0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

Tutto poteva finire prima di cominciare. Il 9 novembre del 1988 si giocava a Belgrado la partita di ritorno del primo turno di Coppa dei Campioni (allora si chiamava ancora così) fra Stella Rossa e Milan. La squadra rossonera aveva vinto il suo primo campionato gestione Berlusconi ma per avviare un ciclo veramente significativo aveva assoluto bisogno di vincere la Coppa o quantomeno arrivare in finale.

Per questo la società aveva allestito una squadra stellare con i tre olandesi Gullit, Van Basten, Rijkaard. Per la verità in questa operazione era stata un tantino fortunata. Berlusconi, che si era innamorato di Gullit, lo aveva voluto a tutti i costi pagandolo dieci miliardi, però aveva dovuto prendere anche Van Basten per un miliardo e mezzo, l’Ajax glielo aveva praticamente tirato dietro. Ma l’autentico campione, come il tempo dimostrerà, non era «treccina d’oro» ma proprio Van Basten, pur se il nuovo allenatore del Milan, Arrigo Sacchi, non lo vedeva di buon occhio perché poco inquadrabile nei suoi ferrei schemi. Da quella Coppa dei Campioni, però, il Milan stava per esser sbattuto fuori.

Nella partita di andata, a San Siro, lo squadrone rossonero aveva infatti sottovalutato gli slavi, non potendo sapere che nella Stella Rossa c’erano due giovanissimi, poco più che ventenni, il capitano Dragan Stojkovic e Dejan Savicevic, che erano destinati a diventare degli astri del calcio mondiale. Così aveva impattato a fatica 1-1 (gol di Stojkovic, replica, due minuti dopo, di Virdis). E ora a Belgrado, al 57°, era sotto di un gol, segnato da Savicevic al 50°, e con un uomo in meno perché quattro minuti dopo era stato espulso Virdis. Partita chiusa, Milan fuori dalla Coppa. Ma, improvvisamente, sul campo calò un nebbione fittissimo e l’arbitro dovette prima sospendere poi annullare la partita. Che fu rigiocata il giorno dopo. Gli uomini della Stella Rossa, ovviamente, erano psicologicamente stanchi, i milanisti, al contrario, euforici per lo scampato pericolo. Nonostante questo gli slavi, fortissimi (avrebbero formato l’ossatura di una grande e sfortunata Jugoslavia, penalizzata dalla guerra nei Balcani e dalle sanzioni), riuscirono a pareggiare (gol di Van Basten, replica di Stojkovic). Ma ai rigori vennero battuti.

La nebbia a Belgrado c’è una volta ogni dieci anni: se quel giorno non fosse calata, eccezionalmente, su un campo di calcio, probabilmente non ci sarebbe mai stato il trionfale ciclo del Milan e diversa sarebbe stata la storia recente non solo del calcio italiano ma anche una parte della storia del nostro Paese.

Berlusconi infatti ha strumentalizzato fin dall’inizio una passione collettiva, come il calcio, e il Milan, in funzione delle proprie fortune aziendali, economiche e, in seguito, politiche.

Dopo i primi successi Berlusconi disse: «Il Milan vince perché adotta la filosofia della Fininvest». Era un cambiamento di prospettiva radicale. Gli Agnelli ci avevano sempre tenuto a marcare le distanze fra Juventus e Fiat, per questioni di opportunità sociale e, credo, di buon gusto. Berlusconi imboccò la strada opposta. La vittoria del Milan doveva servire come ricaduta d’immagine sulla sua azienda, oltre che su di lui personalmente. Per anni, gli anni dei grandi successi, il Milan non è stato più una squadra di calcio di Milano, ma il settore pubblicitario trainante della Fininvest. Se lo cercavate sulla guida del telefono trovavate: vedi voce Fininvest.

Naturalmente in quest’ottica vincere diventa una necessità assoluta, perché di mezzo non ci sono più semplicemente le sorti di una squadra, ma quelle di un’azienda e, soprattutto, del suo padrone. Tanto più se questi vuol dare di sé l’immagine del vincente e dell’onnipotente. Vincere dunque a tutti i costi e con tutti i mezzi, violando ogni codice di sportività, usando il denaro a piene mani e potendolo fare, in quanto non si tratta di rispettare i bilanci di una società di calcio ma di un investimento pubblicitario molto remunerativo. Berlusconi acquistò Savicevic, che allora era uno dei primi tre giocatori del mondo, pur sapendo benissimo di non poterlo utilizzare perché aveva già tre olandesi, solo per sottrarlo alle altre squadre. Lo tenne per quasi due anni a palleggiare nel suo parco di Arcore, semirovinandolo. Prese, per una barca di quattrini, il nazionale De Napoli che in due stagioni giocò in tutto sette minuti. Idem, o quasi, per il nazionale Eranio. Arrivò ad avere nove stranieri (Van Basten, Rijkaard, Gullit, Savicevic, Boban, Desailly, Papin, Laudrup, Raducioiu, Elber) quando ancora se ne potevano schierare solo tre.

