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Da ieri al Sistina si ridà per l'ennesima volta Jesus Christ Superstar. Io lo vidi a Londra nel 1972 in un teatro del West End prima che nel 1973 se ne facesse un film che gli diede fama internazionale. Ma a teatro è meglio perché è più essenziale. Eravamo un gruppo di ragazzi e ragazze a Londra per perfezionare il nostro inglese. Jesus era in scena da tre giorni. Prendemmo i biglietti e andammo. Allora era tutto più semplice, oggi per un concerto di Zucchero devi prenotarti sei mesi prima.
Jesus Christ Superstar è la più perfetta opera hippy. Non a caso è coeva alla 'grande Olanda' dei Neeskens, dei Cruijff, dei Krol, l'Olanda del 'calcio totale', che non ha nulla a che vedere con l'andirvieni monotono e scontato dei terzini di oggi, dove i giocatori facevano tutti i ruoli, il portiere Jongbloed, un pazzo, stava costantemente nel cerchio di centrocampo, e giocavano per divertirsi, dentro e fuori del campo e in ritiro portavano le mogli e le fidanzate, cosa proibitissima allora. L'Olanda hippy appunto. Che perse due finali mondiali perché le giocò sul campo dei padroni di casa nel 1974 con la Germania, che perlomeno era una grande Germania, con Beckenbauer e Breitner, e con gli assassini dell'Argentina che falciarono subito Neeskens che dovette giocare tutta la partita col braccio al collo (ah, quel palo di Resenbrink all'ultimo minuto, dimostrazione, se ce ne fosse bisogno, che Dio non esiste, il che ha qualcosa a che vedere con Jesus Christ Superstar). Il movimento hippy era nato in realtà negli anni Sessanta ma trovò le sue migliori espressioni, Jesus Christ appunto e il calcio olandese, quando ormai era finito ed imperversavano i sessantottini e postsessantottini che sbandieravano Marcuse senza averlo letto nè tantomeno capito (per questi imbecilli Adorno e Horkheimer erano già troppo).
Il Cristo di Jesus è un borderline, uno che delira, che crede veramente di essere figlio di Dio. Memorabile è la scena in cui Ponzio Pilato, in tunica rossa, infligge, su un parterre a scacchi blu e rossi che somiglia a un flipper, le famose 39 frustate a Cristo, che si è spogliato della veste bianca, perché la smetta di dire che è figlio di Dio. Pilato in realtà vuole salvarlo perché il mob, alias gli ebrei, ne pretende la crocefissione per questa blasfemia. Sullo sfondo ballano ragazzi inglesi, capelli lunghi, tipo Beatles. E' il coro greco in versione moderna. Ma Cristo Superstar non può rinnegare se stesso. Alla fine Pilato gli dice «You are foolish Jesus Christ. How can I help you?» se sei così testardo, non ti rendi conto che la tua vita è nelle mie mani? «You have nothing in your hands. Everything is fixed and you can't change it». Cosa che farà dire a Giuda, in un passaggio precedente, quando si impicca: «Se ogni cosa è già stata stabilita allora tu Cristo, se sei veramente il figlio di Dio, sei il mio assassino (you have murdered me)». Ma Cristo non è il figlio di Dio. E' solo uno che crede, da folle, di esserlo. E questo rende ancora più commovente il passo del Vangelo quando Cristo, inchiodato sulla croce, dubita, umanamente dubita: «Padre, padre. Perché mi hai abbandonato?».
Jesus Christ Superstar fa piazza pulita di tutti i luoghi comuni della Chiesa cattolica, del suo insopportabile senso di colpa -Giuda (il bello del senso di colpa è che la pena ricade sempre sulla testa degli altri) dà agli ebrei la parte di fanatici che ebbero in quell'occasione, restituisce a Pilato il ruolo, degno, che ebbe e soprattutto all'uomo, impersonato da Jesus Christ, la sua umanità.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 19 aprile 2014

