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Anticipando di qualche giorno l’anniversario del quarantennale della morte di Pier Paolo Pasolini, avvenuta nella notte fra il 1° e il 2 novembre del 1975, Il Fatto ha dedicato una serie di articoli a quell’evento. Nel complesso quel che ne viene fuori è la tesi che Pasolini fu vittima di un complotto fascista. Fu lanciata da Oriana Fallaci che lavorava allora all’Europeo. In quell’Europeo c’ero anch’io e fra noi colleghi era notorio che la Fallaci dal parrucchiere, mentre sfogliava qualche rivista, aveva raccolto dei boatos in tal senso. Questa era la serietà delle sue fonti, come del resto è avvenuto in tanti altri casi. Ma la grande giornalista, che non so se abbia mai incontrato Pasolini e che comunque non conosceva assolutamente il mondo notturno che bazzicava, non poteva rimanere estranea a una storia così clamorosa. Così lanciò, con la consueta violenza (si legga l’articolo di Antonio Padellaro) la comoda tesi del complotto fascista. Allora attribuire ogni nefandezza ai fascisti era uno sport nazionale, tanto più facile perché in quegli anni i fascisti erano scomparsi e tutti, dal sociologo paraculo del Corriere della Sera, al Corriere stesso, ai democristiani, a chi scriveva manuali di cucina ma, beninteso, sempre in un ottica ‘rivoluzionaria’, all’ultima cocotte erano diventati di sinistra (qualche tempo prima l’Europeo aveva fatto un’inchiesta dal titolo: “Ma dove sono finiti i fascisti?”). La tesi complottista fu subito presa per buona dal giro degli intellettuali, da Eco in giù, che non potevano accettare che Pasolini fosse morto, com’era morto, cercando di infilare un bastone nel culo al diciassettenne Pino la rana. Non ‘i stava bene’. Invece ogni artista ha delle profonde zone d’ombra che sono spesso proprio all’origine della sua arte (basta leggere la biografia di Proust per capirlo).

Ho intervistato Pasolini nel giugno del 1974 sul tema ‘Il fascismo dell’antifascismo’ e successivamente sul suo controverso film ‘Il fiore delle Mille e una notte’. Fra noi era nata una certa consuetudine. Una notte mi portò al Pigneto, allora uno dei quartieri più malfamati di Roma zeppo di ‘marchette’. Non si frequentano ambienti del genere con un’Alfa Romeo senza che, prima o poi, accada qualcosa. Pier Paolo lo sapeva, cercava il pericolo e forse, inconsciamente, anche la morte.

Pino la rana aveva diciassette anni e tutto l’interesse a denunciare dei complici, meglio ancora dei mandanti, se ci fossero stati. Bisogna aver frequentato quegli ambienti, come dice sul Fatto, sapendo ciò di cui parla, Angelo Pezzana il fondatore del “Fuori”, invece di parlare a vanvera, per capire che anche una ‘marchetta’ a certe richieste si può ribellare.

Qualcosa di simile, sia pur in ambito completamente diverso, avvenne per l’omicidio di Walter Tobagi, che conoscevo benissimo, come conoscevo il pregresso, di cui ero stato protagonista, che porterà alla sua morte, che venne attribuito, nella parte dei mandanti, ai sindacalisti comunisti del Corriere della Sera, in particolare Raffaele Fiengo e Gabriele Pantucci. Una fola lanciata senza prova alcuna dai socialisti di Craxi in funzione politica. Fiengo e Pantucci erano delle autentiche nullità ma proprio per questo assolutamente incapaci di assumersi non dico una simile responsabilità ma nemmeno di concepirla. Ma a parte questa considerazione anche gli assassini di Tobagi, Morandini e Barbone, in epoca di ‘pentitismo’ avrebbero avuto tutto l’interesse a denunciare dei mandanti se ci fossero stati. Ma non c’erano mandanti, c’era solo un clima culturale dissennato, nelle famiglie borghesi come quelle di Morandini e Barbone e nella società, per cui la vita di un uomo non valeva nulla.

Tutto ciò per chi come me ha avuto la possibilità di essere testimone del tempo, e di conoscere abbastanza da vicino le cose di cui oggi si parla, porta a una considerazione amara: il grande giornalismo si fa dal parrucchiere.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 21 ottobre 2015

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Ma chi gliel’ha fatto fare al Santo Padre di indire un Santissimo e Straordinario Giubileo nella Città Santa proprio quest’anno? Bergoglio sta a Roma da più di due anni, non può non conoscerne le condizioni. Oltretutto si picca di viverla in prima persona andando a rifarsi gli occhiali in via Condotti o entrando da semplice fedele in una qualche chiesa o cercando ed esibendo di continuo il contatto con gli ‘umiliati e offesi’. Non può quindi non sapere che la Città Eterna, che nel corso dei millenni ha assorbito tutto, anche i lanzichenecchi, oggi non è più in grado di contenere, com’è per ogni altra città d’arte, da Venezia a Firenze, il flusso dei turisti. Come farà ad assorbire i milioni che sono previsti in arrivo per il Santo Giubileo? L’altro giorno ero davanti alla Fontana di Trevi. Non la si vedeva. Era letteralmente sommersa da corpi di umani. E, dietro, altre decine, forse centinaia, scattavano fotografie. Di che cosa? Forse dei culi di coloro che gli stavano davanti. Non può non sapere che il sistema dei trasporti, nella Città Santa, è al collasso.