La sua logica era «compro-tutto-io-e-vinco-tutto-io». Nessun presidente di una squadra di calcio, per quanto strapotente, si era mai comportato con tanta palese arroganza. Gli Agnelli avevano certo fatto valere il loro peso, per così dire, apolitico, ma Giampiero Boniperti, il presidente, si era sempre attenuto a una gestione economica rigorosa, per non dire sparagna.

Il caso forse più clamoroso, anche per il suo valore emblematico, fu quello di Gigi Lentini. Lentini era l’astro nascente del Torino, il gioiello del suo grande vivaio. Berlusconi fece al giocatore e alla società granata un’offerta enorme: 22 miliardi. Lo voleva perché era il miglior giovane talento in circolazione e per togliere definitivamente di mezzo il Torino, che quell’anno era arrivato terzo. Per quattro mesi il Cavaliere aveva fatto una corte spietata a Lentini aumentando progressivamente la posta. Ma il giocatore aveva sempre detto di no. Una scelta singolare e coraggiosa che Lentini aveva motivato dicendo pubblicamente che il denaro non è tutto e che per lui contavano anche altri valori: la qualità della vita, migliore in una squadra che non aveva le ambizioni parossistiche del Milan, l’amicizia con i compagni, l’attaccamento a una maglia gloriosa e sfortunata e a una società in cui era entrato un bambino. E questo il Cavaliere non lo poteva proprio sopportare. Portò l’offerta alla sbalorditiva cifra complessiva di 64 miliardi e il giocatore, figlio di un operaio delle Banchigliette, cedette.

Berlusconi non aveva fatto un acquisto, ma uno stupro. Non aveva comprato le gambe di Lentini, che non valevano 64 miliardi, né 30, né 20, ma la sua anima, dimostrando al ragazzo che i suoi ingenui sentimenti nulla valevano e potevano contro il denaro, che tutto e tutti hanno un prezzo, che esiste un solo, vero valore: il Quattrino.

E questo era anche il messaggio che lui mandava al vasto mondo giovanile che ruota intorno al calcio. La prepotenza, come ogni violenza, non portò fortuna né a Lentini, che si rovinò quasi subito con uno stupido incidente d’auto che denotava che il ragazzo, nel nuovo ambiente, non era tranquillo, né al Milan dove non giocò quasi mai. Fu uno dei tipici atti «a distruggere» del Cavaliere, come quello che perpetrò con l’Indipendente. Era un giornale giovane, in ascesa, libero e felice. Sua Emittenza ne comprò il direttore, Vittorio Feltri, e metà della redazione. L’Indipendente è morto (come la marchesa che, nella canzone di De Andrè, il re sottrae, con la forza e le lusinghe del potere, allo sposo e la regina uccide mandandole dei fiori avvelenati) e Feltri arranca cercando di fare un simil Indipendente chiamato Libero.

Berlusconi cercò di usare la stessa tattica del «compro tutto» anche nell’hockey, in cui era entrato alla fine degli anni Ottanta con una squadra cui diede il nome di Milan. Alla fine del campionato 91/92 comprò infatti i sei migliori giocatori, praticamente tutti, della migliore squadra in circolazione, la rivale cittadina dell’Hockey Milano. Per capirci: è come se uno avesse comprato tutti i giocatori dell’Inter e li avesse chiamati Milan. Ma poiché l’hockey non è il calcio, e i valori ideali vi contano ancora qualcosa, anzi molto, gli andò storta. Per un’intera stagione si assistette allo straordinario spettacolo di una città intera, Milano, che faceva il tifo contro la propria squadra, il Milan appunto, sia che incontrasse gli eterni rivali del Bolzano sia che giocasse con una compagine straniera.

Berlusconi dovette mollare la presa, lasciando peraltro dietro di sé un settore devastato dalla sua intrusione. E lo stesso, più o meno, è avvenuto nella pallavolo e nel baseball.

