E adesso ci tocca anche il Papa democratico, femminista, di sinistra e magari, chissà, antifascista. «Non sono mai stato di destra». Da quando esistono queste due categorie politiche, cioè dalla Rivoluzione francese, nessun Pontefice si era mai abbassato a tanto, a nominarle. E che significa «non sono mai stato di destra»? Forse che quel Cristo che ha sempre in bocca (povero Cristo), non del tutto legittimamente perchè il cattolicesimo non coincide col cristianesimo, riserva una maggior misericordia a quelli di sinistra (il discorso naturalmente vale, a segno contrario, se avesse detto «non sono mai stato di sinistra»)? L'atteggiamento da 'piacione', cioè di uno che vuole piacere a tutti senza dispiacere nessuno, compresa la tambureggiante retorica della modestia, la sua (il che è il massimo dell'immodestia), Bergoglio, intelligenza fine, da gesuita, non lo ha scelto a caso anche se magari ha assecondato un aspetto reale del suo carattere. Il significato profondo della fuviale intervista a Civiltà cattolica ce lo spiega in un pur contorto articolo sul Corriere (20/09) un cattolico doc come Vittorio Messori (cui, se lo conosco un po', devono essersi torte le budella nel dover far sue le 'aperture' di Bergoglio). Scrive Messori: «E' da questo desiderio di convertire il mondo intero, usando il miele ben più che l'aceto, che deriva una delle prospettive più convincenti fra quelle confidate dal Papa al confratello». Siamo alle solite: all'evangelizzazione. Che muove da uno slancio di generosità (se io posseggo la Verità perchè non farne partecipi anche gli altri?), ma è quel tipo di generosità, come certi favori non richiesti, che ti ricade in testa come una tegola. Nell'evangelizzazione c'è infatti, in nuce, il vizio oscuro che segnerà tutta la storia dell'Occidente, il tentativo di 'reductio ad unum' dell'intero esistente. L'evangelizzazione partorirà molti figli, apparentemente fra loro diversissimi. Il primo sarà l'eurocentrismo, il colonialismo europeo che si basa, almeno a partire dal XV secolo, sulla distinzione fra 'culture superiori' e 'inferiori' e il dovere delle prime di portare la civiltà, laica e religiosa, alle altre. Il secondo figlio -anche se cio' puo' apparir strano- sarà proprio l'Illuminismo che a Dio sostituirà, assolutizzandola, la Dea Ragione. La Rivoluzione francese e le truppe napoleoniche si incaricheranno di esportare, sulla punta delle baionette, questa inedita 'buona novella'. Il terzo figlio -il che puo' apparire ancora più strano- sarà la Rivoluzione sovietica che, sotto il manto del materialismo scientifico e dell'internazionalismo proletario, tenterà di ricondurre tutto il mondo sotto il suo modello (Trotzkij: «La Rivoluzione o è permanente o non è»). Il quarto figlio, il più compiuto e realizzato, è il modello di sviluppo industriale e finanziario di tipo capitalista. La sua formidabile espansione si basa su una sorta di 'evangelizzazione' mercantile e tecnologica che ha al suo fondo la convinzione che questo modello sia «il migliore dei mondi possibili». E' in virtù di questa convinzione che ci siamo intromessi in tutte le altre culture, assimilandole o, quando non è stato possibile, togliendole brutalmente di mezzo. Dio ha preso le forme della ruspa.
