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L'altro giorno un mio amico, tifoso della Beneamata, mi diceva: «Stavo guardando una partita in tivù e c'erano delle maglie nerazzurre, ma non capivo che squadra fosse perché non riconoscevo nemmeno un giocatore, poi in panchina ho visto lo zio, Bergomi, e ho capito che era l'Inter». Milan e Inter hanno, mi pare, 13 stranieri a testa e in tutto ce ne sono circa un centinaio, provenienti da tutte le parti del mondo, anche dalla Sierra Leone e dal Senegal. Nell'immediato, quest'invasione è una conseguenza della nota «sentenza Bosman», ma le radici affondano molto più lontano. È da almeno una quindicina d'anni che il calcio europeo, e quello italiano in particolare, ha imboccato decisamente la strada dello show- business di tipo americano. È una via che lo porterà all'estinzione, anche se ci vorrà qualche tempo. Infatti diversamente dagli sport americani il calcio, nato in Europa, prima di essere business, spettacolo, gioco, prima addirittura di essere sport è un rito, come nella Grecia classica lo erano i Giochi olimpici o delfici o pitici. Poiché è innanzitutto un rito, il calcio è legato a motivi mitici, simbolici, sentimentali, emotivi, irrazionali. Che sono quelli che lo show-business sta spazzando via dai campi di gioco. Non solo non esistono più giocatori-bandiera, non esistono giocatori che possono essere identificati, per più di un anno o due, con una squadra, coinvolti in un tourbillon di trasferimenti e di affari. Restano le maglie, ma da sole, non bastano. Undici giocatori di colore o, perché non ci si accusi di razzismo, 11 tedeschi che indossano le maglie rossonere non sarebbero più il Milan, ma una sorta di Harlem Globetrotters che hanno certamente a che fare con lo spettacolo e gli affari ma non con lo sport e tantomeno con la ritualità, la simbologia, il processo di identificazione che han fatto del calcio la grande passione di alcune generazioni di uomini (maschi). Bisogna dire che Berlusconi, uomo nefasto ovunque metta lo zampino, una specie di Mida alla rovescia, ha dato una grossa spinta a questa razionalizzazione estrema del calcio nel senso dello show-business e della rappresentanza di motivi e di interessi che col calcio non hanno nulla a che vedere. (E non mi si accusi di essere prevenuto, lo scrissi subito, nell'86, in tempi non sospetti: «O il calcio distruggerà Berlusconi o Berlusconi distruggerà il calcio»). È stato Berlusconi a dire: «Il Milan vince perché adotta la filosofia Fininvest». Da anni il Milan non è più una squadra di calcio di Milano, ma il settore pubblicitario trainante della Fininvest. Se lo cercate sull 'elenco telefonico non lo trovate sotto Milan ma alla voce Fininvest (o Mediaset). E il Cavaliere ha completato l'inquinamento mischiando calcio e politica, per cui uno non sa più se sta tifando per il Milan o per le fortune parlamentari dell'onorevole Berlusconi. Naturalmente molte altre società hanno seguito a ruota. Ma quando il tifoso si renderà conto che in campo non ci sono più il Milan, la Juve, il Parma, la Roma, la Lazio ma Mediaset, la Fiat, la Parmalat, la Cirio e i loro interessi aziendali, economici, e financo politici smetterà di andare allo stadio. Perché si entra nel cerchio magico dello stadio (come del casinò o dell'ippodromo o di qualsiasi altro gioco) proprio per lasciarsi alle spalle l'economia, la politica e tutto quanto già funesta il nostro quotidiano. Del resto è dal 1980, anno della riapertura agli stranieri, che il calcio sta perdendo presenze allo stadio, che sono calate del 30 per cento. Perchè il tifoso autentico non va allo stadio per vedere Maradona e Platini o, oggi, Ronaldo e Weah, ma per