Ma il peggio l’ha raggiunto, forse, nel rugby. Vi entrò agli inizi degli anni Novanta e si prese l’Amatori Milano, storica e prestigiosa società della palla ovale. Comprò e strapagò i migliori giocatori nazionali e li fece venire a Milano supportando anche le spese di affitti sontuosi (il rugby è ancora uno sport largamente amatoriale – si veda il bel film Asini di Antonello Grimaldi, sceneggiatore il talentuoso Giorgio Terruzzi – e, in genere, si gioca per la squadra della propria città, per motivi economici oltre che ideali). Naturalmente per due o tre anni l’Amatori–Mediolanum vinse tutto ciò che c’era da vincere sbaragliando il campo. Strozzò però completamente il proprio vivaio perché era impossibile per i giovani entra-re in prima squadra. A un certo punto Berlusconi, ricavato il guadagno di immagine che si era proposto, si stufò e chiuse i cordoni della borsa. L’Amatori, che era gonfiato come la rana della favola, scoppiò e dopo poco dovette fondersi col Calvisano, una società bresciana, scomparendo dalla scena del rugby italiano. Ma anche altre società, come l’A.S. Rugby Milano, che almeno in qualche misura avevano dovuto adeguarsi al folle trend di Berlusconi per tentare di competere, sono entrate in crisi. Risultato: il settore è completamente devastato. Ma oggi il Cavaliere, come ha dichiarato alla recente convention dello sport degli Azzurri, si lamenta perché nello sport sono entrati troppi quattrini.

Naturalmente una pressione psicologica come quella che esercita Berlusconi ha inevitabili ripercussioni sul comportamento e l’atteggiamento della squadra e dei giocatori rossoneri che dimostrano la stessa incapacità patologica ad accettare la sconfitta che è propria, in tutti i campi, del loro padrone. Nella primavera del 1992 si giocava a Bergamo Atalanta-Milan di Coppa Italia. Massaro cadde in area atalantina e restò a terra. Stromberg, correttamente, calciò la palla in fallo laterale per permettere al milanista di essere assistito. Essendo svedese la buttò fuori dove si trovava, all’altezza dell'area di rigore, mai pensando che gli avversari non la restituissero. Invece un giocatore del Milan, mi pare l’ottimo Maldini, la passò a Massaro, Borgonovo cadde e fu rigore. Tra lo stupore degli spettatori, Baresi trasformò. E si trattava solo di Coppa Italia, ma quell’anno il loro megalomane presidente, scambiando il calcio per il tennis, voleva fare il grande slam, vincere Coppa dei Campioni, campionato, Supercoppa, Coppa Intercontinentale e Coppa Italia, tutto.

Se avesse centrato questo obbiettivo, che invece poi mancò, il Cavaliere avrebbe semplicemente dimostrato di non saper vincere, qualità che è anche più difficile del saper perdere. La prima regola infatti del saper vincere è quella di non voler stravincere, di aver la generosità, il buon gusto o, quantomeno, l’accortezza di lasciare agli altri almeno le briciole (da che mondo è mondo la Coppa Italia, se non si è alle stret-te, la si lascia alle provinciali). Ma questo è estraneo alla mentalità del Cavaliere, che vuol vincere tutto giocando se possibile da solo. Era da poco «sceso in campo» che dichiarò: «Non capisco perché a San Siro debbono entrare anche i tifosi delle altre squadre togliendo i posto ai nostri. San Siro deve diventare solo rossonero» (Gazzetta dello Sport, 10 ottobre 1988).

Solo uno come Berlusconi può divertirsi in uno stadio dove c’è solo gente come lui, perché il Cavaliere non concepisce «l’altro da sé». Contrariamente a ciò che dice, a tutte le palle sulla concorrenza e il libero mercato, che strangola con i suoi monopoli, non ama affatto la competizione ma vorrebbe un mondo ecumenico, il suo, dove gli avversari sono di pura parata ed esistono solo per dar lustro alle sue vittorie (se fanno sul serio «remano contro»). Più o meno lo stesso discorso vale per il ritornello ossessivo del Cavaliere: «quel che conta è la squadra». Il che è vero, a patto che la squadra giochi solo per lui. Se si vince, bene, lui è il demiurgo, se si perde allora è pronto a fare a pezzi la squadra, buttando ogni responsabilità sui suoi ufficiali, e rivestendo prontamente, con la velocità di Fregoli, i panni del salvatore della patria milanista. Come è avvenuto anche nel recente episodio del licenziamento di Zaccheroni.