Quando Bergoglio afferma che «senza lavoro non c'è dignità» non so se si renda conto che cosi' si inserisce, a pieno titolo, nonostante le sue parole sulla solidarietà e la misericordia, in questo modello disumano. Un suo predecessore, un po' più autorevole, San Paolo, che la Chiesa l'ha fondata, definiva invece il lavoro «uno spiacevole sudore della fronte». Io non sono credente ma, pistola alla tempia, sto con Paolo non con Bergoglio.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 28 settembre 2013
L'acquisto dell'Inter da parte del giovane magnate indonesiano Erick Thohir non segna la 'fine di un'epoca' per la gloriosa società nerazzurra e nemmeno è un segno della decadenza di Milano come scrive sulla Repubblica (25/9) Carlo Verdelli che fa notare come altri pezzi pregiati della capitale meneghina (la sede di via Solferino del Corriere, l'altrettanto storica pasticceria Cova) sono finiti in mani straniere. Potrebbe essere, al contrario, un segno di vitalità. Non si dice forse sempre che in epoca di globalizzazione bisogna essere capaci di attrarre capitali e investimenti dall'estero? Ecco i capitali e gli investimenti. Di che ci lamentiamo?
La cessione dell'Inter a Thohir non segna la fine di un'epopea locale o la decadenza di una città, cose di cui chi non è nerazzurro o milanese potrebbe tranquillamente impiparsi. La questione è più ampia e più grave. Questa cessione certifica, emblematicamente, la fine dell'agonia del calcio, cioè la sua morte simbolica, agonia iniziata almeno trent'anni fa (in Italia dal 1982, quando dopo la vittoria della Nazionale ai Mondiali di Spagna fu introdotto 'il terzo straniero'), in un'epoca in cui di globalizzazione non si parlava ancora. E' da almeno trent'anni che il calcio è stato progressivamente depauperato di quei valori, mitici, rituali, sacrali, simbolici, identitari che per più di un secolo hanno fatto la fortuna di questo gioco, che solo gioco non è, a favore dell'economico, del business e in particolare del business televisivo. Chiunque conosca almeno un po' questo gioco sa che fra calcio da stadio (che nel frattempo, proprio a causa della Tv, ha perso il 40% degli spettatori) e quello televisivo non corre alcuna parentela. Il piccolo schermo inquadra solo porzioni del campo e, ovviamente, si perde la visione d'insieme e alcuni giocatori, specialmente mediani di difesa, vi appaiono raramente eppure sono fondamentali nell'economia del gioco della squadra. Ma questi sono dettagli tecnici. Le ragioni più importanti stanno altrove. Il calcio da stadio era, per dirla con Gramsci, una grande festa 'nazional-popolare' (e cosi' è rimasto in alcuni Paesi nordici come Olanda, Danimarca, Norvegia, Scozia), interclassista che aveva un'importante funzione di coesione sociale. Allo stadio l'imprenditore sedeva accanto all'operaio. Vissuto solipsisticamente a casa, davanti alla Tv, il calcio perde questa sua fondamentale funzione aggregante. Cosi' come perde un'altra funzione che è quella di dare uno sfogo legittimo, e sostanzialmente innocuo, all'aggressività che dorme in ciascuno di noi e che è vitale. E' chiaro che se, sempre per motivi di business (la politica dei prezzi e degli abbonamenti), si schiaffano i ragazzotti, tutti insieme, dietro le porte e in curva questa aggressività puo' diventare molto meno innocente e un pericolo sociale. Il calcio permetteva anche di esaudire un'importante esigenza dell'animo umano: quella identitaria. Ci si identifica in una squadra, nella sua storia, nella sua tradizione, nei suoi colori, nei suoi giocatori-simbolo (Totti, 'romano de Roma', è l'ultimo superstite) ma che processo di identificazione ci puo' essere se i giocatori cambiano squadra ogni anno o addirittura, col mercato perennemente aperto, nello stesso campionato e se le maglie, per esigenze degli sponsor, non sono più quelle tradizionali? E ai piagnoni nerazzuri vorrei ricordare che poco tempo fa l'Inter giocava con questa formazione: Julio Cesar, Maicon, Lucio, Samuel, Zanetti, Cambiasso, Thiago Motta, Schneider, Pandev, Eto'o, Milito. Non c'era un solo italiano. E allora Erick Thohir se lo sono proprio meritato.
