0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

Magdi Cristiano Allam è sotto processo davanti al Consiglio disciplinare dell'Ordine dei giornalisti su ricorso dell'avvocato Luca Bauccio in rappresentanza di un'associazione legata all'Unicoi (Unione delle comunità islamiche d'Italia). L'accusa è quella di 'islamofobia', per quanto Allam ha scritto e scrive. L'avvocato Bauccio si fa forte di un precedente, quando il Consiglio di disciplina dell'Odg, su pressioni della comunità ebraica, sanzionò, con due mesi di sospensione, il direttore di un giornale lombardo che pubblicava scritti ritenuti antisemiti («Se storicamente gli ebrei sono stati sempre odiati qualche ragione ci sarà»). In un articolo pubblicato sul Giornale il 14/8 Allam ha sostenuto di non essere affatto 'islamofobo' ma di seguire un discorso coerente, praticato da anni, contro l'islamismo radicale e ha ribadito il concetto, sia pur utilizzando il paradosso, in un articolo successivo. E non ho alcuna ragione per non credere a quanto sostiene Allam. Ma la questione non è questa. Quand'anche lo fosse, Allam ha tutto il diritto di essere 'islamofobo'. Come qualcun altro di essere antisemita o antimalgascio. Anche se qui ci muoviamo semplicemente all'interno del Consiglio disciplinare di un Ordine e non in ambito penale, il tutto affonda le sue radici nella liberticida 'legge Mancino' del 1995 che punisce con la reclusione sino a tre anni «chi diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico, ovvero incita a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi». Nemmeno le dittature erano arrivate a tanto. Hanno punito le idee, oltre che, ovviamente, le azioni, ma non l'odio. Bisognava che arrivassero le democrazie (leggi simili a quella Mancino sono presenti in quasi tutti gli Stati democratici d'Europa) perché si cercasse di mettere le manette anche ai sentimenti. L'odio infatti, come l'amore o la gelosia, è un sentimento e, come tale, incomprimibile. Io ho il diritto di odiare chi mi pare. Sia singoli individui (mia moglie, il suo amante, l'amico fedifrago, il vicino di casa rompicoglioni) sia interi gruppi etnici, razziali, nazionali, religiosi. Sono fatti miei. Anche se la cosa non è molto intelligente perché, come ci ha ricordato Papa Wojtyla, in una delle sue poche sortite felici, «ogni uomo è unico e irripetibile» e non va confuso, facendo di tutta l'erba un fascio, col gruppo, etnico o religioso, cui appartiene. Naturalmente se torco anche un solo cappello a un individuo o a un esponente di un gruppo etnico o religioso che detesto devo finire diritto e di filato in gattabuia.

Purtroppo noi italiani siamo riusciti a sfasciare il Codice del fascista Alfredo Rocco, tecnicamente un capolavoro giuridico, con una serie di leggi 'ad personam' o fatte con la zappa, senza tener conto che un Codice è un 'corpus iuris' che deve essere coerente in ogni suo aspetto, ma ne abbiamo conservato tutte le leggi liberticide, tipiche di un regime totalitario di cui è tutt'ora zeppo ('Vilipendio al Capo dello Stato', 'vilipendio alla bandiera', 'vilipendio alle Forze Armate', Bossi ne sa qualcosa) e altre ne abbiamo aggiunte come la famigerata 'legge Scelba' del 1952 che punisce «chi pubblicamente esalta esponenti, principi, fatti o metodi del fascismo oppure le sue finalità antidemocratiche». In democrazia è obbligatorio essere democratici. Ma questo è l'esatto opposto di un regime democratico o, diciamo meglio, liberale. Poi è venuta la legge Mancino che, nata per tutelare la minoranza ebraica, si è estesa all'universo mondo. Succede sempre così quando, sia pur per nobili motivi, si sfonda un principio: si sa dove si inizia ma non dove si va a finire. Si inizia con l'antisemitismo e si finisce con l' 'islamofobia'. Salviamo 'il soldato Allam'. Anche se lo odio.