Ma oltre che la realtà di Roma non può non conoscere quella italiana. Anzi la conosce benissimo. Tanto che vi ficca il naso di continuo come quando emana una sorta di bolla contro il sindaco uscente Ignazio Marino –cosa inaudita come, mi pare, abbia notato la sola Sabrina Ferilli- o fa dire al suo Vicario, il cardinale Agostino Vallini, che “Il tema di una nuova classe dirigente non è più rinviabile”. Perché non fa lo stesso per la classe politica francese o belga o spagnola? In realtà poiché non siamo, almeno per ora, una teocrazia, il Papa non ha alcun diritto di intromettersi negli affari interni dello Stato italiano. Questo vezzo è cominciato una quarantina di anni fa con un altro Beatissimo Pontefice il ‘Santo subito’ Karol Wojtyla. Da allora il Papa e le gerarchie ecclesiastiche non hanno perso occasione per occuparsi della politica italiana. Wojtyla semiscomunicò la Lega perché chiedeva l’indipendenza della Padania. Come se l’unità o meno di uno Stato avesse qualcosa a che fare col magistero della Chiesa per quanto si voglia estenderne le funzioni. All’epoca dei democristiani, quelli veri, simili intromissioni non erano permesse. Perché i democristiani, almeno da De Gasperi fino a Fanfani e dintorni, avevano il senso dello Stato. Questi qui invece gli permettono tutto, al Papa e ai suoi.

Comunque proprio perché è così interessato agli affari italiani Bergoglio non può non conoscere gli scandali dell’Expo, del Mose, di Mafia Capitale, dei consiglieri regionali rubamutande (non pretendiamo che sappia qualcosa di Tangentopoli, allora stava beatamente, per noi, altrove) e quindi non sapere, come sa chiunque anche chi non è Papa, quale orgia di corruzioni, di grassazioni, di appalti truccati porterà il Santissimo Giubileo.

“S’i’ fosse foco, ardere’ il mondo; s’i’ fosse vento, lo tempestarei; s’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei; s’i’ fosse Dio, mandereil’en profondo; s’i’ fosse papa, serei allor giocondo, ché tutti cristiani embrigarei; s’i’ fosse ‘mperator, sa’ che farei? A tutti mozzarei lo capo a tondo. S’i’ fosse morte, andarei da mio padre; s’i’ fosse vita, fuggirei da lui: similemente faria da mi’ madre. S’i’ fosse Cecco, com’i’ sono e fui, torrei le donne giovani e leggiadre: e vecchie e laide lasserei altrui”. Se fossi io, come sono e fui, il Papa lo rimanderei volentieri ad Avignone.

Massimo fini

Il Fatto Quotidiano, 14 ottobre 2015

 

 

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Caro direttore,

l'attenzione della comunità internazionale si è concentrata sulla strage perpetrata dagli americani all'ospedale di Médecins sans frontières a Kunduz. Giustamente. Ma risulta che in quello stesso giorno, o notte, almeno tre quartieri della città, in mano ai Talebani, siano stati bombardati. Possibile che in questi casi i bombardamenti siano stati talmente 'chirurgici' da colpire solo i guerriglieri e non anche i civili? Ci piacerebbe che qualcuna delle tante pie organizzazioni internazionali desse qualche informazione in proposito.
E qual è ora la situazione a Kunduz? E' ancora occupata dai Talebani o è stata riconquistata dall'esercito 'regolare' afgano o, per meglio dire, dalle forze speciali della Nato dato che il primo è pressoché inesistente (solo quest'anno 40.000 soldati del governo afgano se la sono filata)? Non se ne è saputo più niente. Invece la questione è fondamentale perché dalla presa o meno di Kunduz dipende in buona parte l'esito finale di questa guerra opportunamente 'dimenticata'. Il commentatore del
Corriere della Sera, Franco Venturini, solitamente molto ben informato parla di "guerra persa dell'Afghanistan" (Corriere, 7.10.2015).
In realtà non c'è nessuna ragione perché gli americani, e i loro accoliti, restino in Afghanistan. E tantomeno c'è da quando prima il Mullah Omar e poi Mansour hanno dichiarato la loro netta ostilità all'Isis di al Baghdadi (a fine gennaio i Talebani hanno arrestato il sedicente emiro Abdul Rauf Khadim e 45 dei suoi uomini che volevano infiltrarsi in Afghanistan in nome dell'Isis). Nella guerra globale all'Isis i Talebani potrebbero essere, anzi sono, sia pur indirettamente dei nostri alleati.
L'unica ragione per cui gli americani, e i loro accoliti, restano in Afghanistan è per "salvare la faccia", cioè per non ammettere che hanno perso questa guerra vergognosa. E quindi per salvare questa bella faccia si continua ad occupare, a uccidere, a massacrare.
Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 10 ottobre 2015