identificarsi in una maglia, in un colore, in un simbolo, in un sentimento, in una tradizione, in una storia (del resto per tanti anni il calcio è stato molto seguito per radio dove non era certo questione di spettacolo )Il calcio si avvia a diventare uno spettacolo puramente televisivo, deprivato di tutti i suoi elementi rituali, simbolici, sentimentali, irrazionali. Continuerà ancora per un po', proprio in virtù dell'apporto della tivù, a essere un gigantesco business. Ma poi, spogliato dall'apporto del tifoso, sostituito da un telespettatore indifferenziato (donne persino), finirà per confondersi con una qualsiasi Domenica in. A questo punto gli apprendisti stregoni avranno ucciso la gallina dalle uova d'oro. Per intanto il calcio ha già perso la sua fondamentale funzione sociale di sport nazional-popolare, unificante, interclassista, che vedeva insieme allo stadio, gomito a gomito, l'imprenditore e il suo operaio, il borghese e il proletario. Al contrario oggi il calcio, fra politica degli abbonamenti, prezzi altissimi, confinamento del tifoso povero nelle «fosse» dietro le porte, e sua degradazione a teppista, partite decrittate e Pay per view, è diventato uno strumento di discriminazione classista. «Gli Dei fanno impazzire coloro che vogliono perdere». Il calcio era rimasto forse l 'ultimo elemento unificante di quest'Italia, da Nord a Sud. Sono riusciti a rovinare anche quello. Vorrà dire che faremo un campionato padano (Milan e Inter vadano a giocare nello Zimbabwe o in qualche torneo interstellare), certamente più povero, più modesto, meno spettacolare ma tanto più ricco di campanile, di pathos, di comunanza. Qualcosa che sia il più lontano possibile da questo isterico volgare intruglio affaristico-televisivo e ritorni ad essere quella bella festa domenicale, fatta di passione e di bonari sfottò, che il calcio è sempre stato.

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Nella più pura illegalità le forze della Nato stanno chiudendo il cerchio intorno a Radovan Karadzcic, l'ex leader dei serbi di Bosnia, per portarlo davanti alla Corte internazionale delI' Aja nelle vesti di criminale di guerra. Com'è costume gli occidentali si servono del solito Quisling che nella fattispecie è interpretato da Biljana Plavsic, presidente della Repubblica dei serbi di Bosnia. La Plavsic, un fantoccio in mano agli americani, è stata sfiduciata dal proprio Parlamento? Poco importa: la signora ha sciolto il Parlamento. La Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo lo scioglimento? Ecchisenefrega della Corte Costituzionale: la signora Plavsic continua a fare il presidente. Nei giorni scorsi le forze della Nato hanno circondato a Banja Luka cinque edifici dove ci sono importanti insediamenti della polizia locale e, per usare l'eufemistica formula del Corriere della Sera, «hanno «agevolato» l'uscita dai commissariati dei poliziotti serbo-bosniaci nemici della Plavsic, disarmati e sconfitti» (Corriere 21/8). Questa operazione totalmente illegale è stata giustificata dal vice-comandante della polizia Nato, Werner Schum, col fatto che «l'arsenale ammassato nelle sedi della polizia indica che forse i «falchi» stavano per preparare un atto di forza contro la Plavsic». Come se fosse un 'inquietante stranezza che nella sede centrale della polizia, nella scuola di polizia e in tre commissariati si trovino delle armi. In realtà l'atto di forza è servito alla signora Plavsic per nominare i nuovi vertici delle forze dell'ordine. Ma il ministero dell'Interno della Repubblica serba di Bosnia ha fatto notare che, «la Plavsic non ha la facoltà di destituire o nominare quadri delle forze dell'ordine». Ma anche questo non importa, ciò che