Nella stessa stagione del fattaccio Stromberg-Massaro il Milan, qualche mese dopo, si giocava il campionato a Verona, campo spesso fatale ai colori rossoneri (5-3 all’ultima partita, e campionato perso per il Milan, più simpatico, dei Rivera e degli Schnellinger). A pochi minuti dalla fine il Verona andò in vantaggio, 2-1, e lo scudetto rossonero in fumo, altro che grande slam. Allora si vide un uomo solitamente freddo come Van Basten togliersi la maglia e buttarla istericamente per terra condannandosi all’inevitabile espulsione, ragazzi solitamente sereni come Rijkaard e Tassotti perdere letteralmente la testa. A Bergamo il gol del Verona fu accolto con un boato di gioia nonostante volesse dire che lo scudetto andava al Napoli che – si era già in epoca leghista – non poteva certo essere molto simpatico da quelle parti. Ma Berlusconi, col suo atteggiamento, si attira gli odii più profondi. Nella tranquilla Ascoli Piceno gli tirarono le monetine: è un caso unico nella storia del calcio italiano perché, di solito, le monetine si tirano ai presidenti della propria squadra.

Ma l’episodio più significativo avvenne a Marsiglia, il 20 marzo 1991. Si giocava una semifinale di Coppa dei Campioni, che il Milan aveva vinto per due anni a fila, e a cinque minuti dalla fine l’Olimpique stava vincendo 1 a 0 con un gol di Waddle, il che voleva dire per la squadra rossonera l’uscita dalla competizione.

La società, sperando di ripetere il colpo di Belgrado di quattro anni prima, prese a pretesto il black out di uno dei quattro riflettori dello stadio per cercare di invalidare la partita.

Si videro scene penose: celebrati campioni come Baresi e Gullit che, incitati da Galliani, cioè da Berlusconi, indicavano all’arbitro, con ampi e sconsolati gesti, il riflettore spento scuotendo la testa, mentre sul campo si potevano vedere persino le monetine che vi stavano buttando gli inferociti tifosi del Marsiglia. Ma Baresi e Gullit continuavano a vagare per il campo a tentoni, ciechi come Edipo dopo l’incesto. L’arbitro fece cenno che la smettessero con quella manfrina, allora la società rossonera ritirò la squadra esponendosi alla più squallida figura che si sia mai vista non solo su un campo europeo ma di campionato interregionale. Si può aver vinto anche cento scudetti ma l’episodio di Marsiglia è di una vergogna tale, per la mentalità antisportiva e sleale che denuncia, da cancellarli tutti.

Non è naturalmente, che i giocatori del Milan siano in sé più sleali degli altri. È che il peso che grava su di loro non è semplicemente quello di una partita di calcio o della vittoria in una competizione, e nemmeno quello dei consueti interessi economici che vi gravitano attorno, è il peso degli interessi ben più colossali della Fininvest, ora Mediaset, e della necessità di cor-rispondere all’immagine vincente che il loro padrone ha e dà di sé.

Il bello è che Berlusconi, da me intervistato ad Arcore nel giugno del 1989, dopo il trionfo nella finale di Coppa dei Campioni sullo Steaua (4-0), mi aveva detto «Non è un’altra, è la vittoria di un sistema di valori in cui io personalmente credo e in cui credono anche le persone che sono felici di lavorare con me». E fra questi valori aveva messo «la lealtà dei comportamenti» (Europeo, giugno 1989). In realtà la lealtà che intende Berlusconi non è quella verso gli avversari ma quella verso di lui e si mischia con altri valori, come la fedeltà e la solidarietà, che, se interpretati in un certo modo, possono facilmente stingere nell’omertoso e nel mafioso.

Una delle parole più usate da Berlusconi è «tradimento» (traditorefu Bossi, traditore fu Scalfaro, traditore fu Dini, traditore è stato Freccero perché, pur avendo lavorato nel gruppo Fininvest, si è permesso di mandare in onda, senza censurarla, la trasmissione di Luttazzi). È il concetto del clan: se sei ligio ne fai parte, se non lo sei diventi un traditore. E per apparttenere al clan bisogna adeguarsi anche nelle passioni più personali e private. Fra le quali, in primo piano, c’è il tifo per il Milan. Nell’entourage di Berlusconi anche se ci si occupa di tutt’altra cosa che il calcio non parteggiare per il Milan è rischioso. Dopo quell’intervista ad Arcore il Cavaliere mi offrì, gentilmente, di farmi riportare a casa con una sua macchina. Sulla strada cominciai a chiacchierare col giovane autista, un ragazzo piuttosto simpatico. Incoraggiato, gli chiesi a che squadra tenesse. «Guardi» mi rispose «io tengo all’Inter, ma faccio finta di tenere al Milan. Tutta la servitù si comporta così».