Massimo Fini

Il Gazzettino, 5 settembre 2014

0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

Sgozzare un prigioniero e, per sopramercato, filmarne l’esecuzione, è un atto infame. I prigionieri di guerra vanno rispettati. Ciò vuol dire che non devono nemmeno essere umiliati mettendoli nudi a piramide o, sempre nudi a quattro zampe tenuti al guinzaglio come cani, da una soldatessa, con un ‘superadditum’ di agonia per un uomo di cultura islamica, come è stato ad Abu Ghraib o tenerli in gabbie scoperte, esposti giorno e notte, come è avvenuto e avviene tuttora a Guantanamo (vizietto, questo, non nuovo agli americani che nel dopoguerra, a Tombolo, misero in una gabbia del genere, esposto come un animale alla curiosità morbosa della gente, il grande poeta Ezra Pound mallevadore di decine di letterati statunitensi) oppure facendoli sfilare, con le mani legate dietro la schiena, in ciabatte, fra ali di una folla insultante che li bersagliava di uova, come è accaduto a Donetsk ai soldati ucraini prigionieri dei russofoni. Né il prigioniero di guerra può essere torturato, col waterboarding, la deprivazione del sonno e altre pratiche consimili cui sono stati sottoposti i Talebani a Guantanamo. Anche se la tortura, comunque inaccettabile ha un grado di gravità leggermente inferiore perché può essere fatta per estorcere informazioni al nemico, mentre l’umiliazione è solo un atto di puro sadismo esercitato da chi, avendo nel suo pieno potere una persona, dà sfogo alle sue pulsioni più laide.

Anche i Talebani afghani hanno e hanno avuto prigionieri. E tutti, da Daniele Mastrogiacomo di Repubblica alla giornalista inglese Yvonne Ridley alla francese Celine Cordelier dell’Ong ‘Terre d’enfance’ fino al giovane sergente americano Bowe Bergdahl liberato, dopo 5 anni, pochi mesi fa in cambio di alcuni detenuti di Guantanamo, hanno dichiarato di essere stati trattati con rispetto. Appena liberata dopo 25 giorni la Cordelier disse: “Non potrò mai dimenticare che mi hanno nutrito e trattata con rispetto e anche con delicatezza per le mie esigenze di donna”. Ma il caso più significativo è forse quello di Yvonne Ridley. La giornalista inglese, mascherata con un burqua, si era introdotta in territorio talebano proprio nei giorni in cui gli angloamericani cominciavano a bombardare Kabul. Naturalmente i Talebani la sgamarono subito, l’arrestarono e la portarono in una loro prigione, prima a Bagram poi a Kabul. A lei, terrorizzata per essere caduta nelle mani di gente tanto malfamata, venne un blocco allo stomaco, si rifiutava di mangiare. “Ciò addolorò sinceramente i miei carcerieri che cercavano di farmi coraggio”. Poiché non aveva con sé documenti che dimostrassero che era davvero una giornalista, e oltretutto apparteneva ad un Paese che li stava attaccando, i Talebani avevano delle buone ragioni per sospettare che fosse una spia. La interrogarono quindi per alcuni giorni e accertato che non era una spia, la portarono, protetta da una scorta armata, e quindi distogliendo uomini che potevano essere utili altrove, al confine col Pakistan, liberandola. E lei, qualche tempo dopo, si fece musulmana. Non ci sono mai arrivati dall’Afghanistan filmati osceni con i prigionieri costretti alle più umilianti ritrattazioni come fece Saddam Hussein con i giovani soldati americani caduti nelle sue mani o filmati in cui si fanno sfilare i prigionieri come a Donetsk o come fecero gli stessi americani con i primi guerriglieri Talebani catturati ed esibiti alla curiosità dei giornalisti e delle Tv benché implorassero i loro carcerieri di non costringerli a quell’osceno ‘defilé’ (”Piuttosto uccideteci, ma non umiliateci”).

Il fatto è che quello afgano, talebano o no, nonostante gli sia passato sopra l’islamismo, resta un antico popolo tradizionale che conserva alcuni valori prereligiosi, preideologici, prepolitici: dignità, lealtà, rispetto. Valori che gli arabi, dalla lingua biforcuta, non hanno mai avuto e che noi occidentali, russi compresi, abbiamo perduto da tempo.

