In un suo recente 'Cucù' sul Giornale Marcello Veneziani lamentava «la disfatta dell'intelligenza». Non mi pare sia così. Non è certo l'intelligenza che manca ai Ferrara, ai Battista, ai Della Loggia. Gli manca l'onestà intellettuale, deficit che poi, discendendo giù per rami meno nobili, diventa anche disonestà materiale. Di intelligenze, in Italia, ne abbiamo a carrettate. Siamo diventati tutti furbissimi. E i fessi, cioè le persone magari intellettualmente modeste ma oneste, rispettose della propria come dell'altrui dignità, sono una minoranza, ridicola, patetica, da rinchiudere in qualche riserva, per conservarli se non altro come curiosità antropologica.
Più convincente mi sembra il discorso di Veneziani quando osserva che alla politica, di sinistra o di destra, manca una visione d'insieme. Ma questo non è un problema precipuamente italiano ma occidentale. Fin dagli albori della nostra civiltà sono stati i filosofi a orientare la politica. Nella Grecia antica Aristotele e Platone, nell'Alto Medioevo ancora Aristotele (ipse dixit) e i Padri della Chiesa, nel Basso Medioevo la Scolastica (Tommaso d'Acquino, Alberto Magno, Raymond de Pennafort, Enrico di Langenstein, Nicola Oresme) che condusse una generosa battaglia, a lungo vincente, contro il profitto e contro non solo l'usura, come si cerca di far credere, ma anche contro l'interesse con la sottile motivazione che «il tempo è di Dio e quindi di tutti e non può essere quindi oggetto di mercato». In seguito, con l'Illuminismo, Kant, Hegel, la sinistra e la destra hegeliana, Marx e tutti i discendenti di queste linee, liberiste o marxiste in economia.
L'ultimo filosofo degno di questo nome è stato Martin Heidegger, attivo negli anni Trenta, che ha posto la questione cruciale, nella modernità, della tecnica. Da allora il pensiero è morto. E anche la filosofia politica. Perché si basa su due categorie, la Destra e la Sinistra, che, oltre a non differenziarsi quasi più in nulla da quando anche la Sinistra ha accettato le regole del mercato, sono vecchie di due secoli, due secoli che hanno corso a velocità cosmica, e non sono in grado di comprendere le esigenze più profonde dell'uomo contemporaneo che, al di là delle apparenze, non sono economiche ma esistenziali. Ci muoviamo determinati da un meccanismo, «il produci, consuma, crepa» per dirla con i CCCP (che negli ultimi tempi è diventato, paradossalmente, «consuma per produrre» e, naturalmente, crepa). Ma non ci chiediamo nemmeno più se questo meccanismo abbia un senso e quale e dove ci stia portando.
Beppe Severgnini scrive sul Corriere (22/12): «Il mondo ci riconosce che, per adesso, non si è inventato niente di meglio della democrazia e del mercato». Mi sembra un modo molto autoreferenziale, e anche un tantino infantile, di ragionare. Quel mondo che «ci riconosce» siamo noi. In altri mondi la si pensa diversamente. E anche nel nostro mondo c'è molta gente, meno intelligente di Severgnini, che sente, intuisce, che siamo al tracollo. Si possono immaginare, per parafrasare Isaac Asimov, un paio di 'catastrofi a piacere'. Un collasso del mondo economico globale, perché abbiamo immesso nel sistema una quantità di denaro talmente enorme da non corrispondere più a nulla se non a una scommessa su un futuro così sideralmente lontano da essere inesistente. Oppure un collasso ambientale. Il primo precederà, molto probabilmente, e fortunatamente, il secondo, evitandolo. E dobbiamo sperare che arrivi al più presto. Perché almeno le nuove generazioni possano ricominciare da capo.