Quando lasciò l’Indipendente, Feltri mi chiese di seguirlo al Giornale. Dissi di no. Dopo qualche mese Vittorio tornò alla carica. L’Indipendente andava male, si capiva benissimo che senza Feltri avrebbe chiuso da lì a poco. Mi feci tentare. Andai al Giornale e con Vittorio fissammo i termini della mia collaborazione. Poi scesi dall’amministratore, Crespi. Si trattava solo di formalizzare ciò che il direttore aveva deciso, ma Crespi, usando un linguaggio militare, cominciò un fluviale comizio sulle strategie editoriali della Fininvest, che mi annoiò moltissimo perché di queste cose non capisco nulla. Dopo una mezz’oretta di monologo cercai di deviare laconversazione chiedendogli per che squadra tenesse. «Tenevo alla Juventus», rispose, «ma siccome mi piace il bel gioco ora tengo al Milan. Risalii da Vittorio e gli dissi: «Non vengo più».

Quando, giovane convittore, Berlusconi giocava sul campetto dei salesiani di via Copernico a Milano, da centravanti, inguardabile (ho avuto il privilegio di vederlo perché ci andavo a giocare anch’io, che abitavo a due passi), era bollato come «un Venezia», uno che non passa mai la palla. È un bambino goloso, narcisone e bulimico che, in qualsiasi settore, vuole appropriarsi in esclusiva dei giochi che sono di tutti. È un «faso tuto mi». Non contento di essere già tutto, si impancò commissario tecnico della Nazionale dando del «dilettante» a Dino Zoff che, secondo lui, non aveva fatto marcare bene Zidane e ci aveva fatto perdere gli Europei. Zoff è uno che pratica il calcio giocato, e non solo comprato e venduto, da quarant’anni, ma Berlusconi, com’è noto, ha un grande sprezzo del ridicolo. Approdato al Milan si avvide aggirandosi per la cucina che i giocatori erano di appetito gagliardo, gli piacevano i dolci e al capitano, Baresi, soprattutto le crostate. Abolì dolci e crostate e li mise a dieta. Si accorse anche che la vita del giocatore di calcio era felice e spensierata perché si allenava sette ore alla settimana e per il resto andava a zonzo. E questo era intollerabile. Fece aumentare i carichi di lavoro, ingaggiò uno psicologo oltre che il dietologo e insieme a Sacchi, l’invasato, creò il calciatore-robot uso a «obbedir tacendo». Ma spadroneggiare a casa sua, nel Milan, non gli bastava. Era appena approdato nel mondo del calcio che mitragliò una serie di proposte «innovative» in cui frullava il suo elementare americanismo con i propri interessi di imprenditore televisivo: «Vedrei con favore l’introduzione del conteggio del tempo effettivo di gioco e il sistema dei cambi continui durante la partita, come nel basket, utilizzando così regole già collaudate con successo in altri sport. Dall’hockey su ghiaccio si potrebbe copiare l’espulsione a tempo» (Gazzetta dello Sport, 9/9/1988). Propose anche la divisione delle partite in quattro tempi, anziché in due, in modo da dare maggior spazio agli spot pubblicitari in quelle teletrasmesse, i cinque stranieri, gli arbitri professionisti. Ma il suo pallino era soprattutto il Supercampionato europeo riservato ai grandi club: «Le coppe europee le vedrei meglio come campionati. Ne deriverebbero più incontri, più pubblico, più giornali, più televisione, più incassi, più certezze per le società». I «parrucconi dell’Uefa» gli risero in faccia. Del resto alcune proposte erano da «dilettante allo sbaraglio»: sono «tempi morti» quelli prima di un calcio d’angolo e di una punizione quando i giocatori si danno battaglia per prendere posizione in area? Respinto, per il momento, Berlusconi sfogò la sua ansia di razionalizzazione economica con una politica a tappeto degli abbonamenti che raggiunsero, grazie al bombardamento di spot delle sue televisioni, il tetto di 65 mila. Finanziariamente un ottimo affare, denaro fresco che entra nelle casse in anticipo, solo che ha completamente cambiato la sociologia del tifoso. Oggi allo stadio ci vanno solo i fanatici, quelli che, respinti dalle tribune e anche dai popolari, occupati dagli abbonati, son costretti nella Caienna dietro le porte e i benestanti che per 17 domeniche pensano di non aver niente di meglio da fare che andare alla partita.

