza) vincitore delle prime elezioni libere in quel Paese (e l'altro ieri come spietata ritorsione per la partecipazione dei caccia francesi ai bombardamenti in Siria c'è stata la barbara esecuzione nel Maghreb dell'escursionista Hérve Gourdel).

Questo per il passato recente. Alle spalle ci sono due secoli in cui prima gli europei e poi anche gli americani hanno fatto quel che han voluto in Medio Oriente (e altrove). E' così strano che il mondo arabo musulmano abbia covato un sordo rancore contro gli occidentali che oggi esplode nelle forme più feroci e spietate? Nel 2005, dopo gli attentati alla metropolitana londinese, il sindaco di Londra, Ken Livingstone, molto amato dai suoi concittadini, ebbe l'onestà intellettuale di dire: «Certo, gli attentati terroristici sono inaccettabili. Ma se gli arabi e i musulmani avessero fatto in Gran Bretagna quello che noi inglesi abbiamo fatto per due secoli in Medio Oriente, io oggi sarei un terrorista britannico».

Massimo Fini

Il Gazzettino, 26 settembre 2014

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Nei 'Frammenti alle istituzioni repubblicane' Saint-Just, uno dei leader della Rivoluzione francese da cui è nato il nostro mondo, afferma: «La virtù è una sola e quindi deve essere ammesso solo il partito che in essa si riconosce, mentre tutti gli altri, che le sono contrari, vanno soppressi». La pretesa di possedere una verità assoluta che esclude tutte le altre non appartiene solo alle religioni monoteiste, nelle loro varie declinazioni di cui l'Isis è l'ultima espressione, ma anche alla cultura laica. Oggi la proposizione di Saint-Just può essere tradotta così: «La virtù è solo democratica, tutti i popoli che in essa non si riconoscono vi vanno ricondotti, con le buone o con le cattive». E' la storia dell'Occidente degli ultimi quindici anni, dall'aggressione alla Serbia in poi. In Iraq sono quindi a confronto due totalitarismi, uguali e contrari, quello dell'Isis che vuole convertire tutti, con la violenza, alla propria fede, e quello occidentale che fa lo stesso. Con la differenza che il primo è consapevole di essere tale, il secondo no, crede di essere liberale.

Lasciamo pur perdere la filastrocca delle guerre d'aggressione perpetrate dagli americani negli ultimi anni, ma se da più di un ventennio si inserisce l'Iran khomeinista, cioè un Paese strutturato, di grande cultura, colpevole di aver cacciato a pedate lo Scià, un dittatore feroce, per quanto patinato, nell' 'Asse del Male', è evidente che si pongono le premesse per la nascita di fenomeni incontrollabili come l'Isis. Anche se adesso uno dei tanti paradossi della Storia vuole che proprio ai pasdaran iraniani ci aggrappiamo perchè sono i soli che hanno le palle per affrontare i guerriglieri islamici sul campo.

Gli americani hanno sempre bisogno di 'punire' qualcuno, si tratti di Iran, di Milosevic, di Talebani, di Saddam, di Gheddafi. Sta nella loro cultura protestante. Un tempo, non tanto lontano, i bambini e le bambine riottosi venivano fustigati davanti a tutta la famiglia, a culo nudo per umiliarli (nelle scuole inglesi è esistita per tutto l'Ottocento e oltre, la pratica del 'flogging': frustare lo studente o la studentessa indisciplinati davanti a tutta la classe, con le vesti rialzate o i calzoni abbassati -Abu Ghraib si spiega anche così). Sono sempre lì a segnare 'linee rosse' invalicabili, 'diritti umani' inviolabili in nome di una morale (Saint-Just avrebbe detto una 'virtù') superiore, la loro. Io non riconosco agli americani alcuna superiorità morale. Hanno cominciato con un genocidio infame e vile (winchester contro frecce), usando anche le 'armi chimiche' del tempo (whisky) per distruggere un popolo spirituale come i pellerossa (e adesso si scandalizzano per gli iazidi). Durante la seconda guerra mondiale bombardarono Dresda, Lipsia, Berlino uccidendo volutamente milioni di civili col preciso scopo, dichiarato dai loro comandi politici e militari, di «fiaccare il morale del popolo tedesco». Sono gli unici ad aver usato l'Atomica, e Nagasaki venne tre giorni dopo Hiroshima quando si conoscevano i suoi spaventosi effetti. Sono l'unico Paese occidentale ad aver praticato la schiavitù in epoca moderna, scomparsa in Europa dalla fine dell'Impero romano. Hanno avuto l'apartheid fino al 1960, salvo scagliarsi subito dopo contro quella sudafricana che qualche ragione in più ce l'aveva.