Questo, cari lettori del Fatto, è il mio augurio di un Buon e Santo Natale.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 27 dicembre 2014
In un articolo su Italia settimanale del febbraio 1996, intitolato 'Questi liberal con la puzza sotto il naso', paragonavo il professor Ernesto Galli della Loggia al professor Lucio Lombardo Radice, dirigente del Pci, che si accreditava come matematico per meriti politici e come politico per meriti matematici, ma che non aveva combinato nulla in nessuna delle due attività. «Così» scrivevo «il Della Loggia si accredita come editorialista in quanto storico e come storico in quanto editorialista...invece in più di mezzo secolo di vita il professor Della Loggia non ha prodotto nulla che abbia attinenza con la sua professione». Il professore mi querelò chiedendomi mezzo miliardo. Ma il Gip del Tribunale di Roma rigettò la querela con motivazioni che screditavano ancor di più di quanto avessi fatto io l'onorabilità di storico del professor Ernesto Galli della Loggia (sentenza 22/9/1998).
Perché ricordo quell'antica 'querelle'? Il mio articolo era in risposta a uno in cui il professore definiva 'rozzi, ignoranti, plebei' Bossi e Di Pietro cercando così di delegittimare due dei protagonisti di quella che impropriamente, e subdolamente, è stata chiamata la 'rivoluzione italiana' del 1992-94 (da parte della magistratura non ci fu alcuna 'rivoluzione', ma il richiamo anche agli esponenti della classe dirigente al rispetto di quelle leggi che tutti noi cittadini plebei siamo chiamati a osservare). Adesso il Della Loggia ci riprova con un articolo sul Corriere del 14/12. Scrive: «Tra il 1992 e il 1994 -non bisogna mai dimenticarlo- la Seconda Repubblica è nata fuori e contro la politica. Violando in molti modi l'insieme di regole e di prassi che fino allora la democrazia italiana aveva più o meno sempre rispettato». Della Loggia cita come fatto inaudito che il Capo dello Stato di allora, Oscar Luigi Scalfaro, si rifiutò di controfirmare il decreto legge del Guardasigilli Giovanni Conso con cui si depenalizzava il reato di finanziamento illecito ai partiti. Vabbè che il Della Loggia è uno storico, soi-disant, ma almeno un poco di diritto dovrebbe masticarlo e sapere quindi che è nella potestà costituzionale del Presidente della Repubblica rinviare alle Camere leggi che non lo convincono (art.74 Cost.).
Insomma per Della Loggia, in ciò perfettamente in linea con Napolitano, i responsabili della disastrosa situazione, non solo economica ma etica, in cui si trova oggi l'Italia non furono i ladri di partito ma i magistrati che alimentarono «il populismo, il giustizialismo» e naturalmente, parola magica, «l'antipolitica». E' bene ricordare allo smemorato che quella «prassi della democrazia italiana» della Prima Repubblica, che oggi rievoca con nostalgia, ci è costata, secondo un'indagine prudenziale di Giuliano Cazzola, 630 mila miliardi di vecchie lire, un quarto circa del nostro debito pubblico. E casca male anche come tempismo perché una recentissima inchiesta di Confindustria dice che, a causa della corruzione, ci siamo fumati altri 300 miliardi, in euro questa volta.
Della Loggia ricorda il caso del deputato socialista Sergio Moroni che, coinvolto nelle inchieste di Mani Pulite, si uccise. Quel suicidio lo riscatta moralmente, ma non lo assolve. E' accertato che prese 200 milioni in contanti nascosti nella solita 'cartellina tipo ufficio'.