Il tifoso normale, quello che, qui a Milano, la domenica mattina guardava il cielo e decideva lì per lì se andare alla partita (a meno che non si trattasse di una «classica» per cui bisognava pensarci qualche giorno prima) è stato pian piano espulso. Del resto adesso i biglietti, se mai ne esistono ancora, non si acquistano più al Bar Sport ma al Milan point o in banca. Robb de matt, diciamo a Milano.

E i derby diventarono penosi,quando ospitava il Milan: niente contrapposizione di bandiere, di colori, di tifoserie, che è il loro fascino, ma 70 mila milanisti contro 3 mila interisti quasi fossero tifosi dell’Ascoli. Alla fine però il trend berlusconiano ha prevalso su tutta la linea. Il campionato europeo non si è ancora fatto ufficialmente, ma lo si è introdotto surrettiziamente con la vecchia e cara Coppa dei Campioni trasformata in Champions League aperta alle prime quattro squadre dei campionati più importanti e a quelle sbattute fuori dalla Coppa Uefa e organizzata in gironi. Sua Emittenza lo aveva detto in un’intervista al suo Giornale nell’estate del 1988: «I grandi club come il Milan e il Real Madrid non possono correre il rischio di essere eliminati al primo turno. È un casinò, una roulette, non una competizione internazionale». Peccato che il fascino della Coppa dei Campioni stesse proprio nell’eliminazione diretta e nel brivido che anche dei ragazzotti finlandesi, eroi per caso e per un giorno, potessero sbattere fuori squadre titolate. Ma naturalmente i gironi vogliono dire più partite (anche se molte, specie le ultime, sono spesso insignificanti), più riprese televisive, più diritti, più sponsor, eccetera eccetera. Eppoi ci sono le partite spalmate su tutta la settimana di giorno e di notte, sempre pro tv, con la fine della sacralità della domenica e della regolarità delle competizioni, match criptati per i benestanti, tourbillon dei giocatori, non solo da una stagione all’altra ma durante lo stesso campionato, sempre meno tifosi allo stadio (30 per cento in meno negli ultimi dieci anni) e calcio sempre più ridotto a spettacolino televisivo da assumersi solipsisticamente come una qualsiasi Domenica In. Fine insomma della grande festa nazionalpopolare che aveva fin qui avuto la caratteristica, di inestimabile valore sociale, di attraversare tutti i ceti e di mischiarli, per un giorno, allo stadio. Il fascino inimitabile del calcio sta nei contenuti rituali, mitici, simbolici e nel processo di identificazione, in una maglia, in una squadra, in venti giocatori.

Silvio Berlusconi è stato il più grande picconatore del castello fatato del calcio: lo ha ridotto a una pura partita economica. E quando gli appassionati si accorgeranno, se già non l’hanno fatto, che non vanno allo stadio a tifare Milan, Juve, Parma e Lazio, ma Fininvest, Fiat, Parmalat e la Cragnotti spa sarà finita.

Berlusconi è un costruttore. E come tutti i veri costruttori è un distruttore. La cosa gli riesce facile perché alle spalle non ha né ideologie, né storia, né tradizioni, né radicamenti. Basta vedere i suoi studi televisivi, a Cologno Monzese e a Milano 2: posti anonimi, che potrebbero essere lì come dappertutto. Berlusconi non sta da nessuna parte, è nell’etere. E, prototipo assoluto dell’ultima fase di una modernità immemore, si realizza nel puro fare. Quindi distrugge per costruire. Il guaio è che tutto ciò che ha costruito è peggiore di quello che ha distrutto. Così è stato nell’edilizia, nella televisione, nel calcio.

Il calcio, nato in Europa e non in America, prima di essere spettacolo, prima di essere gioco, prima, addirittura, di esser sport è un rito. È la trasposizione moderna dei Giochi Olimpici, Delfici, Pitici. Ora è diventato solo un importante segmento dello show business.

Perché a queste commistioni mortali si aggiungesse l’ultima definitiva, quella con la politica, bisognerà aspettare ancora Silvio Berlusconi. La linea era già tracciata dall’inizio con la simbologia della «discesa in campo» di «Forza Italia», degli «Azzurri». Ma fu in una demenziale trasmissione di Milano Italia, subito dopo il difficile ma trionfale passaggio del governo Berlusconi al Senato e la travolgente vittoria del Milan ad Atene nella finale di Coppa, che in mezzo a un pubblico da stadio, che urlava, fischiava e zittiva i pochi dissidenti, si consumò la definitiva identificazione fra presidente del Milan e presidente del Consiglio, fra la squadra rossonera e quella di governo, e, insomma, fra Italia e Milan. Berlusconi lo disse: «Voglio fare l’Italia come il Milan».E poche ore prima, nel discorso di investitura al Senato, aveva salutato «i ragazzi del Milan che scende in campo per difendere i suoi colori, quelli di Milano, ma anche quelli dell’Italia».