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Il Tribunale di Sorveglianza di Milano, concedendo a Silvio Berlusconi l'affidamento in prova ai servizi sociali, fra le limitazioni imposte al detenuto ha accolto una di quelle indicate dal Procuratore generale Antonio Lamanna secondo il quale l'ex Cavaliere non potrà «diffamare o peggio calunniare singoli magistrati», pena la perdita del beneficio. Il Tribunale si è espresso con parole leggermente diverse ma che hanno lo stesso significato: il detenuto, finchè rimarrà tale, non potrà «insultare i magistrati con frasi offensive in spregio dell'ordine giudiziario». Io non credo sia compito della Magistratura stabilire, a priori, ciò che un uomo politico può o non può dire, semmai se costui si rende realmente responsabile di diffamazione o di calunnia nei confronti di chichessia la Magistratura può agire 'dopo' attivando un'ulteriore azione penale.
La questione in realtà sta a monte e risiede nella domanda: può un condannato, che pur sconta la pena ai servizi sociali, continuare a fare, nel periodo in cui è detenuto, il mestriere che faceva prima, nel caso di Berlusconi quello del politico? Poniamo che al posto di Berlusconi ci sia un calciatore condannato per aver truccato qualche gara e che goda anch'esso del beneficio dell'affido ai servizi sociali. Se costui può continuare ad allenarsi, a giocare ogni domenica le partite, anche quelle in trasferta perché il Tribunale gli concede in queste occasioni di uscire dalla regione in cui dovrebbe essere confinato, dov'è la pena?
Non intendo qui infierire su Berlusconi, prendo solo il suo caso come esempio per dire che i benefici ai detenuti, accumulatisi negli anni, fanno acqua da tutte le parti, perché finiscono, di fatto, per annullare la pena. Prendiamo un rapinatore che è stato condannato a quattro anni. Tre gli vengono condonati dall'indulto. Ne rimane uno. Che si riduce a dieci mesi e 15 giorni perché potrà godere, come tutti, di 45 giorni di 'liberazione anticipata'. Poiché ha più di settantanni non va in prigione ma viene ammesso all'affido in prova ai servizi sociali. Per quattro ore alla settimana dovrà adoperarsi in lavori 'socialmente utili'. La limitazione alla libertà personale si riduce a 168 ore. E' una pena adeguata per un reato così grave? Così com'è adeguata per una frode fiscale arcimilionaria?
Ma mi rendo conto di parlare per parametri antichi, vetusti, superati. In Italia non esistono più regole. Il presidente del Consiglio annuncia provvedimenti importanti per il Paese su twitter, qualche ministro lo corregge parlando a uno dei trenta talk show, parlamentari dell'opposizione replicano su facebook. Io credo che un premier dovrebbe prendere le sue decisioni nel Consiglio dei ministri e poi comunicarle al Parlamento e, se approvate, farle pubblicare sulla Gazzetta Ufficiale. I parlamentari dovrebbero esprimere le proprie opinioni in Parlamento non sui social network. Così si crea solo una gran confusione in cui il cittadino si smarrisce. Eppoi si dice in continuazione che «bisogna riavvicinarlo alla politica», mentre così non si fa altro che allontanarlo, perché la politica, diffusa e confusa in un'immensa, perenne, 'società dello spettacolo', perde ogni credibilità.
Intanto il Presidente della Repubblica presenta un suo libro a 'Che tempo che fa' di Fabio Fazio, come una qualsiasi deb che aspira al successo letterario, e non contento interviene su temi che fan parte della campagna elettorale da cui dovrebbe rigorosamente astenersi per quel dovere di imparzialità che gli impone la Costituzione su cui ha solennemente giurato. Lo slogan del Sessantotto era «Pagherete caro, pagherete tutto». Va riformulato in «rimpiangerete caro, rimpiangerete tutto». Forse anche Craxi. Forse persino il reo Berlusconi, che perlomeno libri non ne scrive. Caso mai li pubblica.
Massimo Fini
Il Gazzettino, 18 aprile 2014

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Ferruccio Sansa (Il Fatto, 7/4), che leggo sempre volentieri perché ogni tanto scantona dai temi della legalità e della politica che sono propri del nostro giornale, avendo letto, a Londra, su una grande lavagna la frase «Prima di morire vorrei...», riflette sulla vecchiaia, la morte, il tempo.