conta è mettere le mani, in un modo o nell'altro, sui «criminali di guerra» Radovan Karadric e Ratko Mladic, considerati gli unici responsabili del conflitto bosniaco. Il che è una menzogna. I principali responsabili stanno altrove. Come ricordava Aleksandr Solgenitsyn in un mirabile articolo pubblicato dalla Repubblica (21/8) «l'onorabile compagnia dei leader delle principali potenze occidentali...sono stati loro a mettere in moto l'estenuante guerra civile». Il perché è presto detto. Quando i Paesi occidentali e il Vaticano riconobbero nel giro di 48 ore l'autoproclamazione d'indipendenza (sacrosanta, s'intende) della Croazia e della Slovenia dalla Jugoslavia sapevano benissimo che ciò avrebbe immediatamente aperto il problema Bosnia. Una Bosnia multietnica, a guida musulmana, aveva infatti senso solo all'interno di una Jugoslavia multietnica. I serbi di Bosnia chiesero quindi a loro volta di proclamare la propria indipendenza o di riunirsi alla Serbia. Ma la comunità internazionale, manovrata dagli Stati Uniti e dalla Germania, rifiutò ai serbi di Bosnia quella autodeterminazione che avevano invece riconosciuto ai croati e agli sloveni. E i serbi scesero in guerra. In questa guerra, combattuta dalle milizie ma appoggiata dalle popolazioni di tutte e tre le etnie in lotta (serba, croata e musulmana) si sono avuti, oltre che atti di valore, anche delle atrocità inutili e odiose. Come in ogni guerra. Ma queste atrocità sono state compiute da tutte le forze in campo. Ricorda ancora Solgenitsyn: «i cadaveri di civili fatti a pezzi scoperti in Bosnia appartengono a tutti i campi». Ma davanti al Tribunale dell' Aja sono stati mandati quasi esclusivamente serbi, qualche croato (tanto per mantenere in piedi la finzione della neutralità) e nessun musulmano (i musulmani di Bosnia non sono integralisti e sono quindi molto graditi all'Occidente). In particolare i serbi (un milione dei quali era stato massacrato durante l'ultima guerra mondiale dagli hitlerocroati) sono stati accusati di aver praticato la pulizia etnica. Ma non sono stati i soli. Anzi, se si va a ben guardare, la più colossale «pulizia etnica», e anche la meno giustificata, è stata fatta dai croati quando hanno invaso la Krajina e ne hanno scacciato, in un sol colpo, 200 mila serbi uccidendone a mucchi. Ma nessuno pensa seriamente di portare il presidente Tudjman davanti al Tribunale dell' Aja. In realtà quello che si sta mettendo in piedi alI' Aja è il classico processo dei vincitori ai vinti, sulla scia di Norimberga. Precedente sciagurato perché fa coincidere il diritto con la forza: la forza dei vincitori. Nel caso slavo la cosa è particolarmente iniqua perché erano stati i serbi a vincere sul campo. Ma poi è intervenuto lo sceriffo americano che ha voluto diversamente e ha deciso che tre etnie che hanno ottime ragioni per odiarsi convivano in uno Stato inesistente: la Bosnia Erzegovina. Ma andare a mettere il dito negli ingranaggi della guerra è sempre foriero di tempesta. Perche la guerra ha una sua ecologia e una sua funzione: risolvere un conflitto una volta per tutte. E i morti e i lutti che una guerra provoca trovano almeno una ragione nel raggiungimento di questo obbiettivo. Invece aver voluto comprimere la guerra, dandole un corso e uno sbocco diversi da quelli che naturalmente aveva avuto, ha reso solo quel conflitto latente, a covar minacciosamente sotto le ceneri. E si può star certi che, come qualsiasi artificiale compressione della natura, prima o poi ritorna indietro come un boomerang, così prima o poi quel conflitto riesploderà in maniera ancor più devastante. Rendendo beffardamente inutile, invece che fecondo, il sangue che è già stato versato.