Massimo Fini
Il Gazzettino, 27 settembre 2013
A noi servirebbe una crisi molto più profonda di quella che stiamo attraversando. Una guerra, meglio ancora. Ma noi occidentali le guerre le facciamo agli altri, non le subiamo più. In Afghanistan ci sono più di tremila soldati italiani, ma la cosa non tocca la nostra vita quotidiana. Viviamo nelle retrovie. Piuttosto comodamente, tutto sommato. Eppure in giro è tutta una lagna. Le famiglie che non arrivano alla fine del mese. I giovani che non trovano lavoro. Ma nessuno è mai morto, in Italia, perchè non ha trovato lavoro. Caso mai è vero il contrario. I giornali sono zeppi di notizie economiche, di Ftsi, di spread, di Fed, di Eurostock, di imprese che chiudono. Ma l'economia non è tutto nella vita dell'uomo e di una comunità. “Non si vive di solo pane” ha detto qualcuno, che non è stato l'ultimo della pista, in un'epoca in cui il pane non abbondava. La verità è che il benessere ci ha fatto male. Abbiamo perso ogni capacità di soffrire, dimenticando che la privazione è pedagogica e che, come scive Nietzsche, “ogni malattia che non uccide il malato è feconda”. Perchè ci aiuta a riscoprire, o a scoprire, l'autentica gerarchia dei valori, a distinguere fra cio' che è essenziale e quello che non lo è. Durante una guerra un amore va fino in fondo a se stesso, fa piazza pulita delle stronzate, non ci si logora perchè uno schiaccia il tubetto del dentifricio dalla testa e l'altra dalla coda. Durante una guerra depressione e nevrosi, malattie della Modernità, crollano quasi a zero. Nel dopoguerra noi italiani, sconfitti, eravamo infinitamente più poveri di quanto lo si sia ora anche negli strati più bassi della popolazione. Ma eravamo anche infinitamente più sereni e più allegri. Dopo essere scampati ai bombardamenti angloamericani e ai rastrellamenti tedeschi ci bastava d'esser vivi, di gustare l'inestimabile piacere di sentirsi vivi. Tutti fumavano. I film erano pieni di attori con la sigaretta perennemente in bocca (Casablanca e Humphrey Bogart valgano per tutti). Non era ancora nato il terrorismo diagnostico, il terrorismo della medicina preventiva. Si viveva nel presente, non nel sempre imperscrutabile futuro. “I nostri ragazzi non hanno futuro”. Non si è mai sentita sciocchezza più grossa. Un ragazzo di vent'anni ha comunque più futuro di un uomo di settanta pieno di quattrini. Ci siamo inventati diritti inesistenti: al lavoro, alla salute e persino alla felicità com'è scritto nella Dichiarazione d'indipendenza di quegli eterni e pericolosi fanciulloni che sono gli americani (per la verità in quella Dichiarazione è affermato un meno irragionavole 'diritto alla ricerca della felicità' che pero' l'edonismo straccione contemporaneo ha introiettato come un vero e proprio diritto alla felicità). Diritti di tal genere non esistono perchè nessuno, foss'anche Domineddio, puo' garantirli. Esiste, quando c'è, la salute, non un suo diritto. Esiste, in rari momenti della vita di un uomo, un rapido lampo, un attimo fuggente e sempre rimpianto, che chiamiamo felicità, non il suo diritto. In quanto al lavoro: o c'è o non c'è. E sarebbe più saggio affermare se non il diritto almeno la legittimità a battere la fiacca e a oziare. Invece siamo qui tutti, Stati, popoli e individui a sbranarci per 'competere' economicamente, a cio' indotti da un modello demenziale, per poi renderci conto, alla fine dell'esistenza, che abbiamo vissuto per il niente. Ecco perchè credo che, in mancanza di una guerra, una crisi economica vera non potrebbe farci che bene.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 21 settembre 2013