E questo melange ci ha seguito fino a oggi. Anche nel caso Zaccheroni non si è capito se si è trattato di un licenziamento sportivo o aziendale o politico, se l’allenatore è stato mandato via perché la squadra andava male o perché andavano male i sondaggi, se era una questione tecnica o una mano-vra elettorale. Peraltro il vizietto volgare di mischiare calcio e politica Berlusconi lo aveva anche quando era solo un imprenditore.

Nel maggio del 1989, dopo il successo a Barcellona sullo Steaua di Bucarest in uno stadio dove a fronte di 70 mila milanisti c’erano 200 sfigati rumeni, Berlusconi disse che era «una vittoria dei valori dell’Occidente sul “socialismo reale”».

Il calcio, come ogni gioco, come il prato e la terra battuta dell’ippodromo e il tavolo verde del casinò e del poker, è un «cerchio magico» e un tempo sospeso in cui uno entra per lasciarsi alle spalle e dimenticare, per qualche ora, gli affanni della vita quotidiana. Se deve ritrovarvi la politica e l’economia, la razionalizzazione, Mediaset, la Fiat, la Parmalat, la Borsa, Berlusconi, Fini e Rutelli, il comunismo, Marx e von Mises, prima o poi ne farà a meno.

Nell’estate del 1986, dopo che Berlusconi il 17 luglio aveva presentato la squadra all’Arena, con giocatori elitrasportati, donnine Fininvest, soubrettine, majorette, comici di quart’ordine, clown, scrissi per l’Europeo, in un’epoca non sospetta quando non ci poteva essere alcun «accanimento politico» né «cultura dell’invidia», come al Cavaliere, con la consueta eleganza, piace rinfacciare a chi gli muove qualche critica, un articolo che cominciava così: «O il calcio distruggerà Berlusconi o Berlusconi distruggerà il calcio». Sono stato facile profeta.

Diario, 30 marzo 2001.

Ripreso il 3 maggio 2015 dal Fatto Quotidiano

0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

Perché Fini mi piace così tanto? Interrogativo al quale ho sempre dato la risposta più ovvia – e qui, forse, sta il tributo più importante al Fini giornalista -: per quello che scrive. Per la sua capacità di non essere mai banale, frutto anche della scelta di raccontare storie, più che perdersi nella politica politicante. E per quell'anticonformismo che lo ha reso l'unico vero intellettuale tra i giornalisti italiani. E la lettura di Una vita ci consegna un Massimo Fini in grandissima forma, forte di tutto il suo antimodernismo -straordinarie le pagine nelle quali canta la nostalgia per la Milano della sua giovinezza – e della vis polemica che per decenni -per quanto fosse detestato tanto dalla sinistra, quanto dalla destra, altro grande merito – lo ha portato sulle prime pagine dei più importanti giornali italiani.

La storia di Massimo Fini è quindi anche uno straordinario spaccato del mondo dei media italiani: dire che i più grandi nomi del giornalismo italiano non ne escano benissimo – per quanto Fini non usi mai toni meno che rispettosi – è puro eufemismo. L'antimodernismo di Fini finisce per generare anche il nostro. L'impressione, infatti, è che il giornalismo italiano nel quale Massimo Fini ha comunque potuto vivere la sua straordinaria carriera, non esista più. Intellettuali del suo livello, nel mondo delle notizie twitta e fuggi, forse non ce ne sono più. Ma sono venute meno anche le condizioni perché questi possano esprimersi come è stato possibile a Fini.

Maurizio Di Giangiacomo

Alto Adige, 20 aprile 2015

0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

«Ho vissuto un'esistenza mediocre in una società mediocre», scrive il settantunenne Massimo Fini. Ma in verità questa biografia trasuda una vita tutt'altro che banale: da cui emergono, con ogni evidenza, i tre volti dell'autore.

Innanzitutto, il giornalista. Titolare nel 1985-95 di una seguitissima rubrica sull'«Europeo», Fini non si è mai identificato con quella o altre testate, cambiandole a iosa, dall'«Indipendente» di Feltri al «Fatto Quotidiano». Come mai questa lunga infedeltà? Forse perché egli rappresenta un unicum, come aveva intuito Montanelli. La sua penna, infatti, non è assimilabile né al soporifero «cerchiobottismo», e neppure al modello del «libero servo», brillantemente incarnato da Giuliano Ferrara. Ma Fini non è nemmeno un giornalista «anglosassone», restando un osservatore impressionista, a suo modo sempre partecipe. Forse è, semplicemente, un uomo solo, non di destra né di sinistra, in grado di lanciare stilettate a tutto campo.