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E' un colpo di coda della belva ferita. I magistrati di Milano «non vogliono mollare l' enorme potere che hanno conquistato negli ultimi anni» (Tiziana Maiolo, Forza Italia). «Il pool milanese mira a colpire i deboli» (Tiziana Parenti, Forza Italia). «Mi chiedo se questa richiesta non serva di lenimento alle sofferenze denunciate qualche giorno fa da un sostituto procuratore della Repubblica di Milano» (Filippo Mancuso, Forza Italia). «La procura di Milano ha inteso porre al Parlamento una questione di fondo: se il Pds sta ancora con il pool o sta con, loro direbbero, Berlusconi, o con, diremmo noi, lo Stato di diritto» (Marco Taradash, Forza Italia). «Cesare Previti paga la barbarie di un sistema giudiziario di cui il pool di Milano è portabandiera» (Amedeo Matacena, Forza Italia). «La procura di Milano conferma di impiegare ogni mezzo per tentare di distruggere l'opposizione democratica» (Claudio Scialoja, responsabile organizzativo di Forza Italia). «Sono convinto che siano del tutto assenti i presupposti di legge per la richiesta di arresto» (Alfredo Biondi, Forza Italia, ex ministro della Giustizia passato alla storia per aver tentato di promulgare il decreto «salvaladri» ). «Per me è un golpe» (Marcello Pera, Forza Italia). Queste le reazioni di alcuni esponenti di Forza Italia alla richiesta di arresto dell' onorevole Cesare Previti avanzata dalla Procura della Repubblica di Milano e indirizzata alla Camera cui spetta concedere o meno l'autorizzazione. Sono reazioni che meritano qualche chiosa, in linea di principio e in linea di fatto. In principio non è in alcun modo accettabile che ogni volta che un provvedimento della magistratura colpisce un uomo politico si gridi all' attentato all' autonomia del Parlamento e al complotto. Tanto varrebbe allora sancire che gli uomini politici sono legibus soluti, non hanno il dovere di rispettare le leggi che regolano invece la vita dei comuni cittadini, re introdurre l' obbligo da parte della magistratura di chiedere l' autorizzazione a procedere anche solo per indagare su un parlamentare, obbligo che per circa un ventennio ha consentito a innumerevoli mascalzoni della Prima Repubblica di non rispondere dei loro atti criminali. Si sperava che nella Seconda Repubblica le cose andassero diversamente. E, in effetti, si era cominciato bene riducendo l' obbligo di richiesta di autorizzazione all' arresto e alle perquisizioni, essendosi la comunità resa conto, dopo lo shock di Tangentopoli, che quella guarentigia ottocentesca andava bene, appunto, nell'Ottocento quando un ministro accusato di aver portato via dal suo ufficio un po' di cancelleria si suicidava per la vergogna, ma era diventato un anacronistico e inammissibile privilegio in un' epoca in cui la moralità pubblica è sotto zero. Ma se poi ogni volta che la magistratura prende un provvedimento nei confronti di un parlamentare la si intimidisce e la si aggredisce con questa violenza, siamo punto e a capo. In linea di fatto l' onorevole Previti è indifendibile. Che dire di un avvocato che prende in un colpo solo 21 miliardi dagli eredi di Nino Rovelli proprio nel momento in cui costoro ne ricevevano 670 in conseguenza della causa vinta con l'Imi e senza aver avuto alcun ruolo ufficiale nel processo (i legali dei Rovelli erano Are e Giorgianni)? La difesa di Previti -essere stati quei 21 miliardi il pagamento di parcelle arretrate- è debolissima per non dire risibile. Questi dati di fatto, coniugati con la reputazione, tutt'altro che adamantina, che segue Previti si può dire da sempre, avrebbero dovuto consigliare agli esponenti di Forza Italia, pur nel comprensibile desiderio di difendere un collega di partito, la massima prudenza e cautela. E invece ecco partire d' acchito una campagna sgangherata di aggressione al pool di Milano che segue del resto quattro anni di attacchi forsennati e dissennati alla magistratura da parte di Forza Italia e dei giornali legati all' onorevole Berlusconi. E qui sta una buona parte della debolezza del Polo e dei motivi che consentono al pur inguardabile Ulivo di Prodi, D' Alema e Veltroni di essere al governo del Paese. Perche attacchi così reiterati e costanti alla magistratura, portati spesso con motivazioni pretestuose, arroccandosi sempre e comunque dietro la tesi del «complotto» e della cospirazione politica, anche quando, con tutta evidenza, si tratta solo di gravi fatti giudiziari, che riguardano truffe colossali perpetrate ai danni di Enti pubblici, cioè alla collettività, cioè con i nostri soldi, esasperano il cittadino comune che le leggi le deve rispettare, senza sconti, e disorientano soprattutto il potenziale elettore di destra che ha nel suo patrimonio genetico la difesa della law and order. Ma che «legge e ordine» ci può essere se il potere politico, già così inviso, dimostra, come sempre, di volersi sottrarre alle leggi che riguardano tutti gli altri? Andando avanti di questo passo, a difendere anche l' indifendibile Previti, una cosa è certa: ci terremo il governo delle sinistre ben oltre il Duemila e di un' alternativa di destra si parlerà quando saremo tutti morti. Bella prospettiva.