Io non sto con l'Isis. Ma l'ipocrisia americana mi fa più ribrezzo dei tagliatori di teste islamici.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 20 settembre 2014

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Carlo Tavecchio, neopresidente della Federcalcio, è stato ferocemente osteggiato per essersi lasciato andare a una battuta infelice: aveva definito un giocatore di colore «un mangiatore di banane» (Buon Dio, non si può dire più nulla, il nostro vocabolario, come nel '1984' di Orwell, sarà presto ridotto a una 'neolingua' fatta di eufemismi ridicoli). Però le sue prime proposte di riforma, riduzione della rosa delle squadre a 25 giocatori, almeno 8 devono provenire dal vivaio, non più di due extracomunitari per squadra, sono coerenti e, sia pur puntando su diversi obbiettivi, vanno tutte nella stessa direzione. Il primo obbiettivo, anche se non il più importante, è ridurre i costi delle società, costringendole a costumi più sobri. Il secondo obbiettivo è di cercare di riequilibrare un po' il Campionato impedendo, o perlomeno tentando di impedire, alle solite note di fare razzia di tutti i giocatori più forti. Pochi ricordano che nel dopoguerra, proprio per questo motivo, una squadra non poteva avere in rosa più di 16 giocatori, gli altri doveva pescarli dalla 'Primavera'. Il terzo obbiettivo è di ridare il calcio italiano, almeno in parte, ai giocatori italiani, alla luce anche della figuraccia che abbiamo rimediato agli ultimi Mondiali. E' evidente infatti che se le nostre squadre sono zeppe di stranieri, a volte dei brocchi pescati qua e là solo per dare in pasto al pubblico delle 'novità', per i giovani calciatori italiani non c'è posto, non hanno la possibilità di crescere. C'è stato un periodo in cui il Milan di Berlusconi, antesignano-distruttore anche in questo, aveva come 'terza scelta' Rivaldo, il capitano del Brasile campione del mondo. Eppure avrebbe dovuto insegnare qualcosa, da tempo, la lezione del Barcellona e, con essa, della Spagna che negli ultimi anni hanno dominato il calcio europeo e mondiale. Tutti i più importanti giocatori del Barça, da Iniesta a Xavi a Busquets a Piqué allo stesso Messi che vi è entrato a 14 anni, vengono dalla 'cantera', dal vivaio. Il quarto obbiettivo è il più ambizioso ma è quasi una 'mission impossible'. Cercare di restituire al calcio tutti quei motivi rituali, mitici, simbolici, sentimentali, identitari che per più di un secolo ne hanno fatto la fortuna. Il calcio infatti prima di essere spettacolo, prima di essere gioco, prima di essere sport è un rito. Un rito collettivo e identitario. Come faccio a identificarmi in una squadra se vi giocano undici stranieri, e i calciatori cambiano ogni anno, e spesso all'interno della stessa stagione, con tanti saluti alla regolarità del Campionato, se le maglie, per esigenze degli sponsor, in trasferta non sono quelle tradizionali? Il business l'ha avuta vinta su tutto svuotando il calcio dei suoi contenuti più autentici. Addio al rito della domenica e al subrito della schedina giocata al bar di sabato. Per esigenze televisive si gioca tutta la settimana. Al venerdì c'è l'anticipo di B. Al sabato la B e due anticipi di A. La domenica una partita si gioca a mezzogiorno, altre, le meno importanti, di pomeriggio, la sera c'è il clou. Il lunedì il posticipo di A. Poiché la Coppa dei Campioni non è più la Coppa dei Campioni (un tempo vi partecipavano solo le squadre che avevano vinto i rispettivi campionati nazionali con eliminazioni secche in partite di andata e ritorno) ma è diventata la pletorica Champions League a gironi, si gioca praticamente ogni martedì e mercoledì. Il giovedì c'è la comica Europa League. Senza contare la Coppa Italia, la Coppa dei vincitori di Coppa, le Coppe intercontinentali.

Qualche anno fa, in una domenica canicolare di giugno, ci fu a Milano, davanti alla sede della FIGC, una civilissima manifestazione degli svilaneggiatissimi ultras, in rappresentanza di 68 società, al grido di «Ridateci il calcio di una volta!». Ma quel calcio non tornerà più. Perché morirà prima. Di overdose.

Massimo Fini

Il Gazzettino, 19 settembre 2014