A me non sono mai interessate le ideologie, mi interessano gli uomini e i loro comportamenti. Per questo, pur non condividendo quasi nulla, sono stato, sono e sarò sempre dalla parte dei Talebani che da 14 anni tengono testa, non aiutati da nessuno se non dalla propria valentia guerriera, al più potente, tecnologico, robotico e vigliacco esercito del mondo. Io sto col Mullah Omar. Un uomo, finalmente, un uomo.

Pubblicato da "Il Fatto Quotidiano" il 30 agosto 2014.
Massimo Fini

0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

Prima di morire devo uccidere qualcuno. Paolo Mieli, per esempio. Perché tutte le volte, poche, che sono stato a cena con lui solo alla fine mi sono reso conto che mi aveva insultato per tutto il tempo. E’ abilissimo. Avvolgente, suadente, subdolo. Ma non ne varrebbe la pena. Gli darei una fama immeritata, sminuendo la mia. Berlusconi, allora?Potevo farlo. Ero in Tribuna d’Onore per un Milan-Torino (1-1). Avevo dei posti regali, né troppo in alto né troppo in basso, che mi aveva dato il vicesindaco democristiano, Zoia, anche lui tifoso del Toro. Io stavo nel sedile più esterno, rasente la scaletta di pietra che divide i Vip dai SuperVip. Berlusconi arrivò all’ultimo momento salendo gli scalini a quattro a quattro con fare un po’ scimmiesco. Mi sfiorò, salutandomi (perché è cortese ed è uno dei suoi vantaggi su quegli spocchiosi della sinistra). Con la pistola – in Tribuna d’Onore, nonostante ci sia il più alto concentrato di mascalzoni, non si fanno controlli – avrei potuto seccarlo tranquillamente. Ma non volevo passare alla cronaca, se non alla Storia, per aver ucciso Silvio Berlusconi. Almeno Erostrato incendiò il Tempio di Artemide a Efeso. Altri politici maschi (si fa per dire, in quest’età femminea i maschi non esistono più, belano, hanno ceduto il cazzo alle donne) degni della mia attenzione non ne vedo. Una donna? Sarebbe più intrigante. Una vendetta postuma contro mia madre anaffettiva, russa e zarista. Daniela Santanché? La Santanché dice delle stronzate inaudite ma personalmente è molto simpatica. Quando la invitai a presentare il mio ‘Di(zion)ario erotico’, al posto di una cretina dal nome altisonante che mi aveva dato buca, fu molto sportiva, perché sapeva di essere una riserva in panchina, divertente e spiritosa. Poiché alla voce ‘Scarpe’ avevo scritto che le donne che portano i tacchi a spillo sono delle ‘oche giulive’ lei esibì orgogliosamente i suoi. In un’altra occasione, a un dibattito, eravamo seduti a fianco mentre parlava Grillini dell’Arcigay. E noi sotto il banco, come dei liceali, ci scambiavamo dei bigliettini feroci sui finocchi (pardon, non si può più dire, come ‘negro’, ‘vu’ cumprà’, ‘forza Vesuvio’, si rischia la galera). No, la Santanché no. Oltretutto ha già la sua condanna in terra: sta con Sallusti. Le altre parlamentari mi ispirano sentimenti neutri. Per la verità una che mi piace c’è, dei 5stelle, ma non la strangolerei, la costringerei alle più umilianti prestazioni, la farei arrampicare nuda sul lampadario, giochetti che un tempo mi riuscivano abbastanza agevolmente, soprattutto con le femministe, le masochiste per eccellenza.

Imbragarsi da kamikaze alla Di Battista e distruggere un monumento famoso, come fece Erostrato? Il Colosseo dopo che Obama l’ha declassato a campo da baseball ha perso ogni appeal. Ma qualcosa che farei saltare volentieri in aria c’è. Il grattacielo a banana costruito davanti alle finestre di casa mia. Lo minerei e lo farei implodere su se stesso come fan gli americani. “Ma, mi raccomando, di notte quando dentro non c’è nessuno” mi ha detto il sempre prudente Padellaro. “No - ho risposto - unt posto del genere non può essere abitato che da stronzi. Se li fai saltare in aria tutti sei sicuro di non sbagliare un colpo”.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 23 agosto 2014