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Dai e ridai la rottura fra Silvio Berlusconi e Alleanza Nazionale sulla cosiddetta «questione giustizia» è arrivata. Le dichiarazioni con cui la scorsa settimana Gianfranco Fini ha preso le distanze dal leader del Polo sono tutte gravi ma una, in particolare, è pesante come un macigno. Questa: «Il candidato sindaco del Polo a Palermo si dovrà impegnare a lottare contro la mafia e non contro le istituzioni». Parole che sembrano voler dire cha a Palermo Berlusconi avrebbe preferito un sindaco che facesse il contrario: lotta a favore della mafia contro le istituzioni. A queste e alle altre durissime parole di Fini è seguita una frettolosa riappacificazione, ma fa parte di quel che un Berlusconi d'altri tempi, più sfavillante, chiamava «il teatri- no della politica» e non può mascherare la profonda frattura che c'è stata. Io mi meraviglio che non sia avvenuta prima. An non può seguire Berlusconi nella sua costante e devastante campagna di delegittimazione della magistratura italiana. Per almeno tre buoni motivi. Se An è uscita dal ghetto politico ed è oggi all'onor del mondo lo deve anche alle inchieste della magistratura (e proprio di quella magistratura che Berlusconi più contesta) che hanno spazzato via un ' intera classe dirigente pescata con le mani nel sacco della più abbietta corruzione. A differenza di Berlusconi e dei suoi, Fini e i suoi non hanno nulla da temere dalla magistratura perché il Msi, ossia il partito che hanno diretto prima di fondare Alleanza Nazionale, è stato l 'unico del vecchio regime a non aver partecipato, proprio perché escluso e ghettizzato, alla spartizione della torta. Non ha scheletri nell'armadio da nascondere. In terzo e più decisivo luogo, se An è una Destra non può accettare, senza gravissime ripercussioni sul suo elettorato, lo scardinamento dei principi di law and order che le sono peculiari. E invece è proprio questo che fa Berlusconi. Egli non dice, come è suo diritto, che i magistrati sbagliano nell'inquisire lui e i suoi collaboratori perché sono innocenti. No, Berlusconi dice che settori decisivi della magistratura (quelli che han scoperchiato un malaffare enorme, la cui esistenza è stata provata al di là di ogni ragionevole dubbio e quelli che si battono in prima linea contro la criminalità organizzata) sono autori di un «complotto» ai suoi danni e prendono direttive da un partito, il Pds (o lo ricattano, il che fa lo stesso). Si tratta di dichiarazioni eversive e per capirne la gravità è forse utile un paragone con le partite di calcio. La magistratura è come l'arbitro di una partita, in quanto tale può sbagliare e commettere degli errori, anche gravi, anche decisivi, ma la partita continua, ed è valida. Se però una delle due squadre in campo e i suoi tifosi sono certi che l'arbitro è corrotto e si è venduto agli avversari, la partita salta. Fuor di metafora salta ogni possibilità di convivenza civile e chi ha certezze così gravi dovrebbe avere la coerenza di darsi alla lotta partigiana. Invece Berlusconi e i suoi fanno di peggio: restano nelle istituzioni, chiedono di essere da esse garantiti e certamente se qualcuno entrasse in casa loro e gli rubasse l'argenteria si rivolgerebbero alla magistratura. Ora, nessuna partita è possibile se una delle squadre tiene per buone le decisioni dell'arbitro quando le sono favorevoli e nega la loro validità, rifiutando di ottemperarvi, quando le