Nessuno ricorda invece le 'morti bianche' di Tangentopoli, cioè di quegli imprenditori che, vittime di un'educazione ottocentesca, non ci stavano a corrompere e a corrompersi. Io ne ho conosciuti due. Fallirono. E si uccisero, se ne andarono in silenzio senza spedire lettere a Napolitano e avere il conforto delle lacrime postume del professor Ernesto Galli della Loggia.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 20 dicembre 2014
Quando si parla di Talebani si fa una certa e voluta confusione fra talebani afgani e quelli pakistani. Sono due movimenti diversi, che operano in realtà radicalmente diverse, che hanno mentalità diverse. I talebani afgani, guidati dal Mullah Omar, dopo l'invasione americana-Nato del 2001, si battono contro l'occupazione dello straniero in una guerra che dura da 13 anni. In Pakistan non c'è un'occupazione straniera, ma una guerra civile fra gruppi integralisti e il governo di Nawaz Sharif. Diversa è anche la mentalità. Gli afgani, talebani o no, non sono mai stati terroristi. Sono stati costretti a diventarlo, e solo all'interno del proprio Paese, dopo l'occupazione americana. Nel 2006 i comandanti militari talebani chiesero un incontro al Mullah Omar e gli dissero: «Noi non possiamo continuare a combattere con le abituali tecniche di guerriglia, perché di fronte abbiamo un nemico invisibile e irraggiungibile: gli americani usano solo l'aviazione e i droni». Chiesero quindi l'autorizzazione a utilizzare anche metodi terroristi. Omar, in linea di principio, era contrario. Perché l'attentato terrorista, per quanto mirato, provoca inevitabilmente vittime fra i civili e di tutto hanno bisogno i talebani afgani tranne che di alienarsi le simpatie della popolazione sul cui sostegno si basa la loro lotta di resistenza all'occupante straniero. Comunque alla fine, di fronte all'evidenza, dovette cedere alle richieste dei suoi comandanti e autorizzò il terrorismo ma solo contro obbiettivi militari e politici. E così è stato, in Afghanistan. Attacchi come quello perpetrato tre giorni fa dai talebani pakistani di Tehrik-i-Taliban Pakistan che ha ucciso ragazzini e bambini, sia pur di una scuola militare e figli di militari, non si sono mai visti in Afghanistan. Il portavoce del Mullah Omar, Zabihullah Mujahid, ha condannato senza mezzi termini questo eccidio: «L'Emirato islamico d'Afghanistan è scioccato da quanto è avvenuto e condivide il dolore delle famiglie dei bambini uccisi nell'attacco». Dichiarazione opportunamente occultata, che io sappia, da tutta la stampa dell'Occidente (con l'eccezione virtuosa di RaiTre) che ha interesse a fare di tutta l'erba un fascio per nascondere la guerra infame che sta conducendo in Afghanistan dove le vittime civili per i bombardamenti Nato, fra cui moltissimi bambini, si contano a centinaia di migliaia.
Tuttavia un legame fra quanto accade oggi in Pakistan e il movimento di liberazione talebano in Afghanistan c'è. Il 5 maggio del 2009 gli americani, convinti che i leader talebani si nascondessero nelle zone montuose a cavallo fra Afghanistan e Pakistan convinsero, o piuttosto costrinsero, il corrottissimo presidente del Pakistan Asif Ali Zardari, a lanciare un'offensiva devastante contro la valle di Swat, pakistana. I profughi furono due milioni. I morti non calcolati e incalcolabili (I giornali occidentali titolarono «Due milioni in fuga dai Talebani» mentre invece fuggivano dalla violenza dell'esercito pakistano). Di recente lo stesso copione si è ripetuto, anche se i profughi questa volta sono stati 'solo' un milione. Posto che è assolutamente turpe colpire dei bambini, si può capire, anche se in alcun modo giustificare, quanto ha detto il portavoce di Tehrik-i-Taliban Pakistan, Omar Khorasan: «E' la nostra risposta alle vostre aggressioni che ammazzano i nostri figli, le nostre donne, distruggono le nostre case. Adesso anche voi proverete un poco del nostro dolore».
Oggi tutte le 'anime belle occidentali' si sdegnano per i bambini assassinati a Peshawar. Avrebbero un minimo di credibilità se si fossero sdegnati almeno una volta, una sola, per le migliaia di bambini assassinati, per mano nostra, in Afghanistan o per quelli uccisi, su nostro ordine, dall'esercito pakistano in Waziristan. E a questo proposito voglio ricordare che durante la seconda guerra mondiale gli americani buttarono su Berlino, Dresda, Lipsia delle 'bombe giocattolo', in realtà delle mine su cui i bambini tedeschi, curiosi, si avvicinavano saltando per aria. La cultura superiore.
Massimo Fini
Il Gazzettino, 19 dicembre 2014