Nella mitologia greca Cronos, il padre degli dei, mangia i suoi figli. Cosa vuol dire questa metafora? Che il Tempo ci divora. E' il padrone ineluttabile delle nostre esistenze. («Vola il tempo, vola e va, ma forse più del tempo, che non ha età, siamo noi che ce ne andiamo»- De Andrè). Per rimuovere questo pensiero riempiamo la nostra vita di ogni sorta di cose, di azioni e di sentimenti (i quali, nella mia ottica, non sono che delle, non innocue, malattie psicosomatiche). Cerchiamo in tutti i modi di 'ammazzare il tempo'. Purtroppo è il Tempo che ammazza noi.

«Caro agli Dei è chi muore giovane» scrive Menadro. Quando ero ragazzo pensavo che fosse solo una bella battuta d'autore. Credo invece che contenga una cruda verità. La morte di Ayrton Senna, trentenne -quando, dopo vari preavvertimenti, si infila il casco, come il cavaliere medioevale si cala la celata, sapendo che va a morire, ma il suo orgoglio di campione non gli concede scelta- non è tragica, è epica, è una morte nella pienezza della salute, nello splendore della giovinezza. E' una morte in bellezza. La morte biologica, quella in genere del vecchio, con un corpo che si sta disfaccendo, ci fa orrore.

Ma forse ad essere baciati in fronte dagli Dei sono solo coloro che non sono mai nati. Perché una volta che ci sei entrato, nella vita, non hai più scampo. Non puoi evitare il torturante confronto col Tempo. E finché ci sei te la devi giocare questa partita.

Credo di aver fatto il giornalista nell'illusione di contrastare il Tempo, di allungarlo, di dilatarlo vivendo più vite coll'immergermi in quelle altrui. E ho distillato la mia con la studiata lentezza con cui si spillano le carte da poker, cercando di assaporarne ogni istante. E se ho sempre amato la notte è perché ha la qualità del tempo sospeso. Ma, naturalmente, non c'è stato niente da fare. Non si può contrastare il Tempo. Anzi più ti opponi più vola. E la sua velocità è inversamente proporzionale all'età. Quanti secoli ci abbiamo messo per uscire dall'infanzia? La giovinezza, pur essendo cronologicamente e quindi oggettivamente assai più lunga, passa molto più in fretta. Dopo i quaranta il tempo comincia a correre, passati i cinquanta precipita. E in vecchiaia accade una cosa bizzarra e straziante. La giornata, poiché siamo molto meno impegnati, è lunghissima, immersa in una noia mortale, non finisce mai, ma gli anni passano uno dietro l'altro («E' di nuovo Natale? Ma non è stato ieri?») a una velocità cosmica.

E' l' 'atra senectus', la cupa, buia, vecchiaia come la chiamavano i Latini più pragmatici, meno retorici e disposti a mentirsi addosso. 'Senectus ipsa est morvus', la vecchiaia è una malattia in sè dice Terenzio e Seneca aggiunge «e per giunta insanabile» («Vecchio è bello» è uno slogan moderno per convincerci ad essere ancora dei consumatori sia pur deboli, cui si accoppia l'altra mostruosità, quella della medicina tecnologica che vuole 'salvarci' a tutti i costi, ma lasciateci almeno morire in santa pace, perdio).

Tuttavia l'aspetto più drammatico della vecchiaia non è la decadenza fisica, ma l'impossibilità di un progetto di vita. Esistenziale, sentimentale, professionale (a meno che uno non se ne renda conto, siano elevati inni all'ateriosclerosi). Manca il tempo. Manca il futuro. Manca la speranza. «Basta che non ci debba mai mancare qualcosa da aspettare» canta il menestrello Jannacci. Ecco, ciò che manca alla vecchiaia è proprio «qualcosa da aspettare». Se non la morte.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 12 aprile 2014