sono contrarie. Siamo ai fondamentali del diritto, del Patto sociale, di ciò che permette a una società di stare assieme. Berlusconi, col suo atteggiamento irresponsabile, sta minando questi principi. Immaginiamo cosa sarebbe successo se altri grandi imprenditori, pur essi inquisiti e anzi condannati, come Romiti, come De Benedetti, avessero sostenuto anch'essi la tesi del «complotto» della magistratura e scatenato i loro giornali in una forsennata campagna di delegittimazione come ha fatto il Cavaliere. L'ltalia non esisterebbe più, almeno come Stato di diritto, saremmo nella giungla dove vige la legge del più forte che non è certo quella del comune cittadino. Sul Tempo di Roma, antico giornale di destra, non certamente ostile a Forza Italia, Mario Caccavale ha scritto in un editoriale di prima pagina (Tempo, 24/9) che Berlusconi «pretende di fatto l'intoccabilità», per sè e per i suoi uomini. lo suggerisco che, se continua a squassare il sistema, questa intoccabilità sarebbe meglio accordargliela. Per legge. Visto che c'è una Bicamerale che ha l'incarico di riformare la Costituzione, si potrebbe inserire una norma transitoria, magari al posto di quelle, comiche, che vietano il ritorno in Italia dei discendenti maschi dei Savoia o la ricostituzione del Partito fascista, che dovrebbe essere formulata, più o meno, così: «Silvio Berlusconi e i suoi discendenti sono esentati dal rispetto del Codice penale, per il passato, il presente e il futuro. La norma si estende anche agli altri membri e ai famigli della Casa di Arcore». Eviteremmo così, perlomeno, di scardinare i nostri Codici e l'intero sistema giudiziario, con gravissime ripercussioni nella lotta alla mafia, alla criminalità organizzata, alla corruzione e con danni irreversibili al principio di legalità e di uguaglianza di tutti i Cittadini davanti alla legge, come invece stiamo facendo da tre anni per risolvere in modo indolore i problemi giudiziari dell' onorevole Berlusconi.

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In ltalia è nata una Destra mai vista, che sembra aver perso uno dei suoi più importanti punti di riferimento: la difesa di law and order. L'uomo di Destra, tralasciando alcune frange estreme e populiste, è un conservatore,  un borghese, che detesta gli schiamazzi, le irregolarità, il disordine, l' anarchia. E un bonhomme, un padre di famiglia, timorato di Dio, moderato in tutto, a cominciare dalle passioni, metodico, frugale, parsimonioso, industrioso, che desidera poter curare la tranquillità, gli affari e il proprio giardinetto di azioni. È un formalista, un perbenista, uno che fa esordire le figlie al ballo delle diciottenni e le sposa in chiesa con i fiori d'arancio, che è iscritto al Rotary, ai Lion 's o, perlomeno, al Circolo della Stampa. È un signore che vuole le strade sgombre della teppa per portarci a spasso il boxer e perché la figlia, che studia dalle Orsoline, possa girare tranquilla. Insomma l'individuo di Destra, il conservatore, il borghese è uomo d' ordine che, per vocazione, per temperamento, per  interesse, sta dalla parte della legge, della polizia, della magistratura, dell' esercito. Anche perché è convinto che l' ordine costituito sia tutto a suo vantaggio. Per la stessa ragione, ma volta in segno opposto, l' uomo di Sinistra è tendenzialmente non legalitario perché   ritiene che il diritto, sovrastruttura dell' economia, sia al servizio dello Stato borghese e capitalista