Lo confermano, qui, i suoi affreschi senza perifrasi: i reduci sessantottini, consumati dal tarlo del carrierismo compulsivo; gli intellettuali antifascisti, i più conformisti di tutti; i piccoli e grandi nomi della carta stampata (incluso il suo amico Giorgio Bocca, immortalato in un ritratto tanto affettuoso quanto spietato); Don Giussani («su Dio brancolava nel buio quanto me»); il cupio dissolvi affaristico del glorioso Psi: un partito verso il quale Fini ha sempre mostrato un occhio sensibilissimo, forse perché esordì nel '70 proprio come cronista dell'«Avanti», quando era ancora un quotidiano perbene. Ma Fini non ha soltanto previsto, con largo anticipo, Tangentopoli e la furia popolare nel '92 contro la casta partitocratica. Ha vaticinato pure l'avvento del berlusconismo, come testimonia una sua straordinaria inchiesta uscita nel lontano '83 su Milano Due, cittadella dorata che inglobava in nuce tutti gli ingredienti della «nuova» Repubblica sorta nel '94.

Il secondo volto assunto da Fini è quello del «pensatore» antimoderno. Dal suo vecchio classico del 1985, La Ragione aveva Torto (un libro di culto, tutt'altro che campato in aria per essere stato scritto da uno storico dilettante), sino ai più recenti titoli sul «vizio oscuro dell'Occidente» prigioniero del proprio ombelico, passando per il Manuale contro la donna a favore della femmina e per un pugno di biografie «irregolari» (Nerone, Catilina, Nietzsche e Il Mullah Omar), il nostro autore è stato in grado di elaborare una «visione del mondo» d'indubbia originalità. Non occorre abbracciarla in toto per riconoscerne il sapore «against the current» (come Isaiah Berlin etichettava i pensatori illuministi, di cui ammirava la paradossale lungimiranza). Ad esempio, non solo quando smaschera il flop colossale delle guerre «preventive» e «umanitarie», ma anche quando rievoca la sua odissea sanitaria, affetto da glaucoma, tra medici gelidi e scostanti. Quest'incapacità della medicina tecnologica di parlare al paziente spiega moltissimo il successo, ahimè, dei «santi guaritori» alla Di Bella e Vannoni.

Attenzione, però: il sentimnto del tempo di Fini riflette una nostalgia senza rimpianto. Detesta, a parole, la civiltà industriale, e tuttavia non idealizza l'ancien régime, «un mondo fatto di durezze, di sofferenze, di diseguaglianze, di fatiche spesso bestiali». Semplicemente, rigetta la retorica del progresso e la filosofia del «meglio che deve ancora arrivare». Ma, a differenza di un de Maistre, Fini disconosce ogni Tradizione, incluse le proprie radici ebraiche. Figlio di un'istraelista russa scampata alla Shoah, da lui tratteggiata come un'aguzzina vuota di amore filiale, l'anti-monoteista Fini resta troppo anarchico per accettare gli obblighi di una «identità» vissuta al pari di una gabbia.

Per ultimo, due parole sul volto più carnale e borderline di Fini, quello di un Charles Bukowski dei nostri giorni, fra sesso, alcol (la sua droga) e tavoli da poker. Qui, per la prima volta, il «perdente di successo» si mostra in tutta la sua fragilità autodistruttiva, non tacendo neppure i giovanili abboccamenti omosessuali, in una Milano senz'altro più popolare e calorosa di quella odierna. Sono pagine di rara bellezza e intensità, degne di un grande scrittore.

Resta un dubbio: Fini ha amato molte donne, gratificato e violato il proprio corpo, sofferto (al pari di Montanelli) il «male oscuro» della depressione, rinunciato a una vera famiglia (pur figliando), assaporato il piacere libertino della solitudine, disdegnato ogni legame comunitario e scarnificato l'arroganza del potere. Con un pedigree tanto occidentale, come si troverebbe nell'Afghanistan dell'amatissimo Mullah Omar, da lui incensato come campione di un «medioevo sostenibile» capace di resistere al maleficio dei popcorn, delle patatine fritte e dei centri fitness?

Raffaele Liucci

Il Sole 24 Ore, 29 marzo 2015