ed è quindi intimamente avverso a tutte quelle istituzioni che anno il compito di difenderlo: polizia, esercito, magistratura. Poiché per l'uomo di Destra l' ordine è un valore superiore a difesa di tutti gli altri (il fascismo ebbe il consenso perché faceva marciare In orario i treni) egli è a favore di una giustizia che vada per le spicce. E da Destra che è sempre venuto l'elogio del manganello, delle punizioni esemplari, dei metodi investigativi bruschi ed efficaci. E la Destra è sempre stata per la pena di morte. Tanto da meritarsi l'accusa, da sinistra, di essere forcaiola. Ora tutto è cambiato: la Sinistra è diventata forcaiola e la Destra si è scoperta improvvisamente garantista. Anzi ipergarantista. Se 30 anni fa la Destra invocava la galera per chi portava i capelli lunghi o fumava gli spinelli, non aveva alcuna considerazione per i diritti di libertà della persona (la libertà è disordine e l'anticamera dell'anarchia), adorava i «repulisti», oggi grida allo scandalo per un arresto all'alba, cade in catalessi per qualche giorno di custodia cautelare che definisce un metodo per estorcere confessioni con la tortura, si appella ad Amnesty International. Della legge, che fino a qualche tempo fa considerava il suo più sicuro usbergo, l'uomo di Destra, il borghese, ha oggi una paura birbona. Ma soprattutto teme magistratura e magistrati. È da più di quattro anni che i media della Destra, dal Giornale a Panorama e Italia Uno a Rete Quattro al Foglio, conducono una forsennata campagna di delegittimazione della magistratura. È  sui giornali della Destra che si possono leggere quotidianamente per la penna di austeri professori liberali frasi del tipo: «Quando sento parlare dei pubblici ministeri mi viene un fremito di paura»; «lo zelo ignorante dei Pm»; «Questi magistrati che svolgono una funzione che un tempo era dei poliziotti» (Nicola Matteucci, Il Giornale). In quanto ai kamikaze della Destra usano meno giri di parole: la magistratura è «nazista» (Feltri), i magistrati sono degli «assassini» (Sgarbi). Sui giornali della Destra trovano riverita ospitalità gli ex terroristi di sinistra. Ed è sempre la Destra a scavare gallerie per arrivare in qualsiasi modo a provvedimenti di amnistia e al «colpo di spugna» (buon ultimo quelle, respinte dalla Sinistra, di depenalizzare il finanziamento illecito ai partiti). Se spregia la law, cioè la magistratura, la Destra difende ancora, perlomeno, l' order, cioè la polizia? Fino a un certo punto. Anche i poliziotti sono oggetto di malcelato disprezzo (e un'eco si coglie, per esempio, nelle espressioni, prima citate, di Matteucci) da quando hanno preso la cattiva abitudine di entrare nelle case e nelle aziende borghesi sotto le vesti di Guardia di Finanza o di polizia giudiziaria. Si potrebbe pensare che questo passaggio della Destra dalla cultura forcaiola a quella garantista sia un segno di maturità, di civiltà, di progresso. Ma così, purtroppo, non è. Il borghese è diventato garantista da quando le inchieste della magistratura hanno messo in chiaro che dietro i  business men di oggi non c'è alcuna etica weberiana dello spirito del capitalismo ma latrocinio, corruzione, truffa, falsi in bilancio, fondi neri, sporcizia e la mancanza di qualsiasi codice di comportamento, d'onore, di dignità. Ecco perché la Destra non difende più legge nè l' ordine e assomiglia sempre più alla vecchia Sinistra. Con l'aggravante che non ne ha nemmeno gli ideali.